lunedì, febbraio 14, 2011

LA MORTE DI ROSA AMODIO: la sua colpa di essere stata una Ausiliaria della RSI


Savona: ecco la verità sull'omicidio di Rosa Amodio
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Nel triangolo rosso della morte, Savona fu un importante sito di assassini a sfondo politico, anche ad anni di distanza dal 25 aprile 1945, gli ex partigiani comunisti continuarono a regolare i conti, ammazzando decine di persone.



Rosa Maria Amodio è una giovanissima maestra elementare, poco più che ventenne aderisce al Corpo delle Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana, e questo suo gesto suggella la sua condanna a morte. Infatti viene condannata a morte dalla Corte di Assise Speciale, che non era altro che un tribunale creato allo scopo di dare una parvenza di legalità a tante esecuzioni arbitrarie e attuate in fretta per legalizzare vendette personali e altri omicidi di presunti fascisti o spie fasciste, spesso assolutamente innocenti delle accuse ascritte loro.



Rosa Maria Amodio, su suggerimento di amici e parenti, dopo il 25 aprile 1945, decide di allontanarsi prudentemente da Savona per evitare di subire le solite gesta degradanti che i partigiani comunisti riservavano alle ragazze appartenenti al corpo delle ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana : il taglio dei capelli e la verniciatura di rosso del capo in piazza davanti ad una folla di bestie inferocite e anche, in luogo più isolato, lo stupro di gruppo, spesso secretato da una pallottola alla nuca.



Comunque Rosa Amodio, riesce con il suo allontanamento da Savona ad evitarsi nell'immediato questa terribile sorte, poi appena la burrasca passa, torna a Savona e inizia ad insegnare in una scuola elementare. Rosa è una ottima insegnante, i suoi giovani scolari ne sono contenti, la direzione pure, ma i partigiani comunisti non demordono e attendono con freddezza omicida l'opportunità di " giustiziare " Rosa Maria.



La ragazza, coraggiosa e determinata, non sospetta nulla, ma i suoi carnefici la seguono in attesa di poter agire e infatti l'opportunità si presenta il 14 agosto 1947, a ben 3 anni di distanza dalla fine della guerra.



Mentre la ragazza in bicicletta, sta percorrendo il tratto di strada che congiunge Zinola a Savona, una manciata di chilometri , alla altezza del quartiere delle fornaci, notoriamente comunistizzato, nel tardo pomeriggio intorno alle ore 18, viene affrontata da uno squadrone della morte, formata da tre persone, una delle quali impugna una pistola automatica calibro 22, munita di silenziatore, un arma che verrà usata molte volte dai carnefici rossi per eliminare tante persone, colpevoli di non essere comuniste : vanno ricordati infatti, Wingler Giuseppe aderente alla Repubblica Sociale Italiana, , Lorenza Ernesto ufficiale delle Brigate Nere, Amilcare Salemi commissario di Pubblica Sicurezza inviato a Savona per indagare.



La pistola era impugnata dal boia, e coperta da un quotidiano piegato che la celava alla vista dei pochi passanti.



La ragazza ferma la bicicletta e a muso duro affronta a viso aperto i tre assassini da lei sicuramente riconosciuti, che senza alcuna pietà , la ammazzano, vigliaccamente, con una sequenza di colpi e poi la finiscono con un ultimo colpo alla nuca.



La giovane donna è distesa a terra, sull'asfalto, in una pozza di sangue, mentre i tre criminali si allontanano con calma. Per diversi minuti il corpo della ragazza, giacque in mezzo alla strada accanto alla bicicletta, poi qualcuno vinta la paura si avvicinò e coprì con un lenzuolo il cadavere crivellato di colpi.



Nessuno vide, nessuno parlò, in un quartiere come quello decisamente comunista e dominato da una banda di ex partigiani comunisti che imponevano la loro legge sulla legge della civile convivenza.



L'arma non fu mai ritrovata, e un processo farsa negli anni successivi, portò alla condanna di un mitomane che si spense in carcere di tubercolosi, mentre i veri assassini vivevano in libertà tra onori e prebende politiche nella città di Savona.



L'unico che non si piegò al tragico destino della morte della Rosa Maria Amodio fu il suo fidanzato, il quale per conto suo proseguì nelle indagini e dopo un anno dalla morte della sua ragazza, qualcuno gli imbottì la porta di casa di tritolo per convincerlo a desistere dalle sue ricerche a carattere personale. Evidentemente si era troppo avvicinato agli assassini della Rosa Maria, assassini noti come la banda della pistola silenziosa.



Ecco come il 14 agosto del 1947, si poteva fionire ammazzati in una strada di una tranquilla città di provincia come Savona.





roberto nicolick

REGINA VENDRAME AMMAZZATA DAI PARTIGIANI COMUNISTI


Albenga: Regina Vendrame, un’altra vittima innocente della guerra civile
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Una storia raccontata in esclusiva da Roberto Nicolick, studioso e grande appassionato di storia locale che ricorda la morte di una ragazza impiegata alla mensa dell'aeroporto militare


Il documento della Divisione d’assalto Garibaldi “Bonfante” operante ad Albenga durante la guerra civile recita testualmente e freddamente : “…Diamo comunicazione della sentenza di condanna a morte e della avvenuta esecuzione, per volontà del popolo e del Tribunale militare di Albenga, nei riguardi delle seguenti persone, tutte accusate con fatti incontestabili di aver servito i nazi – fascisti a danno delle Formazioni della Libertà…”Segue una lista di nomi e come penultimo appare un nominativo di una donna, Vendrame Regina.Il documento prosegue in modo burocratico : “..la sentenza e’ stata eseguita nei riguardi di ognuno, fuori dall’abitato della città, Albenga n.d.r., verranno inviati a codesto comando i verbali di condanna a morte emessa da questo Tribunale Militare”.Il verbale viene inviato contestualmente ai vari livelli di comando della formazione partigiana della zona di Albenga e anche alla stazione dei Carabinieri.

Ma, chi era Regina Vendrame e cosa aveva fatto di tanto grave per essere catalogata come collaborazionista e per meritare la morte ? Assolutamente nulla !La ragazza, assieme ad altre tre , provvedeva alla cucina della mensa dell’aeroporto militare di Albenga.Mensa a cui mangiavano i militari della guarnigione tedesca dell’aeroporto. Quindi questa povera ragazza non era una ausiliaria dei reparti armati della R.S.I. e tantomeno una pericolosa spia fascista, era unicamente una aiuto cuoca, che a gennaio del 1945, arrivò dal Veneto, nata da una famiglia di 6 figli, ed accettò di lavorare nella cucine dei tedeschi per alcuni buoni motivi: per rabbonire le truppe tedesche ed evitare la fucilazione per rappresaglia di dieci ostaggi, presi dai nazisti in seguito all’uccisione di un militare germanico, e per poter mangiare qualcosa, vista la mancanza endemica di cibo che stava colpendo tutta la popolazione civile.La poveretta, in questo modo, riusciva a mettere qualcosa sotto i denti e anche a portare un po’ di cibo al fratello diciassettenne Lino Vendrame con cui viveva a Villanova D’Albenga.La cosa, però non era stata gradita dai partigiani , che in seguito agirono nei confronti della Regina Vendrame con la solita brutalità, colpevole ai loro occhi di chissà quali colpe.Il giovane fratello della Regina, assistette a ciò che i partigiani fecero alla ragazza.Nel marzo del 1945: un gruppo di partigiani arrivò nottetempo, presso l’abitazione dei due Vendrame, la ragazza subì il taglio dei capelli, e per non perdere l’abitudine, i partigiani razziarono tutto ciò che poterono nella già povera casa, cibo e coperte, minacciando i giovani di tacere assolutamente pena la morte.Ma questo era solo il primo atto di una tragedia, poi seguì il resto : il 25 aprile Regina fu convocata presso il locale C.L.N., ad Albenga, vi si recò a piedi da Villanova, non immaginando a cosa andava incontro, fece la strada assieme ad altre ragazze, anch’esse convocate.Appena giunta inizio il Golgota, le fu dipinta il capo con della vernice rossa, venne portata sul balcone ed esposta allo scherno della gente presente in piazza, poi costretta a cantare la nota canzone “bandiera rossa”, trascinata per le pubbliche strade di Albenga e successivamente fucilata assieme alle sue compagne di sventura.Forse prima di essere uccisa venne anche stuprata, era un trattamento abituale riservato dai partigiani comunisti alle donne accusate di collaborazionismo, ma non esistono prove al riguardo.Questa testimonianza appartiene al fratello, Lino Vendrame all’epoca di17 anni, il quale si salvò dal plotone di esecuzione, grazie al deciso intervento del Parroco che praticamente gli fece scudo con il proprio corpo.Il ragazzo fu testimone degli eventi, rimanendo segnato nell’anima, e ne fece una testimonianza manoscritta che è semplicemente terribile.Regina aveva solo vent’anni, era piena di vita, volenterosa, cercava solo un lavoro per sfuggire alla miseria, non aveva nessun tipo di ideologia politica e la sua vita venne stroncata da tanta violenza e da una raffica di mitra.L’assassino della povera Regina Vendrame, aveva un soprannome che era tutto un programma: “camposanto”, ed era effettivamente un boia di lungo corso, pare che la ragazza fosse la sua 26° vittima, infatti in una trasmissione TV del 97, dichiarò freddamente “..si, qualcuno l’ho tolto di mezzo”. Per il delitto della Vendrame fu processato nel luglio del 1950, e condannato a soli 22 mesi .



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roberto nicolick

LA FOSSA DEI CAVALLI : DOVE I PARTIGIANI COMUNISTI FACEVANO SPARIRE I CORPI DEGLI UCCISI


l racconto dello studioso Roberto Nicolick di un posto dove decine di corpi giacciono in quel pozzo senza avere il conforto di una preghiera, di un fiore, in mezzo a scheletri di cavalli


Nel commettere uno o più omicidi, l’esigenza primaria ,per non essere scoperti, è quella di fare sparire il corpo del reato, cioè il cadavere, la mafia scioglieva il corpo dell’ucciso nell’acido, nella guerra tra gang negli Stati Uniti si buttava il morto alla foce del Fiume Hudson dopo avergli immerso i piedi in un blocco di cemento, alcuni rapiti dall’anonima sequestri Sarda sono spariti divorati dai maiali, tanto per citare alcuni esempi.

In provincia di Savona, dopo il 25 aprile del 1945, visto il superlavoro delle colonne di fuoco comuniste, si prospettò lo stesso problema, soprattutto nel triangolo della morte che comprendeva i comuni di Savona, Quiliano e Vado Ligure, dove le sparizioni di fascisti Repubblicani e soprattutto persone benestanti furono numerose: da qui l’esigenza di trovare un luogo pratico e sicuro dove poter fare sparire i cadaveri degli assassinati senza dare luogo a incresciosi ritrovamenti successivi e ancora più incresciose inchieste giudiziarie che potevano nuocere all’immagine dei partigiani comunisti.

Era necessario trovare un luogo baricentrico rispetto ai vertici del triangolo rosso della morte, un luogo fuori mano ma non troppo, raggiungibile però celato alla vista, vicino ai campi di prigionia che i partigiani comunisti, crearono subito dopo il 25 aprile 45 e che gestivano a Segno e Legino. In quest’ultimo per esempio si giunse a circa 300 prigionieri, numero che i membri della polizia partigiana , spesso e volentieri ridimensionavano con le esecuzioni sommarie e, da qualche parte i prodotti del loro serio ed impegnativo lavoro doveva essere smaltito. Nel campo di Legino soggiornò anche, per poco, la povera tredicenne Pinuccia Ghersi e pure la famigli Biamonti, qualche giorno prima di sparire ovviamente. In effetti i partigiani comunisti avevano trovato un sito idoneo, con le specifiche necessarie, dove nascondere, nei secoli dei secoli, i morti ammazzati, senza dover neppure scavare una fossa con il badile o senza neppure farla scavare, com’era consuetudine al morituro.

Il luogo era a poche decine di metri dal cimitero di Zinola, vicino ai campi di prigionia dove stavano per l’ultimo soggiorno i prigionieri definiti fascisti e quindi da liquidare. I partigiani comunisti disponevano anche di un camioncino preso a nolo da una ditta di Savona, la Ditta Minuto Noleggi, con cui trasportare i prigionieri vivi sino al luogo dell’esecuzione e poi cadaveri. E con burocratica efficienza annotavano i viaggi e i pagamenti del noleggio.

Il nome di questo posto lugubre era “cimitero dei cavalli”, ma ovviamente era solo un soprannome. Nonostante i tempi pericolosi e il clima arroventato, i carabinieri fecero delle indagini su alcune voci che circolavano sulla probabile esistenza del cosiddetto “cimitero dei cavalli” ed appurarono, innanzitutto che non era una favola ma la realtà per quanto terribile, poi si riuscì a stabilire la sua collocazione, ma il triste della vicenda e’ che non fu mai ispezionato al suo interno. Venne stilato un preciso e circostanziato rapporto a firma del Maresciallo Oreste Anzalone. Il posto era situato sullo spiazzo a sinistra del Camposanto di Zinola, Savona, in Via Quiliano, in un appezzamento di terreno destinato all’interramento delle carogne di animali.

Su tale appezzamento sorgeva una vecchia fabbrica di concimi, da tempo abbandonata, e a circa 30 metri dall’ossario del Cimitero, esiste tuttora, entro il perimetro della vecchia struttura industriale, un locale sotterraneo, già adibito a concimaia, che nel periodo anteriore al primo conflitto mondiale, ricevette rifiuti alimentari, merci guaste, carogne di animali affetti da carbonchio, ecc. da alcune mappe catastali le sue dimensioni appaiono di m. 14 per m. 5 per m.8 (per una cubatura di mc. 56 ).

Il locale con le pareti rivestite di pietra, veniva riempito di volta in volta, e il materiale organico in esso versato, veniva eliminato con i vari processi putrefattivi. La chiusura è assicurata da due grosse botole coperte da pesanti coperchi squadrati, nel 1950 il Comune di Savona ne ha vietato l’uso. Negli anni 50, dalle botole emanava un lezzo insopportabile, ed e’ facile capire il perché. Va anche detto che non si provvide alla rimozione del materiale in esso stivato.

Da rapporti dei carabinieri emerge che nei giorni successivi al 25 aprile 1945, elementi sconosciuti, nottetempo, gettarono nel locale sotterraneo, diversi corpi di persone soppresse, probabilmente dopo giudizio sommario e di cui si voleva tenere celata la morte. Gli unici dati certi, testimoniali, si è accertato che in almeno tre occasioni una decina di salme furono gettate nella camera sotterranea, con l’aiuto coatto dei guardiani del cimitero, obbligati dagli stessi sconosciuti ad attendere alla operazione. Le salme in quelle occasioni sanguinavano copiosamente, nessun elemento utile alla identificazione dei morti è stato fornito dai presenti.

Anzi, in una occasione i terrorizzati necrofori, assistettero ad una sparatoria tra gli sconosciuti che avevano portato lì le salme. Uno degli uomini armati cadde colpito a morte e ancora rantolante, fu fatto rotolare dai suoi ingrati “compagni di merende” nella botola, assieme a quelli che magari aveva assassinato poco prima. Fare una stima dei corpi delle persone soppresse contenute dal locale sotterraneo, e’ decisamente impossibile.

E’ curioso il fatto che il Comune di Savona, nel 1950, avuto sentore che c’era qualcosa di strano nel locale sotterraneo, ne vietò l’uso e altra cosa più strana è che nessuna Autorità procedette all’ispezione e allo svuotamento successivo. La realtà è che decine di corpi, oramai ridotti a mucchietti di ossa, giacciono in quel pozzo, coperto da due botole, senza avere il conforto di una preghiera, di un fiore, in mezzo a scheletri di cavalli e altri armenti morti di carbonchio, e nessuno sente il bisogno di scoperchiare questa orribile fossa comune e dare Cristiana sepoltura a queste povere persone, colpevoli solo di far nascere odio omicida ed intolleranza politica da chi predicava la liberazione ma che nei fatti non amava la Libertà.

IL MARTIRIO DI DUE POVERE FANCIULLE: ANCHE QUESTA FU RESISTENZA??


Il martirio di Giovannina Innocenti e Assunta Pierina Ivaldi Assassinate a Pian Castagna , Ponzone Ponzone , in dialetto Piemontese Ponson, è un piccolissimo comune al confine tra la provincia di Savona e di Alessandria, conta circa un migliaio di anime, e’ composto da alcune frazioni disposte lungo la provinciale : Pianlago, Caldasio, Chiappino, Cimaferle, Toleto, Abasse, Piancastagna e Moretti di Ponzone.

La zona è collinare, con dei bellissimi scorci paesaggistici. La popolazione ha avuto, da sempre la cultura caratteristica di questi luoghi: caccia, castagne e funghi e niente altro. Nel corso della resistenza, la zona divenne strategica per le formazioni partigiane comuniste, che effettuavano attacchi alle truppe della Repubblica Sociale Italiana acquartierate nel Sassellese e poi ripiegavano sulle colline attorno a Ponzone.

Dopo il 25 aprile anche in questi posti si consumarono delle atrocità, con la solita giustificazione. La Brigata partigiana che operava in zona, apparteneva alle formazioni Garibaldine, ed era la Brigata “Emilio Vecchia”, precedentemente nominata “Cristoforo Astengo”, il capo era tale Vanni Giovanni Battista e il Commissario Politico era Cavallero Augusto. I contadini della zona, in particolare quelli che abitavano i casolari più isolati , mal sopportavano la presenza e i movimenti delle bande partigiane, visto che spesso avvenivano, da parte di questi, requisizioni di animali da cortile o di derrate alimentari, questi generi alimentari erano importantissimi per le famiglie dei contadini, spesso formata da due adulti e alcuni adolescenti, la cui sopravvivenza era legata, soprattutto nei mesi invernali, agli animali da cortile, galline e pecore e alle poche piante che riuscivano a coltivare : un chilo di patate era una piccola ricchezza.

D’altra parte in quelle zone rurali, i partigiani comunisti imponevano il loro volere con la forza delle armi, opporsi alle requisizioni di derrate, sarebbe stato molto pericoloso. In questo contesto, due giovani donne, Giovannina Innocenti di anni 31, sposata e madre di tre figli, e Pierina assunta Ivaldi di anni 29, nubile di professione sarta, abitanti con le loro famiglie a Pian Castagna , case Viazzi, vengono prese di mira dai partigiani rossi che nel pomeriggio del 6 aprile 1945, si recano presso le loro abitazioni e sotto la minaccia delle armi, tagliano loro i capelli , come vecchio e collaudato sfregio per una donna accusata di essere una spia al servizio dei fascisti, si trattava ovviamente della solita ed abusata falsa accusa.

La cosa, purtroppo, non finisce lì, infatti la sera stessa, del 6 aprile 1945, alle 21, i partigiani ritornano, sfondano la porta dei poveri casolari di campagna e “prelevano” le due giovani donne , senza che i loro parenti possano opporre resistenza, in Spagna nella guerra civil questo tipo di prelevamento era noto come “sacas” I congiunti delle due donne vedranno per l’ultima volta in vita Giovanna e Assunta. Le donne vengono trascinate, per alcuni chilometri, in direzione di La Carta, frazione di Palo, in un accampamento della brigata Partigiana, situato in una vecchia casa abbandonata in zona denominata “In Cravin”, in un avvallamento chiamato Valle Scura. In questo sito, lontano dalle strade percorse dai contadini , si eseguivano le esecuzioni sommarie, a decine ogni settimana.

I contadini di Ponzone e delle frazioni, all’imbrunire sentivano le raffiche dei mitra partigiani spezzare il silenzio della sera: ogni raffica era un morto che si andava ad aggiungere ad altri. Le due ragazze verranno assassinate come quelli che li hanno preceduti, in più dovranno subire abusi sessuali da parte di ventisette criminali che si daranno il cambio nella loro azione scellerata, sino al giorno successivo. Quindi i loro poveri corpi saranno seppelliti sotto un leggero strato di terra, nel bosco, in posti separati. Il marito della Giovanna e il padre della Assunta Pierina, si fanno aiutare da altri amici e parenti, riescono a trovare i cadaveri e danno loro cristiana sepoltura presso il Camposanto di Ponzone. Ora le due povere ragazze si trovano nell’ossario del cimitero.

I Carabinieri della Stazione di Ponzone, dopo qualche tempo, si muovono e indagano , per omicidio premeditato, su due personaggi: Vanni Giovanni Battista e Cavallero Augusto, che guidano il distaccamento partigiano locale. Questi affermano agli inquirenti, nel 1949, di aver dovuto giustiziare le due povere donne, in quanto a loro dire, erano spie fasciste, e di dicono pronti a fornire le prove di questa loro affermazione, dimenticando che spesso le famiglie delle due donne nascondevano in casa partigiani sfuggiti ai rastrellamenti fascisti. Ovviamente anche in questo caso arriva, con tempismo, la comunicazione ufficiale del Comando di Brigata e del CNL , addirittura di un processo “celebrato” dal tribunale partigiano alle due donne, si produce un breve verbale che dimostra la prassi seguita, si fanno i nomi dei componenti, tutti partigiani rossi, della corte di “giustizia” partigiana che avrebbe giudicato le due povere donne e che avrebbe emesso la “sentenza” di morte a mezzo fucilazione alla schiena. Per meglio sgravarsi dalla responsabilità di aver massacrato le due donne, diranno anche che ad ucciderle furono dei partigiani di nazionalità russa.

Per la cronaca il Presidente della “ alta corte di giustizia” è lo stesso Vanni e il Vice Presidente è Cavallero, giudici e boia allo stesso tempo in malvagia quadratura del cerchio. Nessuno di loro sconterà un solo giorno di galera. Ho incontrato i parenti delle due donne e non hanno dimenticato cio’ che accadde a Giovanna e Assunta Pierina, in particolare , il fratello della Assunta Pierina ,all’epoca aveva 16 anni, ora ne ha una ottantina, e ricorda con precisione l’odio e la follia di questi partigiani che si ergevano a giudici supremi di vita e di morte. Una foto incorniciata e’ appesa al muro, in essa si vede Assunta Pierina, un viso bellissimo di una donna che ha sofferto uno strazio indicibile pur essendo come la sua amica, Giovanna, innocente da ogni colpa. Nella piazza del Comune di Ponzone, un piccolo obelisco riporta i nomi dei caduti nei vari conflitti, nella riga più in basso sotto la qualifica “Vittime Civili” si leggono i nomi delle due povere ragazze: solo una ipocrisia in più.


Roberto Nicolick

LA STRAGE DELLA FAMIGLIA TURCHI: anche questa fu Resistenza ??


Dopo il 25 aprile 1945, la scia di omicidi a sfondo politico, a Savona, si allunga sempre più…questo fatto, realmente accaduto ha come protagonisti una innocente famiglia, i Turchi appunto, ed un gruppo di partigiani comunisti che non verranno mai identificati


Dopo il 25 aprile 1945, la scia di omicidi a sfondo politico, a Savona, si allunga sempre più…questo fatto, realmente accaduto ha come protagonisti una innocente famiglia, i Turchi appunto, ed un gruppo di partigiani comunisti che non verranno mai identificati.

Con il favore delle tenebre, cinque uomini armati, risalivano un sentiero di Ciantagalletto, che nella zona detta dei Ciatti, del quartiere rosso di Lavagnola, portava ad un casolare isolato. I cinque armati, non erano sicuramente fascisti, perché era al 29 maggio 1945. Erano sicuramente qualcosa d’altro: e ci si arriva per logica deduzione, all’indomani della Liberazione, avvenuta il 25 aprile 45, l’unica forma di potere organizzato e armato, dominante, era unicamente quello delle formazioni partigiane, nella fattispecie a Savona, quelle comuniste… I cinque uomini, camminavano in silenzio , senza fumare per non essere segnalati dalle braci delle sigarette e dall’odore di fumo, avanzavano con circospezione, senza produrre alcun rumore…per non mettere in allarme le persone che abitavano nella cascina Berta, le quali non potevano immaginare il pericolo imminente.

Alla cascina Berta, oltre al bestiame ci abitavano dei Cristiani: Flaminio Turchi di anni 56, il capofamiglia, un uomo forte e senza timori, sua moglie, Caterina Carlevari, e le tre giovani figlie, Giuseppina, Pierina e Maria, rispettivamente di 25, 23 e 20 anni, tre ragazze piene di vita dedite unicamente ad aiutare la famiglia nella conduzione della casa agricola…

Infatti l’attivita’ lavorativa del nucleo famigliare era legata prevalentemente alla agricoltura. I cinque “banditi”, arrivano alla casa inaspettati, solo il cane dei Turchi li sente e abbaia sentendo gli intrusi, ma viene immediatamente freddato da una pistolettata nell’aia del casolare, i predoni fanno irruzione nella casa a piano terra e da subito sparano contro i componenti della famiglia Turchi disarmati e quindi indifesi che non hanno alcun scampo. Tutti vengono colpiti dalle raffiche omicide, senza alcuna distinzione, giovani e vecchi…

Tutti, quasi tutti i Turchi, muoiono all’interno della cucina, tutti cadono lì tra i mobili della cucina, sotto il tavolo, tra le sedie impagliate di legno in un lago di sangue tranne la giovane Maria, poco più che ventenne, la quale ferita mortalmente si trascina , nel bosco, al buio…lasciandosi dietro una scia di sangue…i cinque assassini, rinunciano ad inseguirla, e iniziano a depredare la casa, oramai popolata da cadaveri . La povera ragazza, ferita a morte, si lamenta disperatamente, per tutta la notte, prima di morire…e nessuno le presta il minimo soccorso. La spoliazione, completa, della casa, viene completata dopo 48 ore circa dalla strage. Arriva una squadra di sciacalli, che come in altri casi, porta via tutto, mobili, quadri, suppellettili, Lì accanto a qualche centinaio di metri, una squadra di operai della manutenzione delle Funivie, ode le raffiche e poi i colpi isolati di grazia, subito non se la sentono di andare a vedere…ci vanno all’alba, quando gli assassini sono andati via: i corpi sono oramai freddi, il sangue e’ ovunque nella cucina, il cane giace nel cortile…gli operai osservano e seguono la scia di sangue sino al bosco, e trovano il corpo della povera Maria, morta senza soccorsi per dissanguamento.

Arrivò il prete di Lavagnola che benedisse le cinque salme, le quali caricate su di un carretto, vennero portate al Camposanto di Zinola, qui furono seppellite e rimasero sino al 89, dopo di chè vennero trasportate a Genova, presso il Cimitero di Staglieno, dove tuttora si trovano. I carabinieri stranamente non aprirono nessun tipo di indagine o di inchiesta, a tutt’oggi, nessuno sa nulla di nulla. Nessuno vide nulla, nessuno parlò, nessuno sentì…bocche cucite a quei tempi…per una delle tante stragi compiute a ridosso del 25 aprile 45. Gli anni passarono, i fori dei proiettili erano bene in vista, sui muri della cucina dove avvenne la strage.

La casa abbandonata, fu invasa dalla vegetazione e poi venne demolita. Al suo posto c’e’ ora una nuova palazzina. Ci fu un fatto propedeutico alla strage : due delle ragazze, furono prese e rapate dai partigiani perchè sospettate di frequentare i i giovani militari della San Marco. Il padre, andò su tutte le furie, si recò subito a protestare con determinazione presso il locale CNL Ecco cosa accadde dopo… e gli assassini, godettero di coperture, appoggi, onori e quant’altro. Erano dalla parte vincente.

La magistratura dovrebbe fare luce sulla strage della Famiglia Turchi, e riaprire un fascicolo pieno di polvere e soprattutto di omissioni…tanti nomi eccellenti verrebbero a galla, anche se la morte ha già fatto Giustizia per conto suo.

L'OMICIDIO DELLA DORA COSMIN


Teodora Cosmin, detta Dora, nasce a Quiliano, nell’agosto del 1899, da giovane studentessa frequenta l’Istituto magistrale di Savona e abbraccia , per vocazione, la carriera di maestra elementare, inizia quindi ad insegnare presso la scuola del suo paese natale, Quiliano, ad appena 20 anni facendosi notare per competenza e capacità umane e didattiche. Nelle sue classi passano quasi tutti gli adolescenti di Valleggia e Quiliano. Il suo lavoro didattico si protrae con umiltà ed amore sino alla fine della guerra. Peccato per la ottima insegnante che il fratello, Pietro, più giovane, idealista ed irrequieto della sorella, ricopra un importante incarico nel Partito Fascista Repubblicano, addirittura come Prefetto del Fascio presso le città di Verona e Venezia, dove si trova a gestire in prima persona le formazioni armate della Repubblica Sociale Italiana nel corso di numerosi arresti e rastrellamenti. Chiaramente agli occhi dei partigiani comunisti, Pietro Cosmin è un importante capo Fascista da eliminare e la sorella deve pagare anch’essa, nonostante sia una semplice e innocua maestra elementare. La Dora non ha neppure scelto si prestare servizio nel S.A.F., Servizio Ausiliario Femminile, lei dedica il suo tempo solo ed unicamente all’insegnamento. Appena il regime della Repubblica Sociale cade e le formazioni partigiane arrivano a prendere il potere, i Cosmin , Pietro e Teodora, molto prudentemente si allontanano da Savona e dal pericolo delle rappresaglie dei nuovi dominatori. Per ironia della sorte, il Capo della Provincia di Verona, Pietro Cosmin, malato gravemente di tubercolosi, si spegne nel letto di una casa di cura, “la quiete” a Varese nel maggio del 1945, sottraendosi suo malgrado al plotone di esecuzione partigiano che defraudati di una vendetta diventano sempre più rabbiosi e cercano un altro bersaglio per la loro ferocia omicida e lo trovano nella sorella del Pietro Cosmin : Dora.. A luglio del 45, la maestra Dora Cosmin, decide infine di tornare a Quiliano, al suo lavoro di insegnante elementare, infatti la signorina, ritiene la situazione oramai pacificata, visto anche il suo impegno politico verso la Repubblica Sociale Italiana che non è praticamente mai esistito. Ma si sbaglia di grosso: l’odio cieco di classe e la ferma ed ottusa volontà di liquidare tutti i fascisti e ove non possibile i loro parenti, è ancora fortissima nei partigiani comunisti. La maestra, viene riconosciuta appena scende dal treno a Savona, alcuni poliziotti partigiani la seguono e la afferrano per le braccia e la portano a Quiliano, il suo bagaglio personale viene immediatamente”sequestrato” e sparisce. A Quiliano, in piazza, viene esposta alla gente, come se fosse una criminale, viene schiaffeggiata e alcuni le sputano addosso. Il più grande dolore per la Dora Cosmin è riconoscere che fra i carnefici quelli più violenti con lei, sono proprio suoi ex alunni a cui lei con tanto amore e dedizione ha insegnato a leggere, a scrivere e a fare di conto. Questi soggetti non sembrano neppure riconoscerla. Su sue piedi la poveretta vien condannata a morte, in mezzo alla strada, trascinata sulle alture di Quiliano, inghiottita nel nulla non farà più ritorno e il suo corpo non verrà mai più ritrovato. Alcune testimonianze , abbastanza attendibili, affermano che fra i suoi principali assassini erano tutti suoi ex allievi della, Scuola Elementare di Quiliano. Pare che prime di essere uccisa sia stata anche oltraggiata, anche questa prassi comune tra i partigiani comunisti verso le donne fasciste o presunte tali. Un vecchio partigiano sul letto di morte, pochi anni fa, ammise l’assassinio della maestra Dora Cosmin e lo definì inutile e crudele, tardivamente ovviamente ma non rivelò il luogo dove ancora giace la poveretta. Quello che è certo è che nessuna indagine venne mai svolta per identificare gli assassini della sventurata ed innocente Maestra, anche se nel paese di Quiliano, tutti conoscono i nomi degli assassini . Qualcun altro afferma che, dopo l’esecuzione sommaria, il corpo fu abbandonato presso il famigerato Campo Stringhini, situato poco sopra le Tagliate, fra Vado Ligure e Quiliano, sede di un accampamento di una Brigata Partigiana Comunista, un luogo costellato di fosse comuni, dove le esecuzioni sommarie erano la regola. Non a caso, quando si diceva ad un prigioniero fascista,” vieni andiamo al campo Stringhini” , la frase suonava come una condanna a morte per lo sventurato che la ascoltava. Alcuni contadini dopo la fine della grande mattanza, avvenuta dopo il 25 aprile del 1945, transitando in zona, videro una mano ed braccio chiaramente femminile spuntare dal terreno ma non si fermarono e proseguirono spaventati. Molto probabilmente l’arto muliebre , che i contadini poterono vedere era proprio quello della povera maestra Dora Cosmin, la cui povera anima ancora oggi vaga in cerca di pace Roberto Nicolick

roberto nicolick

LA STRAGE DEI BIAMONTI: anche questa fu Resistenza ????


A distanza di 65 anni , ancora oggi, non si può nascondere lo stupore
e lo sdegno per la tragica sorte che toccò alla intera famiglia
Biamonti e alla loro domestica, eppure è tutto terribilmente vero e
reale oltreché documentato da rapporti dei carabinieri, denunce dei
parenti e degli amici e dalle varie sentenze emesse dai vari
tribunali. Nonostante una mole importante di materiale documentale
raccolta, alcuni “gendarmi della memoria” hanno cercato di minimizzare
i crimini perpetrati sui componenti della famiglia savonese dei
Biamonti, ma non ci sono riusciti.
L’anziano signore che mi ha narrato una parte della storia , Luigi
Rolandi, ha circa 85 anni, è un ex ufficiale delle truppe alpine, il
quale era il fidanzato di una splendida ragazza Angiola Maria, all’
epoca 24enne, inghiottita dal nulla assieme ai genitori, Domingo
Biamonti il padre avvocato, la madre Nenna Naselli Feo e la domestica
Elena Nervo.
La famiglia Biamonti, benestante, abitava in una villetta a Savona in
periferia, non era inserita nel sistema di potere della Repubblica
Sociale Italiana, quindi non erano fascisti in senso stretto, ma
vennero ugualmente, fermati dalla polizia ausiliaria partigiana, vera
volante rossa, ristretti in un campo di concentramento creato ad hoc,
per detenere i sospetti di collaborazionismo con i Nazi – fascisti.
Chi veniva portato in questi campi, non tornava più a casa, moriva in
presunti tentativi di fuga oppure spariva nel nulla, quest’ultima cosa
fu ciò che accadde ai Biamonti: sparirono semplicemente in una notte di
maggio.
Era accaduto l’imponderabile, i capi dei partigiani, sottoposti a
pressioni da parte dei parenti dei Biamonti, avevano decretato, una
volta tanto correttamente, illegale ed iniquo il fermo della famiglia
Biamonti e pertanto avevano già stilato un ordine di scarcerazione.
Sarebbe stato uno smacco fortissimo per la banda di partigiani
comunisti che li avevano arrestati, con delle finalità inconfessabili:
depredare le sostanze dei Biamonti, mobili, denari, oro e quant’altro
di valore che si trovasse nella villa incustodita.
Il piano dei predoni doveva essere attuato. Prima che l’ordine di
scarcerazione arrivasse al campo, una squadra armata con perfetto
tempismo, si recò, di notte, al campo e portò via i Biamonti. Su di un
furgone furono trasportati nei pressi del cimitero di Savona, nel letto
di un ruscello, dopo un feroce pestaggio per piegare la loro
resistenza, vennero passati per le armi, i loro assassini li
trasportarono all’interno della cinta del camposanto, minacciando il
personale se avesse parlato, buttarono i 4 corpi in una unica fossa,
come ultimo gesto di odio, senza neppure le bare e poi se ne andarono.
Uno di loro tornò, qualche giorno dopo, e fece mettere sulla fossa una
lapide con un nome che non c’entrava nulla con i quattro Biamonti. Per
tre anni, gli amici e i loro parenti lottarono fra minacce,
intimidazioni, contro la cappa di piombo che aveva coperto la scomparsa
della famiglia Biamonti e della Elena Nervo.
Poi qualcuno, pare uno dei necrofori, iniziò a parlare e prima
lentamente e poi sempre con maggiore forza, la verità venne a galla
inarrestabile.
Il 29 luglio del 49, i carabinieri trovano la famosa fossa e portano
alla luce i corpi , oramai decomposti, dei Biamonti, da quel momento la
Giustizia degli uomini, seppur con fatica, inizia il suo cammino:
partono le indagini, i fermi, gli arresti spesso movimentati, gli
interrogatori e vengono processati e condannati i responsabili, i quali
erano tutti appartenenti alla polizia ausiliaria partigiana, i quali
sotto lo scudo della resistenza, imperversavano sulla intera città di
Savona. Per la morte dei Biamonti, gli assassini scontarono un pena
irrisoria, a causa della amnistia che li mandò liberi o prosciolti.
Alcuni di loro ebbero il posto di lavoro assicurato nonostante le mani
sporche di sangue.
La giustizia di Dio, tuttavia, perseguitò il loro capo, il più
feroce, e lo fece morire ancora giovane tra atroci tormenti.
Da allora, molti anni sono passati, ma un innamorato, oramai molto
avanti negli anni, non dimentica il suo amore per la povera Angiola
Maria la cui vita fu spezzata a 24 anni, e fa officiare una messa ogni
mese in suffragio presso la Chiesa dei Salesiani di Savona..
Roberto Nicolick

SALEMI UN COMMISSARIO SCOMODO, UCCISO DA CHI NON VOLEVA FARE SCOPRIRE GLI ALTARINI DEI PARTIGIANI COMUNISTI

l 17 novembre del 1946, cadeva a Savona, nell’adempimento del proprio dovere il Commissario Amilcare Salemi. All’indomani del 25 aprile 1945, iniziò per Savona e i Comuni limitrofi, Vado Ligure, Valleggia e Quiliano un periodo di oscurità istituzionale, costellata da abusi e soprusi, da moltissimi omicidi e ruberie, sparizioni di persone, addirittura di intere famiglie ingoiate nel buio, vendette causate da antichi rancori. Erano veri e propri anni di piombo. Esecuzioni sommarie, violenze di ogni tipo, attentati dinamitardi stavano eliminando i principi basilari della convivenza civile. Il tutto avveniva sotto gli occhi terrorizzati dei Savonesi e delle Autorità dell’epoca impotenti ad arginare il fenomeno. Questa sanguinosa escalation non accennava a diminuire , inoltre compiacenti silenzi e sospette collusioni non contribuivano a fermare la scia di sangue anzi la implementavano. Gruppi di partigiani comunisti, in genere sempre le stesse e conosciute persone, armati ed organizzati militarmente , condizionavano la vita nel Savonese a loro piacimento. I cittadini onesti, che formavano comunque la stragrande maggioranza della popolazione, temevano fortemente per i loro beni , prima e in secondo tempo e per la loro vita e quella dei loro cari. Un nuovo oscurantismo stava prendendo corpo in maniera sempre più invasiva e con modi molto più efficenti e spietati di quelli usati a suo tempo dal Regime Fascista. L’ufficio Affari Generali del Ministero degli Interni a Roma, continuando a ricevere note e memorandum allarmatissimi da parte del Prefetto, a fronte di questa grave situazione, nel 1946, decise di inviare un funzionario coraggioso e determinato , impermeabile ai condizionamenti politici, con il difficile incarico di guidare la Squadra politica della Questura di Savona, all’epoca infestata da numerosi poliziotti ausiliari, in concreto ex partigiani comunisti, i quali non portavano a termine le opportune indagini sugli omicidi in oggetto, altrimenti avrebbero dovuto indagare ed arrestare in massa i loro compagni di fede politica. Il Commissario inviato nella fossa dei leoni si chiama Amilcare Salemi. Salemi è nato a Rota Greca, un piccolo centro del Cosentino, laureato in Giurisprudenza passa un concorso per entrare nella amministrazione della Pubblica Sicurezza e dimostra di avere la stoffa dell’investigatore, addirittura effettua indagini sulla sparizione dell’oro di Dongo. Il clima omertoso e terroristico, nel Savonese. era pesantissimo. In questa situazione molto scabrosa e pericolosa, il Commissario Amilcare Salemi , appena quarantenne, giunge a Savona, in missione dalla Questura di Lecco , ed inizia a operare con efficacia. Salemi è anche inattaccabile dal punto di vista ideologico, infatti in passato, in qualità di funzionario di polizia, ha salvato molti ebrei dalla deportazione verso i campi di sterminio nazisti, quindi nessuno può lanciare a Salemi l’ usato ed abusato insulto di “fascista”, perché Salemi non lo è assolutamente, anzi è l’esatto opposto del fascista collaborazionista. La sua efficienza crea moltissimi problemi alle bande di brigatisti rossi ante litteram ,che temono di perdere la supremazia sul territorio e decidono di fermare Salemi prima che arresti i responsabili dei numerosi omicidi che nel frattempo continuano a ritmo industriale. Dopo diverse missive anonime in cui lo si minaccia di morte ma che non spaventano il Commissario, qualcuno decide di agire, si pianifica e si progetta l’azione mortale, si fanno sopraluoghi nei punti più strategici e adeguati a effettuare un attentato al Commissario ,aspettando l’occasione più propizia che infatti arriva : Il 16 novembre 1946 all’ora di cena, mentre il Commissario è isolato e con la guardia abbassata. E cosi’ accade, Salemi, tutte le sere va a cena, nel ristorante dell’Hotel Genova in Piazza del Popolo , una zona centrale di Savona. Il killer impugna una pistola con silenziatore, calibro 7,65, usata con perizia, in diverse occasioni, per ammazzare persone pericolose per gli interessi vitali degli ex partigiani, si introduce in un ingresso adiacente all’hotel, apre una porticina di servizio, entra alle spalle del funzionario, chino sul tavolo intento a cenare, prende la mira e lo colpisce alla schiena, con un solo colpo. La pistola con il silenziatore fa appena uno schiocco, udito a malapena dalla proprietaria dell’albergo. Salemi, ha il tempo di rendersi conto che gli hanno sparato e di maledire il proprio vile assassino e poi si accascia dopo aver chiesto aiuto alla Signora Teresa presente in sala. Mentre Salemi viene assassinato presso l’hotel Genova, qualcuno con tempismo ed efficenza all’interno della Questura, forza i cassetti della scrivania del Commissario e asporta tutte le carte investigative prodotte da Salemi nel corso delle sua infaticabili indagini : in fondo era questo che si voleva, proteggere un folto gruppo di criminali , colpevoli di centinaia di omicidi effettuati nell’immediato dopoguerra nel Savonese, tutti coperti da amnistia, ma controproducenti per l’immagine della Resistenza e dei suoi uomini. Il Procuratore Generale Ettore Colonna, inizia l’istruttoria, in un ambito estremamente difficile e rinvia a giudizio un certo Pietro Del Vento, Sanremasco, malato di tubercolosi, personaggio controverso che dice tutto e il contrario di tutto, alterna periodi di grande agitazione psicomotoria e periodi di catalessi, insulta i giudici e fa diverse chiamate di correità verso altri suoi compagni di fede politica. E’ chiaramente un fattore di caos organizzato, messo nelle mani degli inquirenti per sviare le indagini. Il processo verrà portato avanti dal Dott. Sorrentino, un giudice coraggioso e capace. Il Del Vento accusato e processato successivamente per altri due omicidi, sarà anche internato negli O.P.C. di Montelupo Fiorentino e Di Reggio Emilia, e giudicato infermo di mente. Del Vento è uno strumento utile nelle mani di mandanti scaltri e malvagi, che a Savona, sono conosciuti e faranno carriera politica al riparo da noie giudiziarie. Altri due personaggi già noti per altre vicende , ex partigiani comunisti, Genesio Rosolino e Bisio Dalmazio, saranno assolti per insufficienza di prove giudiziarie. Del Vento morirà di TBC, portando nella tomba i suoi segreti. Una luminosa figura e’ la vedova del Commissario Salemi, Concetta Pasquino, che si costituisce parte civile e che presenzia alle udienze accompagnata dai tre piccoli figli, guardando in faccia l’assassino presunto di suo marito, nonostante le solite minacce di stampo mafioso non defletterà per questo, come invece altri faranno per paura. Un particolare toccante : al termine dei processi, chiederà alla Questura di Savona di poter riavere gli abiti del marito.. Lo Stato tributerà al povero Commissario i Funerali di Stato, era il minimo che poteva fare per il proprio fedele servitore, vissuto senza paura e caduto con onore colpito alle spalle come solo i vili sanno fare. Sono passati esattamente 64 anni da quella sera, e nessuno dei giovano o dei meno giovani savonesi, conosce questa storia, una storia che racconta di un medioevo oscurantista e malvagio che lasciò tracce sanguinose senza tuttavia riuscire a piegare le coscienze libere di chi credeva nella Libertà. Dobbiamo ringraziare gli uomini come Amilcare Salemi che hanno dato tutto, compresa la loro vita, per alimentare nella gente per bene le speranze in un futuro migliore.

roberto nicolick

LA STRAGE DELLA CORRIERA DELLA MORTE, raccontata da Roberto Nicolick, anche questa fu Resistenza ????


Questa strage, di cui tutti a Savona tendono a non parlare, avvenne a maggio 45, precisamente il giorno 13 , alle ore 17,30, a lato di una curva della strada provinciale 29, al Km 141, questo tratto porta dall’abitato di Cadibona a Savona capoluogo. In questo orribile eccidio furono “giustiziate”, o meglio assassinate, 39 persone di sesso maschile, di età variabile dai 17 anni sino ai 67 anni. Non tutti ammazzati, sul luogo principale dell’esecuzione, ma altri in luoghi e in momenti diversi: Piana Crixia e Altare. Ecco i fatti: mentre sta per crollare il Regime Fascista Repubblicano, tutti coloro che hanno avuto rapporti con il governo, preparano l’evacuazione dai centri urbani, in direzione Nord, per raggiungere zone più sicure e sfuggire alle formazioni partigiane che stavano avvicinandosi alle città. Da Savona, un’autocolonna inizia la ritirata, percorrendo la provinciale in direzione di Cairo, Acqui Terme, Valenza da dove avrebbe attraversato il Po in direzione dell’alto Piemonte. Questa colonna, bersagliata dagli aerei alleati e dai partigiani lungo la via di fuga, si frammenta in diversi spezzoni. Uno di essi, composto da una cinquantina di persone, uomini, donne e ragazzi, si arrende ai partigiani di una brigata dell’Alessandrino e viene internato nel carcere di Alessandria. La Questura di Savona, formata da poliziotti ausiliari partigiani, avvisata della presenza dei prigionieri savonesi ad Alessandria, invia un convoglio formato da un camion, un bus della Società Tranvie elettriche savonesi, con una scorta di poliziotti ausiliari partigiani. L’ordine, apparente, è di prelevare i prigionieri e tradurli a Savona, dove naturalmente non arriveranno mai. I poliziotti ausiliari partigiani arrivano presso il carcere di Alessandria, prelevano i prigionieri, per i quali inizia il viaggio di ritorno, disseminato da minacce, pestaggi, violenze di ogni tipo, spoliazioni ed infine il plotone di esecuzione, che agirà lungo la strada a circa 13 chilometri da Savona. La sorte dei prigionieri era quindi già segnata in partenza. Quello che avvenne fu uno dei tanti episodi della Guerra Civile che insanguinò il Nord – Est dell’Italia. Dopo due giorni di viaggio e di botte, stanchi, pesti e rassegnati i prigionieri Repubblicani, la cui età andava dai 16 anni alla settantina, furono caricati sul cassone del camion, per percorrere l’ultimo tratto di strada, sino alla curva della morte. Lì vennero fatti scendere e depredati degli effetti personali, abiti e altro, quindi scalzi, attraversarono un breve tratto di boscaglia, lontano dalle case di Cadibona. Vennero allineati a piccoli gruppi di tre, su un terreno sopraelevato che dominava una fossa naturale. In quel punto il plotone di esecuzione cominciò a sparare sui prigionieri a raffica usando i mitra Sten. Qualcuno cercò di fuggire ma venne ripreso e passato per le armi. Sui nomi dei responsabili di questa strage, ancora oggi a distanza di 65 anni, aleggiano incertezza e mistero. Furono certamente in molti a premere il grilletto, non solo gli uomini della scorta, ma anche molti altri partigiani comunisti arrivati appositamente da Savona per partecipare alla mattanza. Era una occasione d’oro che molti non vollero farsi scappare: poter usare le armi su un gruppo numeroso di fascisti inermi senza subire punizioni o rappresaglie. Qualcuno degli esecutori si gloriò di aver mitragliato, altri pur non avendo sparato ammisero di averlo fatto per vanteria, altri ancora, pur avendo ucciso, non ammisero il fatto. Alla fine della sparatoria udita dagli abitanti di Cadibona, rimasero nella fossa, esposti alla notte ed agli animali, 37 cadaveri pieni di piombo. I corpi rimasero li’ sino alla sera successiva, quando un gruppo di persone, formato da partigiani del posto e abitanti di Altare, li trasportarono al Cimitero di Cadibona, dove nel corso della notte, vennero seppelliti in quattro strati sovrapposti, intervallati da calce viva, in una fossa comune. Nel 1949, per iniziativa di un frate cappuccino, Padre Giacomo, al secolo Eugenio Traverso, che operava di intesa con il Commissariato per le Onoranze ai Caduti in Guerra, funzionante presso il Ministero della Guerra, attualmente Ministero della Difesa, le salme furono riesumate, e dopo un difficile e sommario riconoscimento dei familiari, vennero collocate in apposite casse e seppellite cristianamente nel Cimitero Militare di Altare, detto delle Croci Bianche. Tutte le salme ebbero regolare riconoscimento tranne due, che pertanto risultano ignote. Soltanto nell’aprile del 1950, il Procuratore della Repubblica di Savona, prendendo spunto da una segnalazione della Questura, promosse una azione penale. Come da prassi, venne interessata la Questura di Savona, la quale con un dettagliato rapporto datato 1 luglio 1950, riferi’ al Magistrato inquirente l’esito delle indagini compiute. In tempo successivo L’Istruzione venne , con provvedimento in data 12 aprile 1952, della Corte di Appello di Genova, rimessa alla Sezione Istruttoria. le imputazioni furono di omicidio volontario aggravato plurimo in persona dei 39 fucilati di Piana Crixia e Cadibona e di rapina aggravata in danno degli stessi; occultamento di cadaveri; e abuso di autorità contro arrestati; Tutti gli imputati negli interrogatori si dichiararono innocenti. la corte di appello di Verona riprese il procedimento nelle sue competenze, e tutti i responsabili se la scamparono, tutti i loro gesti furono catalogati come atti di guerra e pertanto coperti da amnistia, quella molto opportunamente ideata e portata avanti dal Guardasigilli Palmiro Togliatti. I congiunti delle vittime, dovettero subire oltre all’ingiustizia anche lo scherno e la derisione degli assassini che giravano liberi per Savona, salutati ed onorati come dei liberatori. A distanza di anni, una Madonnina posta a bordo strada,ricorda la strage.
Roberto NICOLICK

LA STRAGE DEL MANFREI RACCONTATA DA ROBERTO NICOLICK : FU ANCHE QUESTA RESISTENZA ???


Il Manfrei, è un monte che non supera i mille metri, localizzato in provincia di Savona, accanto agli abitati di Vara Inferiore e Superiore, dal punto di vista orografico non è scosceso o interessante per gli alpinisti. Sale in modo morbido, e le sue pendici sono vaste e boscose, punteggiate da forre, grotte e altri anfratti naturali che lo rendono difficilmente esplorabile. In questa zona accadde la strage dei “200 marò della San marco”, intorno al 28 aprile 1945. Nell’aprile 1945, i reparti armati della R.S.I che presidiano la zona del Sassellese. ricevono l’ordine di smarcarsi dai settori di competenza e di dirigersi a nord, per creare la “ridotta” in Valtellina, l’operazione venne denominata “nebbia artificiale”. Un reparto di marò si trova a presidio del Sassello, sono giovanissimi fanti di marina la cui età andava dai 17 ai 19 anni, composto da circa 200 unità , appartenenti al 5° reggimento della San Marco, comandati da un capitano , Giorgio Giorgi , questo nome rimarrà negli annali della storia militare sicuramente non come un buon esempio di comando. Giorgi, tratta la resa del reparto con i partigiani. Il reparto, in base agli accordi presi dal suo ufficiale in comando, perfettamente equipaggiato ed armato, raggiunge Palo, dove si consegna ad una brigata partigiana, invece di raggiungere Acqui Terme e defluire verso altre destinazioni, come da ordini superiori:questo fu un errore che avrà catastrofiche conseguenze. Il gruppo partigiano che prese in consegna i 200 fanti di marina, la Brigata E. Vecchia della Divisione d’assalto garibaldina “Mingo”, era già stato responsabile di molte esecuzioni sommarie di militari e civili, uomini e donne, senza spiegazioni apparenti, il suo capo “Vanni” aveva già decretato e naturalmente eseguito numerose condanne a morte, in modo assolutistico e senza contraddittorio, rivestendo il duplice ruolo di “giudice inappellabile” e quello di boia. L’artefice di questa ignobile trattativa che portò l’intero reparto alla resa e in seguito ad una orrenda morte , è il capitano Giorgio Giorgi, il quale sarà l’unico sopravissuto al massacro del reparto. Definire Giorgi un ingenuo o uno sprovveduto è un eufemismo. Quest’ufficiale si fidò ciecamente della parola di personaggi che promisero salva la vita ai suoi soldati e per l’ennesima volta non mantennero la parola data. Forse Giorgi ignorava che nella zona a cavallo tra le province di Savona e Genova, centinaia di militari della San Marco erano stati uccisi in modo proditorio. Solo i reparti che avevano mantenuto armi, ordine e disciplina, coordinati da ufficiali capaci , avevano raggiunto indenni zone meno pericolose. Dopo essere stati disarmati, i 200 giovanissimi militari, verranno trascinati , con le mani legate dietro la schiena e sotto la minaccia delle armi partigiane, per circa tre giorni e tre notti lungo mulattiere e sentieri poco battuti, da Palo per Rossiglione sino a Vara, sostando in vecchie cascine , sino alle pendici del Monte Manfrei, dove in diverse radure erano già pronte le fosse comuni, di forma rettangolare. La maggior parte verrà abbattuta ,senza pietà, da una o più mitragliatrici, dopo essere stati spogliati delle uniformi e degli effetti personali, gli verranno tolte anche le piastrine di riconoscimento per evitare l’identificazione dei caduti e i loro corpi accatastati a strati nelle fosse rettangolari. Ancora in questi anni, alcune repellenti personaggi del luogo, esibiscono ,come trofei, mazzi di piastrine militari, vantandosi di aver preso parte agli omicidi . Molti di loro furono ammazzati crudelmente a bastonate , pare da persone del luogo conniventi con i partigiani comunisti, altri seppelliti legati e ancora in vita condannati a morire soffocati con la terra in bocca e negli occhi.. Fu un barbaro massacro , opera di molti, in un’orgia incontrollata di odio e di cieca violenza. Una pagina di storia priva del minimo barlume di umanità, come spesso accadeva in quei giorni. L’eccidio fu il risultato di un insieme di fattori concomitanti : insubordinazione dell’ufficiale comandante del reparto repubblicano, ferocia della formazione partigiana e di molti abitanti della zona che parteciparono attivamente alla strage. L’equipaggiamento del reparto fu sequestrato dalla brigata partigiana e nascosto, e pare che gli effetti personali dei ragazzi, furono divisi tra i numerosi assassini. All’alba del terzo giorno, numerose fosse comuni, erano colme di cadaveri e coperte dal terriccio e dal fogliame. Il silenzio calò come una cappa di piombo, per anni, su quella strage di cui tutti sapevano ma nessuno parlava. Chi andava per boschi trovava facilmente reperti anatomici che emergevano dalla terra, spesso prede delle volpi, inoltre il fetore della decomposizione ammorbava l’aria dei boschi che acquisirono una fama sinistra.. Nel dopoguerra il sindaco di Urbe, Zunini, con l’ausilio dei carabinieri, decide di iniziare la ricerca delle fosse, nonostante un terreno difficilissimo , pieno di forre, burroni, boschi, pietre, scontrandosi con l ‘omertà che circonda gli assassini ancora vivi e in sito i quali minacciano chiunque voglia recuperare i poveri resti. Nel 48 il Comune individua ben 50 fosse comuni. Nell’aprile 1955 i Carabinieri confermano che nel territorio esistono altre fosse di cui non si conosce l’esatta ubicazione e che, quindi, sembrerebbe impossibile il recupero delle Salme che si pensa appartenere ai Marò massacrati. Nel settembre del 1956 viene raccolta una sessantina di salme attualmente nel Cimitero Militare di Altare.Nel 1958 sul Monte Manfrei venne eretta una croce in memoria dei trucidati, che qualcuno distrugge nottetempo. Nel 1984, sempre lo Zunini, con il supporto della Associazione Fiamme Bianche di Genova, fa erigere un’altra Croce sullo spiazzo erboso. Da allora, tutti gli anni moltissimi parenti dei ragazzi massacrati e reduci dei reparti Repubblicani, si recano sul posto e partecipano ad una Messa al campo in suffragio degli sventurati ragazzi. Per la cronaca, il loro comandante, ebbe un salvacondotto dai partigiani e sparì qualche settimana dopo la strage, pare sia stato visto in Sud America, mentre ancora oggi circa 140 dei suoi giovanissimi soldati aspettano di essere raccolti per l’ultimo appello e seppelliti cristianamente. Roberto Nicolick

roberto nicolick

una visita dovuta al cimitero maggiore di Milano....


L’anziana signora savonese, costretta sulla sedia a rotelle, che mi sta davanti, ha un’aria decisamente sofferente, mi parla con frasi toccanti e intervallando parola per parola, in una modesta abitazione . Questa povera donna inferma e vedova, è una madre, ultranovantenne e mi ha fatto chiamare al telefono da una vicina che mi ha pregato di andare a visitarla per chiedermi una cortesia.

Ecco la sintesi del colloquio: suo figlio appena sedicenne, contro la volontà dei genitori, nel 43 animato da un ideale, si arruola nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, la signora non è in grado di precisare in quale corpo e in quale zona, sa solo che il ragazzo va in Germania a fare un addestramento militare, riceve delle cartoline e lo rivede in uniforme prima di essere destinato al suo reparto e poi basta, nelluna altra notizia.

Nell’aprile del 1945, quando avviene il crollo del Regime Repubblicano, il giovanissimo volontario viene preso dai partigiani in Valtellina, e vive i momenti terribili e disperati del redde rationem, assiste all’arresto di Mussolini e della Petacci, oltre che dei vari gerarchi in fuga, anche per il ragazzo non va bene.

Muore contro un muro, freddato dal plotone di esecuzione partigiano, senza neppure uno straccio di processo, il suo corpo verrà ritrovato in una forra in Lombardia, e in seguito sepolto a Milano, al Cimitero Maggiore , detto il Musocco. Qualcuno ,pietosamente, avvisa la madre della tragica morte, sorte toccata a moltissimi giovani che hanno fatto una scelta scomoda.

La donna per diversi anni si reca a Milano a portare un fiore sulla tomba del ragazzo, finchè la salute la sostiene. Ora, purtroppo, a causa della vita che sta fuggendo dal corpo della poveretta, da qualche anno la tomba del figlio compianto, non riceve la visita periodica e neppure ha la consolazione di un fiore.

La povera signora ha letto alcuni miei articoli su un quotidiano di Genova, dalla parte dei Vinti, chiama la sua vicina e mi fa convocare, per chiedermi di recarmi, al posto suo, a pregare sulla tomba del figlio, lei è immobilizzata e sente la necessità di incaricare una persona di fiducia di una visita alla tomba.

Accetto di buon grado, prendo il treno per Milano, scendo alla Stazione Centrale, metropolitana linea verde, fermata Lanza, poi tram n. 14 ed eccomi al cimitero Maggiore.

L’ingresso del camposanto è imponente, gotico, lo attraverso ed entro in un vialone lunghissimo, questo camposanto copre circa 60 mila metri quadri, ai lati del vialone principale si dipartono altre strade che collegano ai vari campi , sulla destra intravedo un gruppo di croci, scure, disposte in modo ordinato, il perimetro è delimitato da un sottile nastro tricolore. Una leggera nebbiolina, galleggia a breve distanza dal terreno, le croci emergono dalla nebbia creando un effetto surreale.

Raggiungo il campo , si sente solo il rumore dei miei passi sul ghiaietto, arrivo ad una targa di marmo, su cui a lettere di metallo è inciso Campo 10, sormontato da una piccola croce.

Rimango impressionato, il campo è vastissimo, centinaia di croci massicce, di granito grigio , annerite dagli anni sono schierate militarmente una dopo l’altra in file ordinate come un disciplinato esercito di fantasmi nel cortile di una caserma. Ogni croce riporta un nome e una data, soltanto quella della morte, più in basso appare un piccolo ovale con una foto smaltata in bianco e nero, più sotto un numero progressivo. Le croci sono spesse, danno una idea di solidità,sulla sommità c’è legato un nastrino tricolore, il prato erboso antistante è abbellito, sobriamente da alcuni fiori. Cammino sui vialetti, in silenzio, osservo un’altare di pietra con delle corone di alloro e dietro svetta una croce, sulla cui base una scritta , ai caduti della rsi, 1943 – 1945. Una scritta su di una targa di ottone richiama la mia attenzione e mi stringe il cuore :

“Cittadino che passi e che non sai, accendi un cero per tutti questi eroi, per questa gioventù che non ha tradito, per questa gioventù che non si arrese mai, per tutti questi ignoti trucidati , per le strade di Milano abbandonati , per tutti quei dispersi ( e son migliaia ) gettati nei fondali dei nostri laghi”. Nel silenzio del campo, queste parole pesano come macigni e mi spingono a cercare velocemente la tomba del povero giovane.

Non è difficile trovare la tomba, infatti sulla croce riconosco il nome e la dat ipotetica della morte che mi ha dato la madre, la foto mostra un viso sorridente di un ragazzino, capelli neri imbrillantinati , un basco sulle ventitre, aria spavalda, due mostrine militari… un pensiero mi attraversa la mente, chissà che cosa deve aver subito prima di essere fucilato, poso un fiore e mi soffermo davanti alla croce, ma non riesco a raccogliermi in preghiera, il mio sguardo corre lungo altre lapidi, numerose, su cui campeggia una scritta: IGNOTO.

Forse i corpi dei caduti erano talmente messi male da essere irriconoscibili ed allora è stato gioco forza definirli Ignoti. Proseguo per i vialetti e mi avvio verso l’uscita del campo, che apprendo sia denominato “Campo dell’Onore” mentre il campo dove sono sepolti i partigiani è chiamato “Campo della Gloria” chissà perché anche nella morte esiste una differenziazione tra le due Italie?

Cimitero ricco di storia questo, nel campo 16, a poche centinaia di metri,vi era nel maggio del 45, una tomba anonima, senza nome. Si scoprì che vi era la salma di Mussolini, decine di persone, in un impeto di odio, andavano quotidianamente, a sporcare con escrementi la tomba come estremo sgarro. Tre personaggi nottetempo, entrarono nel cimitero e trafugarono la salma che fu nascosta in un convento di frati nel Pavese, lontano da altre odiose offese e nel 56 fu restituita alla vedova Rachele che la seppellì a Predappio.

Esco dal cimitero per andare alla stazione, ho svolto il mio pietoso incarico, ma sono un pochino piu triste per quello che ho visto: centinaia di croci per ricordare uomini, ragazzi, donne massacrati per una unica ragione: aver fatto una scelta ideale.



roberto nicolick

Molinari, l'uomo che corre: anche questo fu resistenza ???


Savona, 13 maggio 1945, ore 17 circa. Colle del Cadibona, chilometro 142, un gruppo di partigiani comunisti sta compiendo uno degli eccidi più feroci della guerra civile noto come la strage della corriera della morte.
Nel corso del massacro di 39 uomini inermi, un giovanissimo ufficiale Repubblicano fugge, inseguito da un partigiano.
Raggiunto, farà la stessa fine dei suoi compagni di sventura. Ecco la cronaca, basata su testimonianze di alcuni ragazzini oggi settantenni, di questo disperato tentativo di fuga.

Sporco di sangue, non suo ma dei suoi compagni, con addosso solo una camicia aperta e svolazzante, scalzo, privo di pantaloni, il giovane uomo correva trafelato, come una lepre… l’aria gli bruciava nei polmoni, gli occhi gli uscivano dalle orbite tanto correva, con una fortissima dose di adrenalina in corpo, che poi, era quella che lo sosteneva in questa sua fuga disperata.
Lo stomaco vuoto, le contusioni sul corpo, il dolore per le percosse impietose prese dai partigiani erano cose lontane, rimosse, dimenticate… ora aveva un solo imperativo categorico: correre, correre e soltanto correre, lontano da quegli assassini, da quello che stavano facendo ai suoi camerati, in quel piccolo vallone, sulla curva della strada del Cadibona, sopra alla galleria del treno della linea Savona – Fossano – Torino.

Mario Molinari, dal cognome famoso, per una bevanda alcolica, prodotta dalla sua famiglia, di appena 20 anni, con la fortissima volonta’ di viverne molti altri, correva, come mai aveva corso in vita sua… non per conquistare una medaglia, ma per salvarsi la vita.
Mario Molinari, tenente della G.N.R (Guardia Nazionale Repubblicana), doveva morire ammazzato come gli altri, innaffiato dal piombo, perchè “repubblichino”, così lo definivano con disprezzo i suoi guardiani, poliziotti ausiliari partigiani.

Il ragazzo aveva colto l’attimo fuggente, era riuscito ad approfittare di un momento di distrazione dei suoi carnefici, aveva dato una spallata al più vicino, uno strattone a quell’altro che lo tratteneva e poi … come un dannato che sbucava dall’inferno, aveva risalito il vallone, percorso il prato erboso in leggera salita, imboccato la strada asfaltata verso il centro di Cadibona…

Poi da li’ chissà, avrebbe chiesto aiuto, avrebbe fatto perdere le tracce, si sarebbe imboscato tra gli alberi o in qualche legnaia..
Importante era togliersi dalla linea del fuoco del mitra STEN, che stava massacrando il gruppo di prigionieri repubblicani, a gruppi di due a due, i quali venivano spinti a calci nel vallone in basso, mentre più in alto, in posizione sopraelevata, altri due partigiani sparavano sulla coppia di uomini che cadevano come fantocci nell’avvallamento.

Mario Molinari, correva, senza fermarsi, senza voltarsi indietro, con i capelli dritti dal terrore, con la speranza di riavere la liberta’ e poter vivere ancora… mentre alle sue orecchie arrivavano da dietro, sempre piu’ lontano, il rumore ritmico delle armi automatiche.

Una, per essere esatti, era terribilmente riconoscibile : lo STEN, la classica arma automatica di fabbricazione britannica, usatissima dai partigiani, semplice, maneggevole, leggera, fornita alle formazioni partigiane attraverso i lanci paracadutati alleati.

Mentre Molinari correva come un pazzo verso Cadibona, lo STEN maneggiato da un certo B.D., stava facendo “pulizia” nel vallone, riempiendolo di corpi, segati in due dalle pallottole, 9 mm. Parabellum. Nel caricatore dello STEN trovavano posto ben 32 pallottole, il che gli assicurava una discreta autonomia.


Il boia armato con lo STEN, non si fermava mai, tranne che per cambiare il caricatore dell’arma e per aspettare che i suoi compagni, gli mettessero a calci e pugni, sulla linea di tiro, i bersagli umani, sempre a coppie, per economia e per dimezzare i tempi di lavorazione.
Intanto Molinari correva e ogni metro che copriva era per lui una fonte di enorme sollievo. Purtroppo, egli non poteva sapere che uno dei piu’ volenterosi e feroci dei carnefici, stava per mettersi sulle sue tracce.


Per meglio raggiungerlo, il carnefice smise a malincuore di sparare e sempre il B.D., inforco’ una bicicletta e pedalando con forza, arrivò in vista del fuggiasco e pigiando sui pedali lo raggiunse.

Il giovane tenente sentì uno strano rumore alle sue spalle, come di un corpo metallico che cade (era la bicicletta che il B.D. aveva abbandonato in corsa) tuttavia non si voltò e continuò a correre… poi percepì dei passi veloci e un respiro affannoso, sempre dietro di lui…
Continuo’ a non voltarsi, fintanto che a sorpresa, un corpo pesante di un uomo, non gli volo’ addosso e lo schiaccio’ letteralmente sul selciato.
L`impatto che subi’ fu forte… e molto doloroso, ma assai piu’ dolorosa fu la sorpresa…

Molinari era convinto di essere sfuggito ai suoi inseguitori, anzi pensava che non avrebbero provato neppure ad inseguirlo visto che erano troppo impegnati a scannare i suoi compagni di sventura.

Il naso e il mento, a causa di quel placcaggio violentissimo, sbatterono sul selciato, producendogli una forte emorragia, il sangue gli colava vistosamente sul petto nudo…
“ti ho preso bastardo, ora devi morire, come gli altri… vieni con me….”
Ansimava e schiumava odio il B.D., mentre urlava queste parole nelle orecchie del Molinari.

Il suo alito puzzava come quello di un avvinazzato. Evidentemente aveva abbondantemente bevuto, per darsi piu’ coraggio nell’espletare le sue funzioni di boia. Per non perderlo, lo aveva afferrato per i capelli, e lo strattonava, piegandogli il capo verso terra.

Il povero Molinari, cosi’ piegato in due, con indosso un camicia lurida e sporca di sangue, tentava disperatamente, con le mani strette sul polso del criminale, di attenuare la stretta e gli strattoni, ma era cosa vana.

Sia per la sua debolezza che per lo choc subito nella rovinosa caduta, sia per la posizione svantaggiosa che il suo corpo aveva assunto in quell’istante…inoltre il partigiano che lo aveva inseguito, raggiunto ed afferrato rudemente, era di grossa corporatura, di modi estremamente violenti ed era crudelmente determinato a non lasciarsi scappare piu’ la sua preda… farsi buggerare cosi’….incredibile, da un ragazzino, inoltre.
Mentre il povero tenente della G.N.R. veniva trascinato, letteralmente per i capelli, per la strada, nella direzione opposta a quella in cui stava cercando di fuggire, perdeva dal naso e dalle labbra spaccate un rivolo di sangue scuro, che cadeva gocciolando sulla strada del Cadibona, lasciando una traccia, di un rosso scuro, interminabile, come interminabile era il dolore che lo torturava per non essere riuscito a fuggire da quegli assassini, per essere solo e completamente abbandonato, per non aver avuto nessun aiuto. La disperazione piu’ nera lo aggredi’ e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi….

Arrivò di corsa dal luogo del massacro un altro partigiano, che era venuto a dare manforte al B.D., ma la sua presenza era inutile, oramai il povero Molinari era in “dirittura di arrivo“ verso il luogo dove avrebbe perso la sua vita ad opera di un plotone di esecuzione partigiano…

I due partigiani, con la loro povera vittima, stretta sempre per i capelli, spinta a calci nel sedere dal secondo partigiano appena arrivato, continuarono a camminare, per quanto lo permettesse la situazione, per raggiungere il luogo prescelto, dove intanto, proseguiva con cura meticolosa e maniacale il raggiungimento della soluzione finale per i Repubblicani.

L’arresto del Molinari, non passo’ inosservato.

Nelle prime case di Cadibona, che il giovane cercava disperatamente di raggiungere, alcuni abitanti avevano assistito alla scena e provarono anche ad avvicinarsi, ma furono sconsigliati dai mitra puntati dei due sgherri.
Anche un ufficiale partigiano, non garibaldino e quindi non comunista, vide la scena inumana.
Si avvicino’ per chiedere spiegazioni, ma anche in questo caso, il B.D. sollevo’ lo STEN in modo significativo, verso lo stomaco dell’intruso che dovette desistere da qualsiasi azione e vide i due che trascinavano il prigioniero nudo e crudo sin dopo la curva…

Provvide poi a protestare con il locale CLN, Comitato di Liberazione Nazionale per quel gesto, ma urto’ contro un muro di gomma.
Tuttavia appuro’ che il comando partigiano era perfettamente al corrente dell’accaduto. Anche due ragazzini, nascosti dietro ad un cespuglio assistettero alla scena, ma terrorizzati rimasero impietriti e conservarono il film del massacro nelle loro menti per tutti gli anni a venire. Ora hanno poco più di 70 anni e non hanno dimenticato ciò che videro, e me lo hanno raccontato.



roberto nicolick

L'uccisione di Domenico Masoero: anche questa fu Resistenza ???????


Domenico Masoero, classe 1902, era un semplice “camallo” del porto di Savona, non essendo più giovane e scarsamente idoneo per il servizio militare attivo al fronte , viene inserito nel corso della seconda guerra mondiale, nella cosiddetta UNPA, (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) la Milizia Antiarea, che in Italia gestiva le postazioni antiaeree, con il compito di difendere il centro abitato e gli impianti industriali della città dalle frequenti incursioni aeree alleate. A causa dei bombardamenti alleati che colpirono duramente l'Italia durante la seconda guerra mondiale, il personale dell'UNPA esercitò un ruolo rilevante nel soccorso dei civili sepolti dalle macerie. Gli uomini che facevano parte dell’UNPA non erano militari professionisti, anzi esattamente il contrario, quando iniziava il coprifuoco, essi indossavano una palandrana, l’elmetto, prendevano il kit antigas con la maschera e giravano per le vie della città assicurandosi che le finestre delle abitazioni fossero schermate, per non segnalare agli aerei nemici bersagli da bombardare. Domenico Masoero , sposato con Angela Grippo, era uno di questi uomini, che pur senza essere combattenti, facevano in concreto della Protezione Civile ante litteram. Masoero fece parte della milizia antiarea dal 1940 sino al 1944 e quindi venne ritirato dal servizio antiaereo e fu inviato a ricoprire l’incarico di magazziniere presso il magazzino vestiario della Federazione Fascista Repubblicana. I suoi vicini , quelli ancora in vita, ultraottantenni lo ricordano come un uomo semplice e buono, molto disponibile . Il pover’uomo non era un bieco torturatore fascista, era un gregario che distribuiva il vestiario e le uniformi ai militi repubblicani, ma , proprio per questo, venne immediatamente preso di mira dai partigiani comunisti, all’indomani del 25 aprile 1945. Accusato di fare parte di una Brigata Nera, la F. Briatore oltreché di essere iscritto, come tutti al Partito Fascista Repubblicano, iniziò per lui un vero e proprio calvario. Masoero, compresa la situazione, per non creare guai a sua moglie e ai quattro figli, di cui tre in giovanissima età,si allontana da Savona e raggiunta Acqui Terme si costituisce alle formazioni partigiane locali , ma avutane notizia i soliti partigiani comunisti savonesi, lo vanno a prelevare e lo portano alla prigione di Savona, il vecchio carcere Sant Agostino in piazza Monticello. Qui viene tenuto prigioniero per pochissimi giorni, e poi gli stessi partigiani che l’hanno preso lo trasferiscono, il 17 maggio, al campo di prigionia di Legino, comandato dal “tenente “ dei Partigiani Comunisti Luigi Vittorio Rossi detto “Stella Rossa”, affiancato nel comando da Ottonello Giuseppe, commissario politico, altro partigiano di “grande esperienza” nel trattare i prigionieri fascisti. Il campo di Legino è in una scuola elementare, la stessa dove fu assassinata la tredicenne Giuseppina Ghersi, uno dei casi più orrendi di atrocità commessi dai partigiani comunisti. La moglie Angela Grippo, avuta notizia del fermo del marito e del suo trasferimento al gulag di Legino, campo di non “ritorno”, con grande ansia si reca spesso al lager e riesce ad avere qualche brevissimo colloquio con il marito. L’uomo appare molto spaventato e gli fa i nomi di altri suoi compagni di prigionia, Giusto e Molinari, inoltre un altro internato Ercole Bottaro, riesce a paralare con la signora e le chiede notizie della moglie di cui non sa nulla da giorni. In genere i colloqui tra la povera moglie, Elena Gripppo e il Masoero avevano una durata brevissima , pochi minuti ,e in diverse occasioni i responsabili del campo , Rossi e Ottonello, arrivavano ad interrompere bruscamente gli incontri tra il marito e la propria moglie che veniva allontana e pure insultata, per la sola colpa di essere sposata con un “fascista”. Il 24 mattina, la signora Grippo si reca al campo per portare degli alimenti destinati a suo marito, che vengono ritirati dal partigiano di guardia il quale le comunica che il Masoero non è più presente presso quel campo e che quindi dovrà cercarlo altrove. Anche questo è un eufemismo che sta a significare che il prigioniero non è più in vita. Da quel momento la moglie non ha più notizie del marito, del modo e del perché è stato ucciso, dell’eventuale processo a cui è stato sottoposto e soprattutto del luogo della inumazione della salma. Scompaiono oppure non sono mai esistiti , gli atti amministrativi che dovrebbero documentare l’arresto , la detenzione, un eventuale processo e l’esecuzione del Masoero. La tendenza era quella di fare sparire ogni traccia anche la più piccola della esistenza di un fascista, a tanto infatti arrivava l’odio. La Signora Angela Grippo, nel 1946 denunciò , alla questura ed ai carabinieri la scomparsa di suo marito, in base a questa denuncia il Rossi Luigi, “Stella Rossa” viene interrogato e rilascia una dichiarazione, verbalizzata che è un capolavoro di menefreghismo e ipocrisia oltreché di arroganza: “ Quale ex comandante del campo di concentramento di Legino, dichiaro di non aver mai conosciuto né sentito parlare del Molinari Carlo, né del Masoero Domenico. Preciso che i detenuti politici venivano immessi al Campo dietro ordine della Questura e rilasciati esclusivamente per ordine scritto della Questura stessa. Non ho altro da aggiungere.” Anche il successivo comandante del campo, Del Santo Aldo, negò assolutamente di aver mai sentito parlare del Masoero o di altri detenuti , ammise solo che il precedente comandante era Rossi Luigi e basta. Dopo lunghe ed infruttuose ricerche, la moglie nel dicembre del 1949, fece un ulteriore e disperato, esposto alla Procura della Repubblica, raccontando la vicenda e adombrando il sospetto che il corpo del marito fosse stato gettato nella famosa “fossa dei cavalli “ a Legino. La signora chiese nel documento, di avviare indagini per poter dare cristiana sepoltura al marito e ai suoi compagni di sventura. Inoltre, era intento della povera donna, madre di ben 4 figli di cui tre adolescenti, sapere come e dove il proprio marito fosse stato ucciso e soprattutto la motivazione . Un’altra ragione che spinge la signora Grippo a voler avere cognizione , sta nel fatto che senza un certificato comprovante la morte del marito, lei non può essere definita vedova e pertanto non percepisce alcuna pensione di guerra che le sarebbe utile per mantenere i suoi 4 figli. Il primo febbraio 1950, la Questura di Savona e il Comando dei Carabinieri iniziarono le opportune indagini, procedendo con gli interrogatori del Rossi Luigi, responsabile del Campo di Legino alla ricerca del luogo denominato fossa dei cavalli o anche cimitero degli animali. Un rapporto dei Carabinieri, fra le altre cose afferma “ …e’ risultato che nei giorni della liberazione del territorio nazionale, da parte di elementi partigiani, nel citato sito ( la fossa dei cavalli) vi furono gettate delle salme di persone giustiziate e che indubbiamente si volevano tenere celate”. Le indagini non approdarono a nulla, i partigiani comunisti generalmente, non hanno mai svelato i luoghi di sepoltura delle proprie vittime, in un lungo filo di odio interminabile. Il 16 dicembre del 52 la Grippo invia un altro esposto che termina così : “ la scrivente chiede almeno di poter rintracciare i resti del proprio marito per darle sepoltura”. A tutt’oggi la salma del Masoero non fu mai ritrovata, la signora si spense pochi anni fa, senza avere avuto le risposte che per tanto tempo aveva cercato e i suoi figli smisero di cercare i resti del padre. Nessuno fu punito per questo omicidio politico. Domenico Masoero giace nascosto in qualche posto ignoto, dove i suoi assassini lo hanno abbandonato, un posto che solo loro conoscono ,e il cui segreto si sono portati nella tomba, su cui nessuno può posare un fiore o pregare. Roberto Nicolick

giovedì, febbraio 10, 2011

un'altra truffa dei valorosi partigiani


sto approffondendo con l'aiuto di amici....ecco i primi risultati...
a proposito del testo apposto sulla lapide collocata dal Comune di Bargagli a ricordo della fine della guerra, in cui si da merito alla resistenza di avere costretto alla resa oltre settemila tedeschi più i fascisti al seguito, mi ha indotto ad effettuare una piccola ricerca condotta su fonti avversarie. Fonti che sbugiardano questa lapide.
Nel volume "A fragment of victory in Italy", il colonnello Paul Goodman, già ufficiale della 92a divisione USA, a pagina 158 racconta che il 27 aprile 1945 la compagnia G del 2° battaglione ed il 3° battaglione del 442° reggimento di fanteria nippoamericano ricevettero la resa di circa 3000 soldati nemici presso Uscio e Ferrada a nordest di Genova. Tale fatto è stato confermato da un partigiano che fece da guida ai nippoamericani nello sfondamento del fronte gotico presso Massa il 5 aprile '45, e seguì poi le sorti del 442° reggimento fino a Mentone. Ecco le sue parole: "Presso Uscio partecipai alle operazioni di resa di tedeschi e truppe fasciste ai nippoamericani, ricordo perfettamente che alcuni ufficiali si tolsero la vita in un estremo rifiuto della resa." In quel fatidico 27 aprile, i partigiani quindi si limitarono ad osservare le operazioni di resa, a loro rifiutata dai soldati RSI e tedeschi al seguito. Il grosso dei partigiani sostava infatti sulle colline sovrastanti il bosco della Tecosa, come confermatomi anche da persone anziane del posto. A conclusione vorrei riportare le parole del sergente maggiore Gian Maria Guasti, della divisione Monterosa che era presente ai fatti: "Fummo inquadrati in ranghi ordinati e passammo davanti ad un reparto americano schierato, che ci onorava presentando le armi". Subito dopo buttammo le nostre armi in una valletta alla rinfusa sotto gli occhi vigili dei militari americani..."

Quotidiano online della provincia di Savona: L’uccisione di Domenico Masoero

Quotidiano online della provincia di Savona: L’uccisione di Domenico Masoero

domenica, febbraio 06, 2011

una splendida mail che mi incoraggia ad andare avanti

Ciao,

premetto che sono stato un tuo alunno presso l' ITIS di Cairo Montenotte (fine anni '80) e mi sei sempre stato simpatico, ora ti disturbo perchè sento forte l'esigenza di ringraziarti per tutto quello che fai per divulgare i crimini commessi dai partigiani comunisti.
Non ti nascondo che se non era per te io mai sarei venuto a conoscenza di questi terribili episodi, queste incresciose ed efferate violenze se non era per la tua grinta e per il tuo impegno sarebbero finite nel dimenticatoio e si sarebbe persa per sempre ogni traccia; chissà a quanti dà fastidio che queste verità ormai siano di dominio pubblico!!
Se non ricordo male mi sembra di aver letto qualche tempo fa sui giornali che eri stato vittima di intimidazioni e di questo mi dispiace ma sicuramente a molti avrebbe fatto comodo che questi fatti non fossero mai usciti.
Con il tuo operato hai fatto onore a tutte quelle persone che sono cadute vittima di questi inutili e gratuiti sopprusi, nulla le potrà far tornare in vita ma almeno si sappia la verità; bisognerebbe ricordare questi episodi ogni 25 aprile perchè i giovani sappiano veramente come stanno le cose ma la vedo dura.
Ancora grazie per tutto quello che hai fatto, appena mio figlio avrà l'età per capire (ora ha quasi 4 anni) sarò ben lieto, con l'aiuto del tuo materiale, di spiegargli come sono andate realmente le cose.




Un caro saluto

giovedì, febbraio 03, 2011

LA SCHEDA SEGNALETICA DI BENITO MUSSOLINI


Ecco la scheda segnaletica di Benito Mussolini, all'epoca in cui era extraparlamentare e muoveva i primi passi in politica :

mercoledì, febbraio 02, 2011

L'oro di Dongo



Quando Benito Mussolini nell'aprile del '45 fu fermato dai partigiani a Dongo, piccolo paesino sulla riva occidentale del Lago di Como, aveva con sé una vera fortuna: danaro contante (circa 230 miliardi di allora) e oltre 42 chili in lingotti d'oro, ovvero tutto quel che restava del patrimonio della Rsi. Passato alla storia come il famigerato "oro di Dongo", quel "bottino" ha segnato il destino di molte persone, tra cui anche quelli dei partigiani Neri e Gianna. I due, infatti, volevano che la fortuna requisita al duce in fuga verso la Svizzera fosse restituita all'erario italiano e per questo furono fatti eliminare dal Pci. Renato Morandi, classe 1923, all'epoca dei fatti era un giovane comandante partigiano della Brigata Garibaldi, che operava proprio nel comasco. (foto: la tessera di Renato Morandi del C.d.L.N)

Morandi, lei conosceva personalmente Gianna e Neri?

«Certo, io operavo in quella zona con loro, ma all'epoca dei fatti non c'ero perché a causa di una grave malattia avevo dovuto allontanarmi dalle operazioni. Ricordo però molto bene la figura di Neri come una persona intelligente e aperta, un vero comandante, con un'esperienza militare grandissima. Si era formato in Abissinia e sul fronte russo, dove aveva imparato le tecniche della guerriglia. Era un camminatore formidabile, su e giù per le valli, non era mai stanco».

Perché ad un certo punto lei diventa un testimone fondamentale di questa vicenda?

«La vicenda della morte di Gianna e Neri è sempre stata presente nella vita di molti partigiani di quella zona. Nel 1999 io ero stato attaccato da un giornalista per un'altra vicenda, sempre legata alla lotta partigiana nel comasco. Per fare luce su quegli episodi e per ricostruire vicende di cui ricordavo poco andai all'istituto storico della Resistenza di Como e lì iniziai a prendere atto direttamente, de visu, della brutta fine che fecero alcune persone oneste, in relazione alla sparizione dell'oro di Dongo, tra questi c'erano anche i partigiani Gianna e Neri. E così iniziai a chiedere conto sia all'Anpi sia al partito. Ci furono comunque altre persone coinvolte e ridotte al silenzio».

Chi e in che modo?

«Beh Moretti e Terzi dovettero espatriare all'estero, in Jugoslavia. Erano testimoni scomodi e vennero allontanati subito dopo i fatti e tramite la sezione del Pci di Udine portati in Jugoslavia, dove hanno lavorato per molti anni. Ho incontrato Terzi a Varese nel 1991 a casa di Franco Giannantoni. E anche in quella occasione si parlò di Gianna e Neri».

Che cosa accadde dopo il sequestro dei beni della Rsi?

«Neri il 4 maggio del 1945 va a trovare il segretario del partito comunista di Como, chiedendo ragione della fine dell'oro di Dongo. Dei valori sequestrati erano stati stilati da lui stesso tre elenchi, ma nulla di quell'enormità era finito all'erario, cioè allo Stato. Neri venne ucciso dopo quella visita».

E Gianna?

«Erano molto legati tra loro, si amavano. Dopo due mesi dalla scomparsa di Neri, Gianna andò a chiedere sue notizie per cercare di capire che cosa fosse successo. Venne prelevata il pomeriggio del 23 giugno, mentre in bicicletta tornava da Dongo. L'hanno seguita, caricata in macchina e fatta sparire. Sono morti entrambi per la loro onestà e la loro coscienza di cittadini italiani»

Dove finirono i soldi?

«A Milano e a Roma, comprarono proprietà e tra queste probabilmente anche Botteghe Oscure».

Il libro di Franco Giannatoni e Giorgio Cavalleri ha dato un contributo decisivo alla scoperta della verità?

«Sì, perché è un libro ben documentato, dove si fa finalmente luce su questa drammatica vicenda partendo dai fatti e dai documenti. È un riconoscimento di onestà che meritano. Rimangono ancora poche ombre su cui ci sono delle supposizioni realistiche»

Tra le ombre di cui lei parla c'è anche il destino della borsa contenente il compromettente carteggio con il premier inglese Winston Churchill?

«Si conoscono mandanti ed esecutori materiali, purtroppo non si sa dove furono fatti sparire i corpi di Gianna e Neri. Poi c'è anche il mistero riguardante quella borsa. Il contenuto fu diviso in due: una parte andò ai partigiani di fede monarchica, che avevano un rappresentante in brigata, l'altra sparì. Da qualche parte le risposte ci saranno e penso che all'Istituto Gramsci di Roma ci sia ancora un pezzo di verità da scoprire».

Franco Giannantoni e Giorgio Cavelleri "Gianna" e "Neri" fra speculazioni e silenzi Edizoni Arterigere