AD ERICA CORTESE IL PREMIO “ISTRIA TERRA AMATA”
L’affermazione secondo cui i giovani sarebbero insensibili alla tragedia giuliana e dalmata, pur trovando conferme tanto tristi quanto frequenti, ha le sue brave eccezioni, fra cui vogliamo segnalare quella di Erica Cortese, giovane studentessa del Liceo Scientifico, nipote di Esuli da Pola, che ha voluto dedicare la sua tesi di maturità proprio alle Foibe ed al grande Esodo.
Ne è scaturita una monografia di ottimo valore, quale sintesi obiettiva e documentata di quanto accadde in quegli anni plumbei, che “L’Arena di Pola” ha ritenuto degna di pubblicazione in apposito opuscolo, distribuito agli abbonati e diffuso in occasione di alcune manifestazioni del Ricordo.
A riconoscimento della gratitudine e dell’apprezzamento per il suo lavoro, anche il Comune di Pola in Esilio ha voluto dare ad Erica, ora universitaria, un attestato ufficiale: il Premio “Istria Terra Amata” costituito da una bella targa personalizzata che il Sindaco, Prof. Argeo Benco, ha consegnato ad Erica in una commovente cerimonia svoltasi il 4 dicembre a Torino, alla presenza di un folto gruppo di esuli e di amici.
Il nostro Comitato si unisce ai complimenti di rito, con l’auspicio che l’esempio di Erica venga seguito da altri e che il buon seme del suo generoso impegno possa rapidamente germogliare.
LICEO SCIENTIFICO STATALE
“L. LANFRANCONI”
GENOVA
L’ESODO DIMENTICATO
“LA GUERRA E’ LA LEZIONE
DELLA STORIA CHE I POPOLI NON RICORDANO MAI ABBASTANZA”
ERICA CORTESE
CORSO TRADIZIONALE
CLASSE QUINTA - SEZIONE “I”
ANNO SCOLASTICO 2009-2010
Premessa
Questa ricerca storica
ha lo scopo di dimostrare che le foibe sono state certamente una delle cause
prioritarie (assieme a tutte le altre persecuzioni, quali annegamenti e
fucilazioni, e come l’eccidio di Vergarolla del 18 agosto 1946 in cui l’OZNA fece
scoppiare un deposito di bombe in prossimità della spiaggia, causando oltre un
centinaio di Vittime) dell’Esodo: mi sono limitata a riportare testimonianze
pubblicate, italiane e slave, che dimostrano che gli infoibati non sono
fantasmi inventati dai profughi per giustificare un “esodo sconsiderato”, ma
che gli incredibili infoibamenti si sono realmente verificati in diverse parti
dell’Istria.
Tratterò la storia
del calvario e del travaglio della Venezia Giulia durante l’ultima guerra e documenterò
le cause che determinarono la fuga di
quasi tutta la popolazione italiana: è
una storia di sangue, di morti, di fughe, d’infoibamenti barbari e crudelissimi.
“Giudicate Voi, connazionali e stranieri,
uomini di studio e d’azione, d’ogni classe e di ogni partito, se questa nostra
terra istriana non sia degna di tutto l’amore che le portiamo, non sia inconfondibile nel carattere della sua
civiltà; e pertanto non sia un delitto spartirla, soffocarla, snaturarla”. Questo
angoscioso appello di Giani Stuparich è l’eco del dolore di centinaia di
migliaia di profughi che vissero e vivono nel silenzio più amaro e dignitoso.
Inoltrarmi in queste
vicende e nel voler conoscere il motivo dell’abbandono di terre amatissime vuol
essere anche la ricerca delle mie radici per capire perché il mio bisnonno ha
abbandonato lavoro, casa, tombe, amicizie, ricordi per andare verso l’ignoto
con la sua numerosa famiglia (dieci persone,
tra cui un nipotino di pochi mesi e un suocero di 80 anni).
Desidero conoscere questa
terra nella sua posizione geologica e geografica e prima di tutto nella sua storia.
e.c.
La penisola istriana nella sua attuale configurazione politica
divisa tra la Slovenia e la Croazia.
L’Istria, la più
grande penisola adriatica, è un triangolo rovesciato di 4.956 chilometri
quadrati. La base di 67
chilometri è attaccata alle radici del Carso triestino. A nord e ad est è difesa dalla
bianca cerniera delle Alpi Giulie e dalle creste dei monti Tricorno (2863 metri ), Nevoso (1796 metri ) e Maggiore (1396).
Si allunga per 48 chilometri ,
si restringe fino ad immergere il vertice nel
Quarnero. E’ fasciata da una costa di 500 chilometri ,
frastagliata da porti e da baie sabbiose, circondate da rocce che catturano e
difendono il tepore. Il fiordo di Leme ha le pareti strettissime, alte 150 metri e l’acqua
profonda 20 metri .
Il porto di Pola è lungo cinque chilometri ed è protetto da sette colli. I carghi
per il carbone s’insinuano attraverso un canale industriale fino alle miniere
dell’Arsa. A sentinella delle cittadine costiere, ingioiellate di logge, bifore e
campanili veneziani, ci sono molte piccole isole che nelle pinete
nascondono ville e monasteri. Dopo Fianona, sotto il mare, sgorgano numerose polle
d’acqua tiepida a dieci gradi; tra Moschiena e Bersezio, da un fondo marino profondo
120 metri
e largo 60, sgorga un getto violento di acqua calda che attira i bagnanti e i
pesci.
I geologi la dividono
in tre settori. L’Istria bianca, così chiamata per le pietre nude e biancastre
nella parte settentrionale, è un altopiano di circa 500 metri sul mare che
costituisce il Carso istriano: “un’enorme spugna pietrificata”. L’Istria grigia,
per i calcari sciolti nell’era terziaria, occupa la parte centrale: è
costituita da dossi collinosi, solcati da valloni, coperti da una vegetazione
bassa e contorta di roveri, querce, lecci, betulle, aceri e faggi. Si estende
fino a Pola, “l’antico ager” che la legge agraria “Julia” del 49 d.C. aveva assegnato
ai fanti, ai centurioni, ai veterani delle guerre di Augusto. Comprende tutta
la valle del Quieto fino a Montona: è la più bella e la più ricca. C’è infine
l’Istria rossa, per le terre argillose, che si estende per i centri di Parenzo,
Orsera e Fontane: quanto al 60 per cento predomina il pascolo e quanto al 40
per cento il seminativo; il turismo vi ha installato villaggi ed alberghi.
I geografi hanno
scelto la nostra parola “Carso” per indicare un altopiano di petraia corrosa, che
si presenta come tante schiene taglienti
di antichi dinosauri pietrificati. Le creste sembrano arabeschi di pietra, tra
chiazze di sole e di vegetazione spremuta dalle fessure: una terra gialla,
rossa, viola di arbusti, di argilla sanguigna. Ogni tanto si ripiega e si
riposa in una collina di verde intenso, sprofonda improvvisamente nelle gole
gibbose delle foibe, che si aprono in caverne tortuose e nere dove i torrenti
scrosciano e urlano nel mistero.
Un esempio classico è
il Timavo, il fiume
sacro del Carso, del quale parlano Livio, Strabone, Sempronio Tuditano e lo
stesso Virgilio. E’ un’ondata di 230 mila metri cubi d’acqua che precipita da
un’altezza di 670 metri
dopo un breve percorso di 71
chilometri ; l’ondata scende nelle gole sotterranee per 37 chilometri creando
gallerie urlanti per esplodere in mare, come dice Virgilio, “con nove bocche
che fanno rintronare i monti circostanti”. Pagani e cristiani l’hanno divinizzato
costruendo templi alle sue foci in onore di Ercole, della “Spes Augusta” e di
San Giovanni Battista. Anche i fiumi Risano, Quieto e Arsa corrono in
superficie, precipitano scrosciando negli anfratti, scavano cunicoli, creano
laghi e cupole, infine riappaiono freschi e veloci fra le rocce. Da questo
manto argilloso e selvaggio la flora sboccia in un festa originale di colori
tenui e fiammeggianti di essenze e di profumi.
In queste terre,
nella prima guerra mondiale italiani e austriaci hanno sparato l’uno contro l’altro con le
scarpe nel fango; nell’ultima guerra i soldati si sono inseguiti ed uccisi con
rabbia. Almeno dodici mila persone, vive e morte, sono state gettate come
rifiuti nelle voragini; centinaia di profughi, braccati dalle mitragliatrici,
si sono mimetizzati tra le pietre e i cespugli, molti sono rimasti appesi al
filo spinato. L’alito gelato e violento della bora, l’odio e l’eroismo degli
uomini hanno graffiato, inciso storie folgoranti di colori e di tragedie, di
preghiere e di maledizioni. Scrittori come Svevo e Slataper l’hanno celebrato
come un altare sacro e maledetto, sotto un velo di sogni e di ricordi.
L’Istria ha costituito
durante la storia una frontiera difficile e tormentata tra la civiltà latino-veneziana
e quella slava. La dinamica strutturale della popolazione è stata condizionata
da particolari fattori storici, culturali e commerciali che ne hanno
determinato il carattere.
Possono essere individuati sei periodi
principali.
1 - PREISTORIA
Il nome Istria
deriva da “Histrum”, un affluente del Danubio che scorre a nord della penisola.
I primi abitanti, usciti dalle caverne nell’età del bronzo, costruirono i
“castellieri”, costruzioni con pietre a secco con una cinta per la gente e una
per custodire gli animali. Era popolata da Veneti nel nord, da Liburni lungo la
costa, da Istri nel sud. Nel 400
a .C. ebbe luogo una rilevante infiltrazione celtica che
si mescolò con gli Illiri e con i Giapidi.
2 - IMPERO ROMANO (177 a .C. - 493 d.C.)
Per sei secoli l’Istria
visse nella “Pax Romana”: fondata Aquileia (Forum Julii), i Romani inviarono in
Istria 15 mila coloni e fondarono le colonie di Trieste (Tergeste) e di Pola
(Pietas Julia, dal nome della figlia di Augusto), i municipi di Parenzo (Parentium),
i “Vici” (villaggi) di Fasana (Fasanum), Orsera (Ursaria), Rovigno (Rubinium), Umago (Humagum) e Nesazio (Nesathium); la grande via Flavia collegò Trieste,
Pola e Fiume (Tarsatica).
Nel 27 a .C. Augusto concesse loro
la cittadinanza romana; nello stesso anno il Senato divise l’Italia in undici
Regioni e creò la “Decima
Regio Venetia et Histria” che si estendeva dall’Oglio
all’Arsa e dalle Alpi al Po. Il “Magister militum” aveva la sua sede a Pola.
All’età di Costantino ebbe inizio la costruzione dei “Clausura Alpium
Juliarum”, uno sbarramento per bloccare le invasioni dall’Oriente: “si tratta
di un poderoso ed unitario sistema difensivo, steso lungo i rilievi del Carso e
delle Alpi Giulie, da Tarsatica (Fiume), sul golfo del Carnaro, fino a raggiungere
la valle dell’odierna Carinzia. Articolato in torri di vedetta, castelli,
installazioni militari, posti di controllo e lunghi muraglioni, veniva a
sbarrare la strada diretta da Lubiana ad Aquileia”. La Provincia diede
guerrieri, tribuni, consoli, senatori ed ammiragli, e Roma lasciò le orme
nobilissime della sua arte: a Trieste il Colle capitolino, il Foro ed il Teatro;
a Brioni terme e ville; a Parenzo il Palazzo Pretorio ed il lapidario; a Pola
l’Anfiteatro, l’Arco dei Sergi ed il Tempio di Augusto, due teatri, la Porta Gemina e la
Porta d’Ercole (il più antico monumento romano del nord Italia, costruito nel 40 a .C.); a Fiume l’Arco
Romano; a Zara il Foro; a Spalato il Palazzo di Diocleziano.
3 - IMPERO D’ORIENTE (553 - 830)
L’ondata dei barbari attraversò
le Alpi e fece tremare l’Impero Romano; gli istriani si rifugiarono sulle isole
e sulla costa, non raggiungibili dai carriaggi. Sorsero così Isola,
Capodistria, Pirano, Parenzo, Rovigno, poi gli abitanti costruirono dei ponti
ed infine degli istmi. L’Istria passò sotto Ravenna: Teodorico la sfruttò “come
dispensa della città reale” (Cassiodoro, ministro di Teodorico); sorse la Basilica
eufrasiana di Parenzo, splendente di meravigliosi mosaici dell’arte ravennate.
Il Cristianesimo, partito da Aquileia, si diffuse attraverso la via Flavia e fondò le
diocesi di Parenzo, Pola, Cittanova, Capodistria e Pedena. Nel 788 l’Istria
passò a Carlo Magno, sotto il quale si instaurò il sistema feudale nelle mani
del Duca Giovanni, che soppresse le autonomie comunali.
Gli slavi avevano
tentato, ma con scarso successo, di insediarsi in Istria nel 599 a seguito degli Avari,
nel 602 a
seguito dei Longobardi e nel 611 da soli; apparvero poi in piccoli gruppi nei secoli
IX e X.
“La lotta per la
conquista della regione giuliana si riassunse storicamente tra Romani e Germani
e, nell’ultimo secolo anche fra italiani e slavi. Ciò mette in luce uno dei fatti
fondamentali di questa storia: mai, o quasi, gli slavi del sud, i croati o gli
sloveni, hanno preso parte direttamente in questo conflitto di sovranità, sino
al 1918. Il regno croato ha potuto soltanto sfiorare la regione giuliana nei
secoli X e XI”.
Nell’804, su iniziativa
del Patriarca di Aquileia, ebbe luogo il “Placito di Risano”, una riunione dei
rappresentanti di tutte le città istriane, dei Vescovi e dei Giudici. Questi
accusarono i “Missi Dominici” di Carlo Magno e il Duca Giovanni perché non
rispettavano i loro diritti; chiesero così l’allontanamento dei “Paganos Sclavos”,
altrimenti avrebbero preferito morire. Il Duca Giovanni, scosso dalle accuse,
promise che li avrebbe espulsi: “Nos Eos Ejciamos Foras”. Egli fu allontanato, e
furono ripristinati i diritti degli istriani, la magistratura e i tribunali
secondo le tradizioni romano-bizantine, e gli slavi furono confinati in territori
marginali.
4 - REPUBBLICA DI
VENEZIA (830 - 1797)
La presenza di
Venezia incontrò difficoltà nello
spirito d’indipendenza degli istriani, nell’opposizione dei
duchi di Baviera (952), dei conti di Corinzia (976), dei Weimar, dei conti di
Gorizia e dei patriarchi di Aquileia, ma col tempo, sia pure tra vivaci lotte,
la presenza di Venezia si affermò su tutta l’Istria, i cui abitanti, sconfitti
come nemici, prima diventarono sudditi irrequieti, poi amici, ed infine si
integrarono nella cultura, nell’arte, nelle sventure e nelle vittorie di
Venezia. Il Leone di San Marco è stato il simbolo della presenza veneziana: il
primo apparve nel 1250 su una vecchia torre dell’isola di Veglia; da allora lo
troviamo sulle facciate delle chiese, dei palazzi comunali, sulle porte
d’ingresso.
Il commercio, l’arte,
la lingua e la comune
amministrazione hanno creato fra le due sponde un ponte
straordinariamente ricco di cultura, di civiltà e di religione: l’Istria e la
Dalmazia hanno dato alla Serenissima dogi, capitani, magistrati ed equipaggi; hanno
fornito la pietra bianca per le chiese, per i campielli, per Piazza San Marco,
per il Palazzo Ducale, per le scalinate dell’Arena di Pola (una targa
sull’Arena ricorda il Doge veneziano che ne impedì il completo smantellamento
per ricostruirla a Venezia), per la Cà d’Oro, per molti edifici pubblici, e
legname per i cantieri navali, per le vetrerie di Murano e per i focolari. Sono
di pietra istriana le facciate di S.
Giorgio , del SS. Redentore, di San Francesco della Vigna del
Palladio, dei palazzi Pesaro, Rezzonico, delle Procuratie Nuove, la Basilica
della Salute, i ponti, le vere dei pozzi, gli stipiti delle finestre, il Forte
di S. Andrea
del Sanmicheli. Nella prestigiosa architettura veneziana c’è una piccola
Istria: le quattro colonne di marmo di marmo greco che sostengono l’arco
trionfale del presbiterio della Madonna della Salute provengono dal teatro
romano di Monte Zaro presso Pola. Alcuni storici affermano che anche le quattro
colonne di alabastro, scolpite con storie sacre, che sostengono il ciborio di S. Marco , sono state tolte alla
Basilica della Madonna del Canneto di Pola. Venezia esportò i suoi ordinamenti,
le sue scuole, la sua architettura nelle chiese, nei palazzi, nelle logge. Quattordici
galere istriane e dalmate, con propri equipaggi, parteciparono alla battaglia
di Lepanto, grande vittoria della Cristianità, nel 1571.
Dal 1347 al 1650 la
peste s’abbatté sull’Istria: la peste nera, untuosa, corrodeva la pelle degli
uomini e degli animali, la corteccia degli alberi e i germogli dei fiori.
Poiché le guerre contro i turchi e le pestilenze avevano decimato la
popolazione, Venezia importò tra il 1520 e il 1541 migliaia di slavi nelle
campagne di Pisino, Rovigno, Parenzo e Pinguente: per invogliare la loro immigrazione, li
esonerò per cinque anni da tutti i tributi. Si trattava di gente povera, rozza
e violenta, dedita alla pastorizia ed alla coltivazione dei campi. Nel 1625 la
popolazione di tutta l’Istria si era ridotta a 39 mila persone spaurite; una
relazione del Senato veneziano parla di “paese horrido et inculto”. Per
ripopolarlo Venezia chiamò bosniaci, morlacchi, albanesi che però non
coltivavano la terra, erano mandriani, ladri di buoi e di cavalli, grassatori
di strada, devastatori di selve e di boschi per legname da fuoco.
In Istria l’italianità
non fu importata da un’immigrazione esterna, ma si sviluppò “in loco” sul ceppo
romano e veneziano come è avvenuto in tutte le regioni italiane: nell’incontro
tra due civiltà prevale la più ricca e moderna.
Lo storico austriaco
Veiter scrive: “Nei territori adriatico-dalmati gli italiani appartenevano fin
dai tempi remoti a ceti sociali elevati. Il dislivello sociale tra italiani e
slavi deriva dall’originario livello culturale, molto più elevato, dei
veneziani rispetto agli slavi”.
Quando nel 1797 la Repubblica
di Venezia cadde, in Istria e Dalmazia gli stendardi della Serenissima vennero
nascosti sotto gli altari e si continuò a celebrare la festa di San Marco. Con
il trattato di Campoformio, Venezia ed i suoi territori furono ceduti
all’Austria.
5 - MONARCHIA AUSTRIACA
(1797 - 1918)
Si tratta di un
dominio di 121 anni, interrotto dal 1806 al 1815 dal Regno napoleonico d’Italia.
L’Austria delle fredde nebbie danubiane spalancò con l’Istria una porta verso il
mare caldo del Mediterraneo: i grossi mercanti tedeschi e austriaci, i conti e
i baroni costruirono castelli e installarono agenzie d’affari con l’Oriente e
con tutta l’Europa: l’Austria adornò Trieste di una sontuosa architettura, le
diede il porto franco e nuove banchine trasformandola in un emporio mitteleuropeo
(simbolo di questa grandiosità è rimasto il bianco Castello di Miramare). Il
grande porto di Pola accolse la nuova flotta della “Imperiale Regia Marina”.
A Pola si
installarono 16 mila marinai e gli ammiragli con le loro famiglie; il cantiere
militare diede lavoro a migliaia di altre famiglie. Fiume, come porto
commerciale d’Ungheria, diventò un centro cosmopolita di affari: il benessere
ed un certo orgoglio si estesero nel mondo degli affari, della marina e della
gente.
Sotto, fremeva l’irredentismo
italiano che si espresse in manifestazioni eroiche come quelle di Oberdan,
Sauro, Filzi, Rismondo. L’Austria lo teneva sotto controllo con la forca, con
l’appoggio alla minoranza slava, con l’investitura di vescovi austriaci e slavi
a Pola, Trieste e Gorizia, con le visite sfarzose di imperatori, di arciduchi e
di principesse in occasione di inaugurazioni di ferrovie, degli impianti di
luce elettrica, del varo di navi, di manifestazioni religiose; e con la libertà
di lingua e di costumi.
Nel 1915, allo
scoppio della Grande Guerra, gli austriaci condannarono all’internamento di
Wagna 22 mila italiani dell’Istria, perché ritenuti politicamente sospetti: era
un campo di dodici baracche di legno, da cui molti prigionieri venivano
smistati negli altri campi sparsi per tutto il Regno. A Wagna esiste una croce
in pietra bianca che ricorda 2920
istriani: quelli che vi trovarono la morte lontano dalla loro patria.
L’Austria, per
dominare i vari popoli, spesso nemici tra loro, che facevano parte del suo impero,
adottò la politica del “divide et impera”. In due lettere del 6 e del 21 luglio
1848 l’amministrazione austriaca di Capodistria scriveva a Don A. Pavsler,
parroco di Crociata, che “l’imperatore aveva piena fiducia soltanto negli
slavi, apprezzava la loro fedeltà e sentiva il prezioso suo dovere di esaudire
i desideri degli slavi dell’Istria” (Androvic, “La questione croata”, 1903).
L’Austria, nonostante
la sua propaganda non fu capace di spegnere lo spirito italiano nemmeno negli
operai dell’arsenale di Pola: non valsero i libri “zeppi di vittorie asburgiche
e di sconfitte italiane”; l’esaltazione dell’ammiraglio Tegethoff, vincitore a
Lissa; l’invio nelle scuole dei “ringhiosi ispettori slavi”; il parlare dell’Italia
come sinonimo “di miseria, di sporcizia, di grettezza, di inettitudine a qualunque seria occupazione, mentre l’impero
austriaco era costituito da gloriosi ammiragli, da una lingua che garantiva una carriera sicura; da
ingegneri appartenenti ad una razza ritenuta superiore e privilegiata; da un
popolo, destinato da Dio a condurre il mondo sulla giusta strada”. Un
imperialismo che, sfruttando tutte le vocali, si sintetizzava nella sigla AEIOU: “Austriae Est Imperare Orbi Universo”.
Eppure questa
politica non ha provocato esodi di massa come avverrà sotto Tito. Per gli italiani,
però, l’Austria con i suoi gendarmi politici, i suoi colori e la sua cultura danubiana,
era pur sempre straniera.
6 - MONARCHIA ITALIANA (1918 - 1945)
Il trattato di
Versailles del 28 giugno 1919 assegnò la Venezia Giulia all’Italia;
poi fu completato con quello di Rapallo del 22 novembre 1920 che assegnò all’Italia
la città di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e da quello
di Roma del 27 gennaio 1924 che le assegnò anche Fiume e cedette Porto Baross
alla Jugoslavia.
Il passaggio
dall’Austria all’Italia ebbe ripercussioni profonde sul piano
economico-sociale: il porto di Trieste non fu più lo sbocco al mare di un
entroterra europeo statualmente
omogeneo, Pola non ebbe più il ruolo di scalo strategico di una grande potenza
militare, l’agricoltura istriana soffrì subito la concorrenza delle ricche campagne
venete e friulane.
Ad applicare i nuovi
ordinamenti arrivarono i funzionari statali, che la gente avvertiva diversi per cultura e tradizione e chiamava
“regnicoli”. Con i contadini croati e sloveni, che in genere capiscono il
dialetto istro-veneto, ma non la lingua italiana, l’incomunicabilità si tradusse
in forme di ostilità, tanto più che il nuovo Stato si presentava anche con il
volto, severo e inflessibile, del fisco. La gente dei campi era abituata al
sistema fiscale austriaco, rigido nell’accertamento ma duttile nella
riscossione e si trovò a dover affrontare il fisco italiano, molto più rigido.
L’Istria è una terra
povera di acqua e ricca di sassi; solo lungo la costa occidentale la terra è
meno avara e i contadini seminano ogni appezzamento di terra sui fianchi delle
colline e destinano i declivi più ripidi al pascolo; il reddito più consistente
viene dal vino e dall’olio. Con le nuove condizioni fiscali le medie e piccole
proprietà non poterono reggere: molte terre andarono all’incanto e passarono in
proprietà di alcuni avventurieri politico-finanziari venuti da altre regioni,
di commercianti creditori, ma soprattutto degli istituti di credito fondiario.
Nella Venezia Giulia il Governo
fascista decise di attuare sin dall’inizio una politica della “mano dura”: nei confronti
degli slavi, definiti allogeni, la parola d’ordine fu subito quella di “assimilazione”.
Il Decreto regio che dispone di italianizzare tutta la toponomastica è del 1923
e quello relativo all’italianizzazione dei cognomi reca la data del 1928, ma si
tratta di atti governativi che sanciscono processi di fatto, avviati da anni.
Già dal 1919, in
epoca prefascista, le autorità militari avevano impartito l’ordine di non usare
le lingue slovena e croata nei luoghi pubblici.
La riforma della scuola varata dal ministro Giovanni Gentile (ottobre
1923) decreta (art. 17) la cessazione dell’insegnamento in lingua straniera
entro i confini del regno.
L’austriaco Veiter
scrisse: “In tutto il territorio in questione gli italiani avevano avuto il predominio
politico ed economico ed avevano dato il tono culturale, non solo sin dai tempi
del dominio di Venezia, ma anche dove gli Absburgo dominavano dal primo Medio
Evo. E questo predominio rimase intatto sino al 1918” . Infatti nel 1914,
sotto l’Austria, c’erano in Istria 50 Comuni, dei quali 13 con amministrazione
slava e 37 con amministrazione italiana. Tra questi ultimi figurano tutti i
centri più importanti per numero di abitanti e per attività economiche e
culturali, come Trieste, Pola, Fiume,
Capodistria, Rovigno, Cherso, Lussino, Albona, Dignano. Nel 1914 in 118 centri della Venezia Giulia erano
state censite 69 scuole italiane, 26 slave e 15 mistilingui. Durante la guerra
1914-1918 ben 2107 giuliani, dei quali 1030 ufficiali, passarono clandestinamente
la frontiera e si arruolarono nell’esercito italiano, rischiando la forca. Questo
spirito d’italianità ha trovato conferma nel glorioso e doloroso primato dei Caduti
giuliani durante l’ultima guerra, nei confronti di tutte le altre Regioni
italiane. La Venezia
Giulia ha avuto 30 Caduti ogni mille abitanti, seguita dal
Friuli con 16, ma la media nazionale è di dieci Caduti ogni mille abitanti
(Istat).
* * *
JUGOSLAVIA
(1943 - 1947).
PRIMA OCCUPAZIONE: dal 9 settembre al 13 ottobre 1943.
Il 6 aprile 1941, a seguito del colpo
di stato di Belgrado e del suo cambiamento di campo, l’Asse dichiara guerra
alla Jugoslavia e dopo cinque giorni le truppe italiane entrano a Lubiana ed
occupano tutta la Dalmazia: dopo solo 11 giorni la Jugoslavia capitola e chiede
l’armistizio. L’Italia istituisce il
Regno di Croazia ed il Governatorato della Dalmazia.
L’8 settembre 1943 l’Italia,
dove il Governo del Maresciallo Badoglio ha sostituito quello di Mussolini,
chiede l’armistizio agli Alleati e i partigiani slavi ne approfittano e
dilagano nella Venezia
Giulia : Trieste, Pola e Fiume dopo poche settimane vengono
recuperate dai tedeschi. Questa prima occupazione slava dura 35 giorni, ma poi
i tedeschi, appoggiati da gruppi italiani della nuova RSI, riprendono il controllo
del territorio giuliano. Il 13 ottobre rigettano oltre il vecchio confine gli
ultimi slavi e costituiscono a Trieste l’“Operations Zone Adriatisches
Kùstenland” (Zona di operazione del
Litorale Adriatico) sotto il comando di un “Oberster Kommissar” (Supremo
Commissario).
L’Istria era rimasta
in mano ai partigiani per poco più di un
mese, ma in quel periodo si ebbero una serie di processi da parte di
improvvisati tribunali popolari, confische di beni, rappresaglie e sopra tutto
uccisioni di massa, con l’eliminazione
delle Vittime nelle foibe del sottosuolo carsico o nei pozzi delle cave
di bauxite. Gli eccidi ebbero il carattere di una rappresaglia brutale, ispirata
da alcuni croati autoctoni che volevano indirizzare l’insurrezione partigiana sul
binario di una rivincita nazionale e sociale contro l’Italia. L’elenco delle Vittime
non è interamente conosciuto ed il quadro della tragedia istriana del
settembre-ottobre 1943 non è del tutto definito. Nel ricordo di molti istriani
resta una stagione di terrore in cui gli
uomini del nuovo potere si aggirano per i paesi armi in pugno, minacciano
epurazioni e vendette e, soprattutto di notte, penetrano nelle case prelevando
uomini e donne sulla cui sorte nulla dicono. La politica del potere popolare si
abbatte su tutto il gruppo etnico italiano, e tende a colpire specialmente la
classe dirigente di ogni attività, per eliminare coloro che erano stati i punti
di riferimento comune.
Il Litorale Adriatico è considerato dai tedeschi,
se non altro in via di fatto, come territorio appartenente al Terzo Reich:
emanano nuove leggi, tentano di dare un nuovo assetto civile alle zone plurietniche,
riaprendo scuole con l’insegnamento in sloveno e croato, inserendo traduttori
negli uffici pubblici, affidando ad ufficiali germanici, che siedono accanto ai
giudici ordinari, l’amministrazione della giustizia. Il controllo del
territorio è per loro, naturalmente vitale e la repressione della lotta
partigiana è condotta con i metodi più duri.
Nei primi mesi del 1944 i tedeschi fanno
affluire a Trieste un reparto specializzato nell’eliminazione dei corpi dei
prigionieri uccisi, che ha fatto esperienza nel campo di sterminio di
Treblinka. La vecchia pilatura di riso di Trieste a San Sabba, fino allora
utilizzata come centro di smistamento di ebrei e di soldati italiani non
collaborazionisti verso i “lager” allestiti in Austria, Polonia e Germania,
viene trasformata in campo di concentramento con l’accensione di un forno
crematorio. La Risiera di San Sabba è l’ultima meta per centinaia di ebrei
rastrellati in tutta la zona, ma soprattutto il luogo di eliminazione di alcune
migliaia di partigiani italiani, sloveni e croati catturati nei rastrellamenti,
o di persone sospettate di far parte del movimento politico clandestino.
SECONDA OCCUPAZIONE: dal 1 Maggio al 15 Giugno 1945.
Interessa tutta la Venezia Giulia da
Gorizia a Zara.
Verso la fine dell’aprile
1945 i tedeschi si ritirano, gli slavi occupano tutta l’Istria, comprese le città di Trieste ,
Gorizia, Pola e Fiume; Zara è nelle loro mani già dal 30 ottobre 1944. Questa
seconda occupazione dura 45 giorni per i principali centri urbani. Nel periodo
tra il 12 e il 15 giugno gli jugoslavi, per ordine degli Alleati, abbandonano i
centri urbani di Gorizia, di Trieste e di Pola, che passano alle dirette
dipendenze del Governo Militare Alleato. Tutto il rimanente territorio
giuliano, comprese le città di Fiume e Zara, rimane definitivamente sotto il
controllo della Jugoslavia: si ritorna all’orrendo periodo dell’autunno 1943.
Già da allora era iniziato
l’esodo degli italiani, a cominciare da quelli che erano stati più in vista
durante il passato regime. Tale esodo continuò negli anni successivi, ma
raggiunse proporzioni bibliche dopo la firma del trattato di pace del 10 Febbraio
1947.
TERZA E DEFINITIVA OCCUPAZIONE:
ha inizio il 15 Settembre 1947.
Con l’entrata in
vigore del trattato di pace gli Alleati abbandonano la città di Pola , che viene
occupata dagli slavi. In attesa della costituzione del Territorio Libero di
Trieste, il trattato affida la Zona A (Trieste) all’amministrazione
militare provvisoria alleata e la
Zona B (Pirano, Capodistria, Umago, Buie, Cttanova ) a quella
jugoslava.
LA VIOLENZA SCONVOLGE L’ISTRIA
“Mi hai gettato nella
fossa profonda, in caverne tenebrose, in abissi. Fra i morti è il mio giaciglio”
(Salmo 88). “Quante volte questo grido di sofferenza si è dovuto levare dal
cuore di donne e di uomini dal 1^ settembre 1939 alla fine dell’estate 1945. Ma
occorre parlarne? Bisogna far sì che quel tragico evento non cessi di essere un
avvertimento. La generazione che l’ha sperimentato e sofferto vive ancora”:
Vaticano, 26 agosto 1989 - Papa Giovanni Paolo II (Lettera Apostolica per il 50° anniversario
dell’inizio della seconda guerra mondiale).
Con la tragedia
giuliana una parola nuova viene inserita nel dizionario criminale: FOIBA.
Il termine “foiba”
deriva dal latino “fovea” e significa fossa, cava, buca. Le foibe sono
voragini rocciose, create dall’erosione violenta di molti corsi d’acqua; raggiungono
i 200 metri
di profondità e si perdono in tanti cunicoli nelle viscere della terra. Le
pareti viscide, nere, tormentate da sporgenze e da caverne, terminano su un
fondo di melma e detriti.
“Il sottosuolo dei vasti
altipiani carsici - scrive il Prof. Battaglia - nasconde un mondo di tenebre.
Abissi verticali e cupi cunicoli che si perdono nel silenzio delle profondità
terrestri, caverne immense, tortuose gallerie percorse da fiumane urlanti, sale
incantate rivestite da cristalli, antri selvaggi che la fantasia del volgo
popolò di paurose leggende”.
La tragica imboccatura di una foiba
istriana
L’ Ing. Boegan ha registrato in Istria l’esistenza di 1700
foibe: ognuna è numerata.
In principio le foibe
venivano usate quali discariche, in cui era gettato ciò che non
serviva più, come derrate alimentari avariate, carcasse di animali, macerie, e
così via. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale furono utilizzate
per infoibare (spingere nelle
foiba) migliaia di istriani e triestini, ma anche slavi, antifascisti e
fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista del Maresciallo
Tito.
Nessuno sa quanti
siano stati gli infoibati. Stime ricorrenti esprimono valutazioni da un minimo
di cinquemila ad un massimo di oltre 20 mila Vittime. Dopo atroci
sevizie, i Martiri venivano condotti nei pressi della foiba, venivano legati
loro i polsi e i piedi con filo di ferro e poi
uniti gli uni agli altri sempre tramite fil di ferro. I massacratori si
divertivano a sparare al primo del gruppo che cadeva nella foiba trascinando
tutti gli altri.
Lacci per legare gli infoibati
Rino Alessi, ( “Giornale di Trieste”, 7 settembre 1953): “La
vendetta slava ha donato al lessico il verbo “infoibare”, il verbo della
carneficina senza giudizio, dell’assassinio collettivo, indiscriminato”: è una
lotta senza pietà che usa il terrorismo per seminare il panico.
Già nel 1941 oltre
cento alpini della “Pusteria” cadono prigionieri e vengono infoibati, dopo essere
stati scannati ad uno ad uno sul ciglio dell’abisso. Le truppe slave, irritate
dall’attacco di quelle italiane che erano arrivate fino a Lubiana, provocate
dagli incendi e dalle fucilazioni ad opera dei tedeschi, logorate ed
incattivite dalla fame, si precipitano sull’Istria con una terribile carica di
vendetta. Le prime popolazioni che incontrano devono pagare per la dichiarazione
di guerra ordinata da Berlino e da Roma: l’espiazione peserà tutta sui giuliani. Il 16 agosto 1944
il “Gorski List” scrive: “Irroreremo queste terre con il nostro sangue, ma
porteremo i confini all’Isonzo”.
Winston Churchill,
che è stato il primo a fornire aiuti militari a Tito e che ha fatto paracadutare
il figlio Randolph fra i partigiani jugoslavi, il 23 giugno 1945 scrive a
Stalin: “Grandi crudeltà sono state commesse in quella zona dagli slavi contro
gli italiani, specialmente a Trieste e a Fiume. Le pretese aggressive del Maresciallo
Tito devono essere stroncate”.
Il Maresciallo
Alexander scrive al Presidente Harry Truman il 12 giugno 1945: “il comportamento
dei partigiani slavi sia in Austria, sia nella Venezia Giulia fece una
cattiva impressione sulle truppe britanniche e americane. I nostri uomini
furono costretti ad assistere, senza poter intervenire, ad azioni che
offendevano il loro senso di giustizia; ed ebbero la sensazione di rendersi
complici”.
Lo scrittore Silvio Bertoldi (“1945 - L’anno
del Mondo Nuovo”) scrive: “Trieste e l’Istria hanno pagato un prezzo disumano durante
l’occupazione tedesca e l’abbandono agli slavi
dopo l’8 settembre. L’orrore delle foibe, ove migliaia di connazionali
sono stati gettati dai “titini” con un colpo alla nuca (e talvolta
precipitandoli senza neppure quello), documenta il cumulo di rancori, di odi,
di vendette, di rappresaglie su “fascisti” che nella maggior parte dei casi
erano soltanto italiani, ai quali fare finalmente pagare la colpa della loro
nazionalità”.
Il
motorista navale Angelo D’Ambrosio, nella sua relazione del 13 luglio 1945,
dice di “aver incontrato, in prossimità di S. Pietro del Carso, una colonna
proveniente da Trieste, composta da circa 180 militari italiani, la maggior
parte Guardie di Finanza, guidate da partigiani di Tito”. Gli stessi
prigionieri, a domanda, risposero che ritenevano di essere diretti verso un
campo di concentramento. Nella notte furono intesi degli spari ed il giorno
dopo il D’Ambrosio con altri italiani, vide il passaggio di sei carri, carichi
di cadaveri completamente spogliati. Nei giorni successivi i croati della
brigata di Tito (compresi gli ufficiali) indossavano divise, calzature e quanto altro era appartenuto ai militari della
Finanza italiana.
Il
mondo civile dovrà inorridire, e quando sarà possibile, far luce su tutti gli
orrori e i delitti di cui si macchiarono senza giustificato motivo i partigiani
slavi. ”E’ vero che torturavano. E' vero che fucilavano senza ragione. Il
supplizio di legare i prigionieri per le braccia ai pali e tenerli così sospesi
per delle ore era all’ordine del giorno. Certe volte le grida di dolore dei
torturati facevano impazzire noi poveretti che eravamo obbligati ad assistere
al supplizio” (Relazione di Antonio Cau,
Appuntato della Guardia di Finanza - Maggio 1945 )
Nel maggio del 1945 una missione del
C.L.N. di Trieste, capeggiata da Don Marzari si reca a Roma e denuncia le
violenze al Presidente Bonomi, all’Ammiraglio americano Stone, all’Ambasciatore
inglese: “Sono stati operati arresti in
massa di fascisti, ma anche di patrioti italiani che con il fascismo non avevano
nulla da spartire...”
L’Ambasciatore Tarchiani (lettera a Grew del
19 maggio 1945) informa che De Gasperi protesta a Washington “contro le deportazioni
e le fucilazioni a Trieste e a Gorizia e contro il regime di terrore: 4000
persone scomparse, 700 sembra siano state fucilate a Trieste. Le truppe
anglo-americane finora hanno assistito alle scene passivamente.”
Il
Prof. De Castro, Consigliere politico del Governo italiano presso quello
alleato, che ha esaminato gli archivi diplomatici italiani, offre una serie di
notizie impressionanti: il 2
ottobre 1945 De Gasperi, ministro degli Esteri, invia a
Parri, Presidente del Consiglio, una lettera nella quale afferma che, secondo
notizie avute da un osservatore “altamente qualificato ed estremamente imparziale,
l’occupazione di tutta la
Venezia Giulia per quaranta giorni ha avuto un tale carattere
di autentica barbarie, ha instaurato un tale regime di violenza, ha privato la
popolazione così brutalmente dei diritti più elementari, ha dato esempio di
ferocia disumana e tale prova di incapacità di amministrare quelle terre che
nessun uomo di cuore che stima la civiltà può avere animo di costringere delle
popolazioni che non ne vogliono sapere, sotto tale insopportabile giogo. Si
avverte che, per quanto riguarda le autorità jugoslave, una nuova relazione
documentata è già stata fatta pervenire a Londra e a Washington e alla
Commissione Alleata da parte di questo Ministero”. Rispondendo ad una richiesta
di Washington, De Gasperi il 6 Ottobre 1945 invia un elenco nominativo di 912
cittadini italiani deportati dalla zona di Trieste e di 1455 deportati da
quella di Gorizia (escluse le zone dell’Istria, di Fiume e di Zara ) e conclude
affermando che “è tuttora in corso una raccolta di numerose altre denunce per
cui si ritiene che la cifra complessiva risulterà molto superiore a quella
sopra segnalata”.
De Castro commenta: “Difficilmente un uomo
della serietà di De Gasperi avrebbe inviato ufficialmente a due Governi esteri
l’elenco dei fatti che potessero venire facilmente smentiti. Infatti già nell’estate
del 1945 si valutano in 10-12 mila le
persone scomparse”.
Manlio Cecovini, ex Sindaco di Trieste (“A
quarant’anni dall’Esodo”) scrive: “Si verificano massicci prelievi notturni di
cittadini inermi, conclusi per la maggior parte nell’orrore della foiba. La
rabbia slava si accanì spietatamente. Si seppe di uccisioni di donne gravide,
di estirpazione di occhi, di evirazioni. Le torture erano all’ ordine del
giorno, la spaventosa realtà delle foibe era di comune dominio”.
Enzo Biagi soggiunge: “Alla furia
selvaggia dei suoi uomini (di Ante Pavelic, che nel 1941 aveva offerto la
corona della Croazia a Vittorio Emanuele III ed il 9 settembre 1943 dichiara la
guerra al Regno d’Italia) e alle vendette contro chi è ritenuto responsabile di
voler impedire l’unione dell’Istria alla Jugoslavia si devono le tragiche
foibe, fosse piene di cadaveri italiani strangolati, massacrati, fucilati a
centinaia, che hanno coperto di sangue un’antica Patria e chiuso il conto di un
irresponsabile odio razziale”.
G. Miglia, antifascista (“Voce Giuliana” –
n. 194 / 1976) testimonia: “La nostra terra era percorsa ogni giorno e ogni
notte da vampate di terrore che si propagandavano di strada in strada, di casa
in casa”.
Il socialista Raimondo Manzin scrive da
Pola: “L’armistizio catastrofico dell’8 settembre 1943 dava luogo al caos, alla
resa di tutti i presidi di Pola e dell’Istria, alla prima ondata di massacri e
di infoibamenti di migliaia di italiani ad opera delle bande sanguinarie
scatenate dalla propaganda degli emissari jugoslavi calati in Istria e infine
alla reazione altrettanto terroristica e feroce dei nazisti”. Poi: “Erano in
corso nella prima settimana del maggio 1945 gli arresti e le deportazioni di
centinaia di ex fascisti, ma anche di italiani non fascisti e il ricordo dell’infoibamento
in massa che si era verificato nel settembre 1943 contribuiva a far aumentare
il terrore per questi nuovi prelievi di tanta gente”. Ed ancora: “I massacri di
italiani, infoibati o sepolti vivi nelle cave di bauxite ad opera degli slavi,
avevano scosso la coscienza morale e ferito profondamente i sentimenti delle
popolazioni istriane”. Infine: “Negli ultimi mesi del 1943 il recupero di
alcune centinaia di salme di infoibati desta esecrazioni e reazioni. Per
controbattere gli effetti di quegli eccidi orribili, i nuovi capi dell’organizzazione
politica e partigiana jugoslava, sopraggiunti in Istria, si preoccuparono di
diffondere la notizia che la colpa andava attribuita ad elementi nazionalistici
locali irresponsabili, che nulla aveva a che fare con le formazioni partigiane
e che pertanto i colpevoli sarebbero stati puniti. Si vedrà poi nel mese di
maggio del 1945, quale valore aveva tale affermazione dal momento che i
medesimi eccidi, ma su scala ben più vasta, si ripeteranno ad opera delle
formazioni titine”.
In sintesi, la maggior parte degli
infoibamenti di italiani ha avuto luogo in due distinti periodi: il primo dal 9
Settembre al 13 Ottobre 1943 e cioè subito dopo l’armistizio, quando gran parte
dell’Istria era caduta in balia dei partigiani slavi; il secondo dopo il
ritorno degli slavi e cioè dal 1^ Maggio in poi.
Settembre-Ottobre 1943
Maggio-Giugno 1945
Notizie di infoibamenti e del recupero di
salme, con particolari sconcertanti e con lunghi elenchi delle Vittime, si
trovano in un documento eccezionale valore di 126 pagine e di 42 illustrazioni
fotografiche. Esso riporta i verbali resi negli anni 1943-1945 alle autorità italiane
e firmate da testimoni oculari: si tratta quindi di testimonianze contemporanee e
responsabili, non falsate da successivi ripensamenti. Il documento è stato
pubblicato in italiano ed in inglese dal Governo italiano in edizione
riservata, col titolo: “Comportamento delle Forze jugoslave di occupazione nei
riguardi degli italiani della Venezia
Giulia e in Dalmazia”. Il documento è stato presentato dal Governo
italiano a Londra e a Parigi nel 1946 e 1947.
L’antifascista G. Holzer scrive nel maggio
1946 (“Fasti e nefasti della quarantena titina a Trieste”): “Gli arresti in
massa ebbero inizio subito, il 1^ maggio. Parecchie migliaia di giuliani, molti
dei quali ex combattenti della libertà, vennero prelevati unicamente perché
contrari al colpo di mano titino. Questi disgraziati furono in parte infoibati
ed i rimanenti inviati in campi di concentramento in Jugoslavia. Sino al 15
giugno 1945 il campo di San Pietro del Carso raccoglieva circa 14 mila
internati. La prima operazione era quella di depredare le Vittime. Quindi, legate
loro le mani dietro la schiena con il filo di ferro, le obbligavano a suon di
legnate ad incamminarsi verso il loro tragico destino, dove la morte era l’unica
consolatrice”.
Il 20 ottobre l949 il deputato goriziano
On. Silvano Baresi dichiarava alla Camera: “Il maggio 1945 portò la morte nella
Venezia Giulia.
Solo a Trieste, a Pola e a Gorizia, nei quarantacinque giorni di occupazione
titina, circa cinquemila persone furono prelevate. Nelle terre rimaste sotto il
dominio slavo non si conosce, purtroppo, il numero delle Vittime. Io vi chiedo
quanti di voi conoscono la tragedia che ha sconvolto questa regione e che ha
portato la maggior parte della popolazione ad abbandonare la propria terra.”
LE FOIBE
Le Foibe di Basovizza e di Monrupino sono
le due più grandi fosse comuni esistenti in Italia.
·
LA FOIBA
DI BASOVIZZA
La Foiba di Basovizza
si trova sul Carso a nove km da Trieste, entro l’attuale confine italiano. Si
tratta di un pozzo di miniera scavato nel 1905 fino ad una profondità di 256 metri . Gli speleologi
avevano assicurato che nel sottosuolo c’erano degli strati di carbone, ma non
avendolo trovato a quella profondità, proseguirono con una galleria di 700
metri: il risultato fu ancora negativo.
Nel 1939 alcuni
speleologi si calarono dentro per ricuperare i corpi di due suicidi e constatarono
che il fondo del pozzo si era elevato a 226 metri a causa delle
strutture di legno della cava e di residuati bellici della prima guerra
mondiale.
Dal 1^ maggio al 15
giugno 1945 (periodo dell’occupazione titina) sono stati gettati in questa voragine
circa 2500 Martiri tra civili, carabinieri, finanzieri e militari italiani,
tedeschi e persino neozelandesi. Le Vittime sono state portate sul posto con
camion, spogliate, legate a catena, sono state mitragliate sull’orlo della
Foiba e precipitate. Nel 1945, con l’amministrazione alleata, alcuni speleologi
hanno rilevato che la base di 226
metri era salita a 198, per complessivi 500 metri cubi , perché
vi erano stati gettati dentro i corpi,
alcuni ancora vivi, dei condannati.
Queste notizie
trovano conferma nella relazione della Commissione d’inchiesta del Governo
Alleato che nel 1946 effettuò vari sopraluoghi: “In località Basovizza esiste
un pozzo artificiale della profondità di circa 256 metri per otto di
lunghezza e quattro di larghezza, denominato pozzo della miniera. Questa
voragine venne particolarmente usata nel maggio 1945. Testimoni oculari
riferiscono che gruppi di 100-200 e una volta di 500 persone vennero fatte
precipitare nel pozzo. Tra le Vittime risultano tantissime donne e anche
bambini”.
La Commissione, dopo
le prime ricerche, venne alla determinazione che occorreva fare un lavoro bene
organizzato per il recupero delle salme. Infatti, in breve tempo, furono tirate
fuori centinaia di salme. Nella Foiba erano state gettate nel 1945 anche una
sessantina di salme di soldati tedeschi e di 23 soldati neozelandesi della
Seconda Divisione Neozelandese dell’VIII Armata Britannica. “Era il
risentimento dei partigiani titini contro gli Alleati anglo-americani che li avevano
costretti ad abbandonare Trieste”.
Il recupero delle
salme è stato tentato dagli inglesi, ma fu abbandonato per ragioni tecniche. Il 21 agosto 1948 alcuni
speleologi triestini si sono calati sul fondo, ma hanno constatato che l’aria
era irrespirabile per la decomposizione dei cadaveri e che non era possibile
operare.
Nell’ottobre 1957 una guida tedesca, membro di
una Commissione del Governo di Bonn, ha constatato che il livello del fondo si
era elevato fino a 135
metri . Questa ultima variazione è dovuta allo scarico
dei residuati dell’ultima guerra.
Nella motivazione
della Medaglia d’oro concessa alla città di Trieste si dice, tra l’altro: “Sottoposta a
durissima occupazione straniera subiva con fierezza il martirio delle stragi e
delle foibe”.
Nel 1959 il ministro
della Difesa Giulio Andreotti dispose la
copertura della Foiba con una pietra tombale con la seguente epigrafe dettata
dall’Arcivescovo Antonio Santin: “Onore e cristiana pietà a coloro che qui sono
Caduti: Il loro sacrificio ricordi agli uomini la via della giustizia e dell’
amore sulla quale fiorisce la vera pace”. A fianco è stato eretto un cippo,
offerto dalla Cava Romana
di Aurisina, che riporta la sezione interna della Foiba.
Il 22 ottobre 1980 il
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali ha emesso il seguente decreto: “Ritenuto
che l’immobile Foiba di Basovizza, sito in provincia di Trieste, Frazione di
Basovizza, proprietà del Comune
di Trieste , ha interesse particolarmente importante perché
testimonianza di tragiche vicende accadute alla fine del secondo conflitto
mondiale, divenuta fossa comune di un numero rilevante di Vittime in
maggioranza italiani, uccisi e ivi fatti precipitare. Una zona larga 20 metri intorno alla
enorme pietra tombale che ricopre oggi la Foiba di Bosovizza è da considerarsi
parte integrante della stessa. Visto l’articolo 2 della legge del 1 giugno 1939
n. 1089 decreta l’immobile Foiba di Basovizza d’interesse particolarmente importante
e viene sottoposto a tutte le disposizioni di tutela contenute nella legge
stessa”.
·
LA FOIBA
DI MONRUPINO
La Foiba di Monrupino
si trova in territorio italiano, a 11 km da Trieste a ridosso della scarpata
ferroviaria, si apre in una dolina e con i suoi 175 metri è uno degli abissi
più profondi del Carso. L’orifizio misura dieci metri per 15 e raccoglie le
acque di un vasto impluvio; a 60
metri di profondità c’è un ripiano lungo dieci metri e
largo due, poi il baratro continua per una profondità di 115 metri con una sezione
quasi quadrata tra i sei ed i cinque metri. Il fondo misura sette metri
quadrati. Le pareti viscide e nere sono di pietre sconnesse e friabili.
Nel 1945 la Foiba
aveva ingoiato circa 2000 Vittime tra civili e militari italiani e della Wehrmacht.
I contadini raccontano di aver visto per varie sere il via vai dei camion, di aver
udito le urla dei condannati e il crepitio delle armi che durava a lungo nella
notte.
Il recupero delle
salme non è stato neanche tentato data la tortuosità, la friabilità delle pareti
e la grande profondità. Nel 1959 il Commissariato per le Onoranze ai Caduti del
Ministero della Difesa ha chiuso la Foiba con una grande pietra tombale. Il
decreto del 22 ottobre 1980, analogo a quello emesso per Basovizza, ha
dichiarato di interesse “particolarmente importante” la Foiba; inoltre, una
zona larga 10 metri
intorno alla pietra tombale e il viale d’accesso sono da considerarsi parti
integrali della Foiba stessa.
·
LE ALTRE
FOIBE
FOIBA DI VINES: ha una profondità di 146 metri . Le prime notizie certe degli
infoibamenti giungono da Albona il 12 settembre 1943 quando “il territorio di
Albona assistette a soppressioni violente e a crudeli infoibamenti. La sola Foiba di Vines
accolse un centinaio di Vittime” (Sergio Cella). Scrive Bruno Coceani: “ La prima Foiba , ricolma
di cadaveri, fu scoperta per caso da un ragazzo che cercava, perlustrando le
cave di bauxite, suo padre che era stato arrestato dagli slavi ad Arsa. E’ la Foiba
di Vines ed è il 6 ottobre 1943” ;
da questa foiba vengono recuperate 115 salme. Molte erano accoppiate mediante
legatura con filo di ferro, ai due avambracci. Soltanto uno presentava segni di
colpi d’arma da fuoco, ciò fa supporre che il colpito abbia trascinato
nell’abisso il compagno ancora vivo. “Nel maggio 1945 (rapporto del CLN) in
questa Foiba, sul cui fondo scorre dell’acqua, gli assassinati dopo essere
stati torturati, furono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro
alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano all’interno”.
FOIBA DI SCADAICINA sulla strada per Fiume: gli abitanti del luogo hanno recuperato
qualche salma.
FOIBA DI PODUBBO: ha una profondità di 190 metri , a imbuto, molto stretta con
sporgenze aguzze e friabili. Gli esumatori constatano la presenza delle salme,
ma non fu possibile il recupero.
CAVA DI BAUXITE DI GALLIGNANA: è profonda dieci metri: vengono
recuperate 44 salme di Vittime massacrate nella prima quindicina del settembre 1943.
CAVA DI BAUXITE DI LINDARO: vengono esumate 31 salme di Vittime, massacrate il 19
settembre 1943; tra le salme anche quella di un Sacerdote.
FOIBA DI TERLI: il 1^ novembre 1943 il maresciallo di Vigili del Fuoco di
Pola, Harzarich, aiutato da altri tre vigili, procede al recupero delle salme;
sono presenti alcuni familiari delle Vittime. La Foiba è una voragine
irregolare, tortuosa e con spuntoni di roccia; ci sono 55 salme che vengono
trasportate a gruppi di tre-quattro, con un argano installato sull’imboccatura.
Le salme sono devastate dalla caduta e dalla decomposizione: i parenti riconoscono
25 loro familiari. Un padre riconosce le tre figlie di 17-19-21 anni dai loro vestiti.
FOIBA DI DRENCHIA: il Prof. De Castro parla di 52 cadaveri di donne, ragazzi e
partigiani della “ Osoppo”.
ABISSO DI SEMICH: Mons. L. Parentin racconta (“Voce Giuliana” - n. 299 del 16
dicembre1980): “Un’ispezione del 1944 accertò che partigiani di Tito nel
settembre precedente avevano precipitato nell’abisso di Semich, profondo 190 metri , un centinaio
di sventurati: soldati italiani e civili, uomini e donne, quasi tutti prima seviziati
e precipitati vivi. Impossibile sapere il numero di quelli che vi furono
gettati a guerra finita, durante l’orrendo 1945 e dopo. Questa è stata una delle
tante foibe carsiche trovate adatte, con approvazione dei superiori, dai
cosiddetti tribunali popolari, per consumare le loro nefandezze. Il famigerato
tribunale di Pisino fu un esecutore spietato. Conosciamo i nomi dei suoi
componenti, dei fiancheggiatori e di parecchi delatori. La Foiba ingoiò
indistintamente chiunque avesse sentimenti italiani, avesse sostenuto cariche,
o fosse semplicemente oggetto di sospetti e di rancori. Per giorni e giorni la
gente aveva sentito urla strazianti provenire dall’abisso, le grida dei rimasti
in vita, sia perché trattenuti dagli spuntoni di roccia, sia perché resi folli
dalla disperazione. Prolungavano l’atroce agonia col sollievo dell’acqua
stillante. Il prato conservò per mesi le impronte degli autocarri arrivati qua,
grevi del loro carico umano, imbarcato senza ritorno”.
FOIBA BERTARELLI: “Gli abitanti del luogo vedevano ogni sera passare colonne di
prigionieri, ma non ne vedevano mai il ritorno”. (G. Botteri) “Il numero delle Vittime
precipitate in questa voragine ascende a migliaia”. (G. Holzer 1946)
FOIBA DI CASSEROVA sulla strada per
Fiume : “Vi sono stati precipitati tedeschi, uomini e donne
italiani, sloveni, molti ancora vivi. Poi, dopo avere gettato benzina e bombe a
mano, l’imboccatura è stata fatta saltare”. (G. Botteri in un rapporto del CLN)
FOIBA DI VILLA ORIZI: è profonda 90
metri . La gente del circondario racconta che nel maggio
1945 vi furono trasportate circa 200 persone. Uomini e donne, dopo aver subito
crudeli sevizie, vennero scaraventati nella vicina voragine; parecchi, per
sfuggire alle torture, si gettarono spontaneamente nel precipizio. Nella zona
di Santa Caterina (Pisino) fu vista nel maggio 1945 partire verso il supplizio
una lunga fila di gente, legata con filo di ferro. Gli agenti erano armati di
mitra e le Vittime, consapevoli della loro sorte, recitavano in coro e in
italiano, il Padre Nostro.
FOIBA DI CERNOVIZZA (Pisino): le Vittime vennero gettate in massa nella foiba: pare
che i cadaveri ascendano a qualche centinaio. Nel settembre 1945 l’entrata fu
fatta franare con le mine allo scopo di far sparire le tracce del massacro.
MINIERE DI CARBONE DI VAL PEDENA (Pisino): presso la chiesetta di San
Bartolo c’è una voragine profonda 100 metri . Testimoni oculari attestano le
sevizie e l’infoibamento di oltre un centinaio di persone. Era fatto obbligo
alla popolazione di rimanere in casa e di non affacciarsi alle finestre: le
grida di quei disgraziati venivano udite a notevole distanza.
FOIBA DEI COLOMBI “Quasi ogni notte un’autocorriera si reca alle carceri. Si dice
ai prigionieri che si tratta di un trasferimento. Poi giunti sul luogo del
supplizio, con le mani legate dietro la schiena, vengono precipitati nell’abisso,
talvolta con la grazia di un colpo di pistola alla nuca. Uno scaglione di
prigionieri venne condotto verso Porto Remaz e lì, uniti a catena con il filo
di ferro ed assicurati a grosse pietre, precipitati in mare.”
FOIBA DI VILLA SURANI: “Il Piccolo” del 15 ottobre 1943 informa che dalla voragine di
Surani vengono estratte le salme di 26 italiani che erano stati massacrati la
notte del 4 ottobre. Le Vittime hanno le mani saldamente legate con filo spinato;
molti hanno colpi di baionetta in più parti del corpo. L’11 e il 12 novembre
l943 vengono recuperate altre 126 salme.
* * *
E’ tragicamente emblematico
il sacrificio di Norma Cossetto, laureanda in lettere e filosofia presso
l’Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i Comuni dell’Istria
allo scopo di preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per
titolo “ L’Istria Rossa” (terra rossa di bauxite).
Il 25 Settembre 1943
un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Il giorno
successivo prelevarono Norma che venne condotta nella caserma dei carabinieri
di Visinada dove i capi banda la tormentarono promettendole libertà e mansioni
direttive, se avesse collaborato con loro. Al netto rifiuto, la rinchiusero
nell’ex caserma della Finanza a Parenzo con altri parenti, conoscenti e amici.
Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero trasferiti nella scuola di
Antignana, dove Norma iniziò il suo martirio: fissata a un tavolo con alcune
corde, è stata violentata da diciassette aguzzini, ubriachi ed esaltati e
quindi gettata nuda nella foiba di Surani, poco distante, sulla catasta degli
altri cadaveri. Suo padre era conosciuto e stimato per aver dedicato la sua
vita allo sviluppo di quei paesi. In quei giorni si trovava a Trieste e
informato dell’arresto della figlia, ma ignorandone la fine, si precipitò a S.
Domenica con un parente. All’ingresso del paese i partigiani lo rassicurarono
che gli avrebbero consegnata la figlia, ma verso sera li trascinarono in un
agguato e li uccisero.
Il 13 Ottobre 1943 a S. Domenica
ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma,
catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di
suo padre. Il 10 Dicembre 1943 i vigili del fuoco di Pola recuperarono la sua
salma: era caduta supina, con le braccia legate con il filo di ferro, aveva i
seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.
La salma di Norma fu
composta nella cappella del cimitero di Castellier. Dei suoi 17 torturatori, sei
furono arrestati e costretti a passare l’ultima notte della loro vita nella
cappella per vegliare la loro Vittima. Veglia funebre di terrore alla luce
tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che
essi avevano seviziato, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro Vittima , forse
con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli
altri, fucilati a colpi di mitra.
L’orribile sacrificio
di Norma provocò una profonda indignazione:
l’unica sua colpa era di essere italiana. Per lei c’è stato un riconoscimento
molto autorevole: su proposta del Prof. Concetto Marchesi, che l’aveva guidata
nei suoi studi, l’Università di Padova nel 1949 le concesse la laurea “honoris
causa”. A coloro che obiettavano come la Cossetto non fosse stata una partigiana,
Marchesi rispose che essa meritava il
titolo più di ogni altro perché era morta per l’italianità dell’Istria.
* * *
Nelle foibe di
Opicina, di Campagna e di Corgnale vennero infoibate circa 200 persone, tra
queste una donna e un bambino, rei di essere moglie e figlio di un carabiniere.
Altre foibe
egualmente importanti, ma meno conosciute sono: Pozzo di Luppogliano; Foiba di
Treghelizza Castellier; Foiba di Pucicchi; Foiba di Cregli; Foiba di Umago;
Foiba di Canizza; Abisso di Semez; Foiba di Vescovado; Foiba di Gropada; Foiba
di Villa Cecchi; Cava di Baxite a Villa Catturi; Foiba di Rozzo; Foibe di Saini,
di Pogliacchi, di Nancovigi, di Picich; Brestovizza; Foiba di Podgomilla; Foiba
di Gimino; Foiba di Gallignana; Foiba di Gramschi; Foiba del Risano; Foiba di
Raspo; Foiba di Obrovo (Fiume); Foiba di Trebiciano; Foiba di Rupinpiccolo;
Grotta del cane; Fous di Salanceta; Grotta N. 242 di Ternovizza; Foiba di
Prosecco; Foiba N. 149 di Farnetti; Foiba di Focovizza; Foiba N. 294 Janka Oslinka.
Non siamo in una Foiba,
ma nel mare di Zara o di altre città e paesi della costa istriana: molte Vittime
innocenti sono state precipitate in mare con una pietra al collo. La morte,
infatti, si è presentata nella Venezia Giulia e in Dalmazia nelle versioni più
dolorose. Oltre all’infoibamento e all’annegamento, ci sono state le lapidazioni,
le impiccagioni, gli strangolamenti e le fucilazioni. L’Istria dal settembre
1943 e ancor più dal maggio 1945 (salvo nei pochi casi in cui le foibe si
trovano in territorio italiano) è rimasta un cimitero senza croci.
I padri, le madri e
le vedove, delle Vittime sono ormai morti; sono rimasti gli orfani e i figli
dei figli che non si sono mai rassegnati al silenzio e all’indifferenza e
chiedono che giustizia sia fatta prima che il tempo e l’oblio ottenebrino la
memoria. “L’Arena di Pola ”,
Organo del Libero Comune
di Pola in Esilio, che tiene i contatti con gli Esuli in
Italia e nel mondo, nel settembre 2009 ha proposto questo titolo: SULLE FOIBE IL
TEMPO SI E’ FERMATO. Si legge tra l’altro: “Intitolare strade, piazze, parchi
d’Italia o innalzare monumenti ai Martiri delle foibe non è sufficiente. E’
tempo che il mondo sappia dove e come sono stati compiuti quegli eccidi, per
oltre sessant’anni tenuti nascosti, quasi fossero una vergogna per la nostra
civiltà”.
Lo stesso giornale ci
ricorda la petizione riguardante le foibe, inviata dal Libero Comune di Pola in Esilio
al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel maggio 2009.
Dalle risposte sembra
emergere la volontà di conoscere esaurientemente, da integrare con quella di recarsi sull’orlo dell’abisso, erigere una
lapide, inginocchiarsi e chiedere perdono ai Morti sacrificati, affinché il
loro olocausto non rimanga nell’oscurità e nel silenzio per sempre.
Quando si parla delle
foibe non bisogna soffermarsi solo sul fenomeno specifico, ma occorre trattare
anche le deportazioni e gli internamenti nei “Lager” jugoslavi. Il piano di
Tito per l’annessione della Venezia
Giulia , dell’Istria e della Dalmazia prevedeva oltre alle
eliminazioni di massa (pulizia etnica), anche i campi di prigionia e le
pressioni sulla comunità italiana per costringerla all’abbandono della sua
terra (epurazione). Oltre agli infoibati, agli annegati, ai fucilati, molti
italiani persero la loro vita nei campi titini di Borovnica, Skofja Loka,
Osseh, Stara Gradiska, Siska, Goli Otok (Isola
Calva): pochi conoscono il significato di questi nomi.
Dachau e Buchenvald sono certamente più noti,
eppure sono la stessa cosa: la sola differenza è che i primi erano in
Jugoslavia e che gli internati erano migliaia di italiani, deportati dalla Venezia Giulia alla fine
del secondo conflitto mondiale ed anche successivamente, a guerra finita,
durante l’occupazione titina.
L’ESPIAZIONE ITALIANA
La guerra del
1939/1945 ha causato oltre 50 milioni di morti, tra militari e civili.
La Jugoslavia, secondo il Generale Dedijer, ha avuto 305 mila
militari e un milione 395 mila civili uccisi. Chi è il maggior colpevole? Gli storici
jugoslavi indicano nell’aggressione dell’Asse la causa principale: un’occupazione
pesante di 700 mila soldati tedeschi, dall’aprile 1941 all’aprile 1945. Quattro
anni di guerra implacabile, terrestre ed aerea, rappresaglie durissime.
Lo stesso Dedijer
(“Josip Broz - Tito”, Belgrado 1952) scrive: “la Jugoslavia era ridotta in
pezzi, ma Hitler non si fermò soltanto qui. Da una parte spinse il Croato
Pavelic a dare inizio a stermini in massa dei serbi in Croazia. Così cominciò
una delle stragi più orrende della seconda guerra mondiale. Interi villaggi
vennero portati davanti a grandi foibe e qui uomini, donne e bambini, venivano
scannati e gettati dentro l’abisso. Dall’altra parte Hitler incitava i Quisling
della Serbia ad effettuare stragi di mussulmani e di croati in Bosnia”.
Una seconda causa va
individuata nella lotta fra le stesse formazioni partigiane jugoslave. Lo
sloveno Bogdan Novak ha scritto: “i comunisti, applicando il motto ‘chi non è
con noi è contro di noi’, dichiararono
che ogni avversario politico era fascista o filofascista. Molti
oppositori, che non avevano mai collaborato con i tedeschi, furono arrestati e
sparirono. Decine di migliaia di uomini furono trucidati senza processo” (in
specie i cetnici, i domobranci, i belagardisti, gli stessi cosacchi, e
naturalmente gli ustascia: tutti anticomunisti, anche se spesso nemici fra di loro).
Anche l’esercito russo che combatté in Jugoslavia contro i
tedeschi causò danni e morti.
Resta l’ultima causa:
la dichiarazione di guerra dell’Italia del 6 Aprile 1941 e la corresponsabilità
con i tedeschi fino all’8 settembre 1943. Tito non era stato preavvisato
dell’imminente resa dell’Italia, ma le sue unità agirono con velocità per
essere le prime a raggiungere le truppe italiane in Jugoslavia in modo da
accogliere la resa e impadronirsi del loro armamento ed equipaggiamento. Tito il 2 ottobre 1943 aveva
piantato le prime basi militari jugoslave e i primi campi di addestramento
nelle Puglie: a Bari, a Monopoli, a Carbonara ed a Gravina, con l’aiuto degli inglesi;
inoltre, ebbe a Bari una rappresentanza del suo CNL (Governo provvisorio) e vi
si recò lui stesso nel giugno 1944 per farsi curare una ferita. I trasporti venivano
effettuati con aerei italiani, inglesi e sovietici, con alcune motosiluranti
inglesi, con trabaccoli e con motopescherecci. Da Bari raggiungevano la
Jugoslavia le prime armi, munizioni, viveri, benzina, vestiario e scarpe.
Il Quartier generale di Lissa ha
ricevuto dall’Italia nel novembre e dicembre 1944 le prime 400 tonnellate di materiale.
Dalle Puglie sono partite le prime due squadriglie jugoslave, di 16 apparecchi
ciascuna.
Nell’ottobre 1943
hanno raggiunto la Jugoslavia dall’Italia due brigate d’Oltremare con 2500
unità; nel marzo 1944 le ha seguite la terza Brigata di 1665 unità. Si trattava di ex
prigionieri, di ex internati jugoslavi e di altri volontari; a queste forze
faranno seguito altri contingenti, tra i quali la prima unità corazzata. Il Gen.
Vladimir Dedijer, già capo della missione nelle Puglie, scrive che dall’ottobre
1943 alla fine del 1944, hanno raggiunto la Jugoslavia, provenienti dall’Italia,
ben 30 mila uomini. “Grazie alle stazioni radio italiane la zona operativa è
ora in grado di comunicare facilmente anche con il Quartier generale di Tito”(comunicato
jugoslavo dell’ottobre 1943). La tempestività e la consistenza di questi
aiuti si sono rivelati determinanti per
le operazioni militari di Tito il quale, deluso per i mancati aiuti sovietici,
telegraferà a Stalin: “Se non potete aiutarci, almeno non dateci fastidio”.
Scotti precisa che “l’Italia,
dall’inizio dell’ottobre 1943 fino all’estate 1944, è l’unico territorio sul
quale i partigiani jugoslavi feriti e ammalati possono trovare ospitalità e
assistenza”. Dedijer aggiunge che “i primi trenta feriti gravi furono respinti
dagli Alleati e furono invece accolti in un ospedale militare a Modugno” (10 chilometri da
Bari). “Le cure dei sanitari italiani”- continua Scotti – “sono così sollecite
che anche nei mesi successivi i feriti dalla Jugoslavia vengono trasportati a
Modugno. L’ospedale militare italiano finisce per accogliere soltanto jugoslavi.
A un certo punto non basta più e vengono ceduti agli jugoslavi anche gli ospedali
italiani a Taranto, a Grottaglie, a
Santa Caterina, a Santa Maria di Nardò, a Maglie, a Lecce, a Barletta ed a
Gravina: dieci ospedali con tutto il personale sanitario italiano e tutte le
attrezzature e i medicinali a completa e gratuita disposizione degli slavi,
quando gli ammalati italiani, militari e civili, non riuscivano a trovare né un
letto, né medicine”. Nell’agosto 1944 gli Alleati, rispondendo ad un urgente
appello di Tito, mandano in Jugoslavia, in un solo giorno, 25 aerei da trasporto
che portano in Italia 900 feriti.
Scotti conclude che
“i feriti trasportati e curati in Italia fino alla fine della guerra saranno
11.842 dei quali 700 morti”. Dedijer rivela nel proprio diario che la sua
missione ha cercato “ospitalità presso famiglie italiane per migliaia di
profughi jugoslavi (donne, vecchi e bambini) evacuati dalla Dalmazia e dalle
isole. Ben 30 mila persone saranno, infatti, ospitate nelle varie località
della Puglia”.
Tanta generosa
collaborazione e ospitalità, testimoniata dalle stesse fonti jugoslave, è stata
data ai partigiani di Tito in Puglia
nello stesso periodo in cui i partigiani trucidavano nelle
Foibe istriane oltre 12 mila inermi cittadini italiani. Purtroppo, l’Italia era
un bersaglio facile, vicino e rassegnato. Ci sono state persone che hanno gonfiato
le responsabilità dell’aggressione fascista e che hanno addossato all’Italia
anche le responsabilità impunite dei nazisti e quelle degli stessi jugoslavi. Questa
ostentazione, da parte italiana, di un permanente complesso di colpa e di un
vittimismo espiatorio, ha gettato i giuliani sul banco degli imputati davanti
all’opinione pubblica jugoslava e ha raggiunto il colmo nel 1975 con la
cessione della zona B (trattato di Osimo).
I VINCITORI E IL TRATTATO
DI PACE
I lavori per la stesura
del trattato di pace con l’Italia sono cominciati a Londra l’11 settembre 1945.
Il 2 marzo
1946 i 21 Ministri degli Esteri degli Stati partecipanti hanno affidato alla
Gran Bretagna, agli Stati Uniti, alla Francia e alla Russia l’esame della
situazione etnica della Venezia
Giulia per poter stabilire la nuova frontiera tra l’Italia e la Jugoslavia. Un ’apposita
Commissione ha visitato cinque città: Gorizia, Udine, Monfalcone, Trieste, Pola
e ventisette paesi dell’Istria occidentale. A Fiume ha inviato una semplice
delegazione economica: non ha visitato le isole di Cherso e Lussino per
espresso rifiuto del rappresentante sovietico; ha assistito a 52 interviste con
varie organizzazioni; ha raccolto quattromila petizioni: 3650 filo-slave e solo
350 filo-italiane. Ciò dimostra l’efficienza della propaganda jugoslava e la
paura della popolazione italiana.
Robert Laffan, membro inglese della Commissione, ha raccontato che a
Pisino, sul tavolo delle riunioni, è stato trovato un biglietto: “Non potendo
interrogare i vivi, interrogate i morti”. La Commissione è andata in cimitero
ed ha constatato che nel periodo 1870 - l918 le lapidi scritte in italiano
erano 137, in
latino sei, in croato cinque, in tedesco una. Nel periodo 1918 - 1945 quelle in
italiano erano 127, in
croato tre. Dal 1943 al 1946 le lapidi
scritte in italiano erano 162,
in croato sette.
Quando le automobili
della Commissione sono passate per
Pirano e Montona, le donne hanno aperto le mani per mostrare
le palme dipinte con i colori italiani. I quattro hanno concluso l’inchiesta
con decisioni conformi alle ipotesi di
partenza, e cioè:
- linea americana
(Wilson del 1920, confine che comprendeva anche Zara): alla Jugoslavia,
Zara, Fiume, le isole del Quarnero e tutta l’Istria orientale, comprese Fianona,
Albona e Pisino.
- linea inglese: ha
aggiunto (alla precedente linea) per la Jugoslavia il territorio ad est di
Dignano (Pola all’Italia).
- linea francese: ha
aggiunto alla Jugoslavia il territorio fino al fiume Quieto, compresa
Cittanova (Trieste e Gorizia all’Italia).
- linea russa: ha
aggiunto alla Jugoslavia il territorio fino all’Isonzo (compresa Trieste e
Gorizia. La Jugoslavia ha chiesto anche Grado e Monfalcone).
Il 3 maggio 1946 il
ministro degli esteri jugoslavo Kardelj ha protestato perché l’inchiesta era
stata svolta su territorio slavo (invaso dagli slavi!) e le tre linee suggerite
dagli Alleati non erano accettabili perché lasciavano troppi slavi in Italia.
Quindi ha condannato le linee americana, inglese e francese, dalle quali l’Italia avrebbe minacciato la piana di
Lubiana e la Croazia.
Il compito dell’Italia
non era facile perché era uno Stato sconfitto, aveva di fronte a sé una
Jugoslavia audace che occupava militarmente i territori e perché tutti le erano
contro. Un libero plebiscito avrebbe potuto risolvere secondo il diritto
internazionale il destino della popolazione giuliana, ma al plebiscito erano
contrari tutti, compresa la Russia che aveva incorporato territori senza
plebiscito, come i tre Stati Baltici.
L’idea del plebiscito
fu abbandonata, anche perché nell’ottobre 1945 la Jugoslavia ne aveva proposto
uno che gli anglo-americani respinsero in quanto non avrebbe fornito garanzie nè
credibilità. Scrive De Castro che il plebiscito venne rifiutato dallo stesso De
Gasperi il quale aveva scritto il 25 agosto 1945 a Tarchiani che “rischierebbe
di creare un precedente pericoloso per l’Alto Adige dove potremmo
conseguentemente trovarci nella necessità di accettare una soluzione parallela”.
Certamente, con un plebiscito libero De Gasperi avrebbe potuto salvare l’Istria,
ma avrebbe forse perduto Bolzano e Trento.
L’aver posto il problema in questa alternativa così cruda, danneggiò la
sua immagine negli ambienti giuliani, tanto più che il plebiscito libero non sarebbe
mai stato attuato per l’opposizione della Jugoslavia e della Russia (Molotov, Parigi
- 25 aprile 1946).
L’ISTRIA, FIUME E ZARA
ALLA JUGOSLAVIA
Tra il 29 luglio e il
15 ottobre 1946 ha
avuto luogo a Parigi la conferenza dei 21 Stati “vincitori” per la definizione
del trattato di pace. Su tutti pesavano gli interventi dei “Quattro Grandi”, tanto
che il rappresentante neozelandese Jordan ebbe a commentare: “Che razza di
conferenza è questa in cui una minoranza di quattro tizi ha sempre ragione.
Questa è roba da Hitler e Mussolini”. Il 10 agosto De Gasperi chiese la “linea
Wilson” ed uno statuto speciale per le città di Fiume e Zara, mentre la
Jugoslavia pretendeva con insistenza lo spostamento della frontiera oltre l’Isonzo.
La delegazione
italiana (De Gasperi, Saragat, Bonomi) era stata invitata ad assistere, ma non
poteva interferire nella discussione. Erano le 16 del 10 agosto quando De
Gasperi fu invitato a parlare, ma l’accoglienza fu fredda. Questo il suo
esordio: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne
la vostra personale cortesia, è contro di me”. Ha continuato dicendo che il
sacrificio “di Pola e delle città della costa istriana implica per noi una
perdita insopportabile. Voi rinnegate la linea etnica e la Carta Atlantica
che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti
territoriali”. Ha protestato perché si stava decidendo che gli italiani desiderosi
di conservare la nazionalità italiana potevano essere espulsi nel giro di dodici
mesi con la confisca dei beni, oppure potevano evitarlo soltanto “piegandosi ad
accettare la nazionalità slava”.
L’americano Byrnes ha
commentato: “De Gasperi parlò con tatto, ma con dignità e coraggio. Quando lasciò il podio per tornare al posto
assegnatogli nell’ultima fila, passò accanto a molte persone che lo
conoscevano, ma nessuno gli parlò. La cosa mi fece impressione e mi sembrò inutilmente
crudele. Così quando mi passò accanto gli tesi la mano, strinsi la sua e lo
invitai nel mio appartamento nel pomeriggio. Volevo fare coraggio ad un uomo che
aveva sofferto sotto Mussolini ed ora stava soffrendo per opera delle Nazioni Alleate”. Tito, invece, avrebbe
commentato lapidariamente: “De Gasperi ha osato fare delle dichiarazioni
assurde e provocatorie”.
Il 29 settembre 1946
la Conferenza accolse definitivamente la “linea francese” che prevedeva la
costituzione dello Stato Libero di Trieste e fissava la frontiera con la
Jugoslavia all’altezza del fiume Quieto.
Il 20 gennaio 1947
Pietro Nenni, ministro degli Esteri, ha dichiarato di “aver constatato che
nessuna delle richieste del Governo italiano è stata accettata, che il trattato
urta la coscienza nazionale specie per le clausole territoriali e che in queste
condizioni si trova nella necessità di formulare le più espresse riserve e di
chiedere che sia riconosciuto il principio di revisione del trattato sulla base
di accordi bilaterali con gli Stati interessati e sotto il controllo dell’ONU”.
Il trattato di pace
del 10 febbraio 1947, composto da 90 articoli e 17 allegati, è stato “imposto”
da 21 Paesi: esso premette che all’Italia “spetta la sua parte di
responsabilità della guerra”, che essa si è arresa senza condizioni il 3
settembre 1943, che dichiarò guerra alla
Germania alla data del 13 ottobre 1943 e “divenne cobelligerante” e che
pertanto gli Stati firmatari, “conformandosi ai principi di giustizia”, hanno
concordato le seguenti condizioni:
·
cessione
alla Francia dei Comuni di Briga e Tenda e degli archivi storici fino al 1860
·
cessione
alla Jugoslavia dell’Istria con le città di Fiume e Zara, le isole di Cherso e
Lussino e parte delle province di Trieste e di Gorizia
·
cessione
alla Jugoslavia di tutti gli oggetti “di carattere artistico, storico,
scientifico e religioso, compresi tutti gli atti, manoscritti, documenti e materiale
bibliografico” che l’Italia aveva rimosso fino al 24 gennaio1924 e quello che
aveva ricevuto dall’Austria e dall’Ungheria fino al 4 maggio1920
·
diritto
da parte Jugoslava di requisire tutti i beni dei cittadini italiani
·
riparazioni
di guerra che l’Italia dovrà pagare entro sette anni: 100 milioni di dollari
alla Russia, cinque milioni all’Albania, 25 milioni all’Etiopia, 105 milioni
alla Grecia, 125 milioni alla Jugoslavia, che ha nazionalizzato i beni dei
profughi e li ha scontati sul debito italiano per un valore di 72 milioni di
dollari, pari a 45 miliardi di lire (accordo del 18 dicembre1954).
Contemporaneamente “il Governo italiano si impegna ad indennizzare le persone i
cui beni sono stati requisiti dalla Jugoslavia”
·
assicurazione
da parte Jugoslava di fornire a Gorizia l’acqua derivante dagli impianti di Fonte
Fredda e di Moncarono, già italiani
·
obbligo
dell’opzione, entro un anno, da parte di tutti gli italiani che vogliano
conservare la cittadinanza italiana, con pieno potere alla Jugoslavia di
accoglierla o di respingerla sulla base della lingua parlata
·
costituzione
dello Stato Libero di Trieste: saranno cittadini del nuovo Stato coloro che vi
abitano dal 10 giugno 1940
·
cessione
alla Grecia delle isole del Dodecaneso che erano state occupate nel 1912 durante
la guerra con la Turchia
·
non
incriminazione di italiani che hanno collaborato con gli Alleati (anche slavi)
a partire dal 10 giugno 1940
·
proibizione
della rinascita di organizzazioni non democratiche
·
rinuncia
a tutte le Colonie
·
riconoscimento
dell’indipendenza dell’Albania e dell’Etiopia
·
arresto
e consegna ai tribunali di coloro che hanno “commesso atti di tradimento e di
collaborazione con il nemico” (è interessante notare che la Jugoslavia chiese
un numero di “criminali” - oltre 700 - largamente superiore a quello di tutti
gli altri Stati vincitori molto più grandi ed importanti della Jugoslavia medesima)
·
rimozione
di fortificazioni militari “nel limite di 20 chilometri” dalla frontiera
·
rinuncia
di possedere “alcuna arma atomica, proiettili ad autopropulsione, cannoni ad
una portata superiore a 30 chilometri, alcuna torpedine umana e mine azionate
mediante meccanismi ad influenza”
·
possesso
di non oltre 200 carri armati
·
radiazione
dei sottufficiali e degli ufficiali fascisti, salvo i riabilitati
·
riduzione
della flotta militare e del personale a 25.000 uomini
·
riduzione
dell’esercito a 165.000 soldati ed a 65.000 carabinieri
·
rientro
dei prigionieri di guerra a spese dell’Italia.
A Roma l’Assemblea Costituente
sospese per mezz’ora la seduta, quale protesta contro la “pace ingiusta”: la
città venne a trovarsi in uno strano silenzio (alle 11 il suono delle sirene ha
fermato la vita, mentre tram, autobus e tutte le automobili sono rimasti
bloccati nelle strade, coi portoni
chiusi e le bandiere esposte a
mezz’asta). L’On. Fausto Pecorari, unico
rappresentante della regione giuliana, invitò l’Assemblea a riflettere sul
tremendo voto che stava per dare: “Con questo trattato la civiltà italiana della
sponda orientale dell’Adriatico sparirà, come è sparita in Dalmazia”.
L’ESODO DI 350
MILA ITALIANI
L’esodo si è
presentato come l’unica soluzione per salvare la vita e la libertà: nel suo
carattere plebiscitario ha assunto il significato ed il valore dell’autodecisione
dei popoli, sancita dalla Carta Atlantica, e di una protesta collettiva contro
l’ingiustizia internazionale che ha negato ai giuliani il plebiscito.
“Migliaia e migliaia
i deportati sotto gli occhi indifferenti degli anglosassoni; molti torturati,
gli uccisi. Gli italiani erano semplice preda. Che cosa si poteva fare? Salvare
le ragioni della vita, le ragioni dell’anima per non piegare, per non farsi
semplicemente distruggere da gente imbestialita fuori da ogni legge. Il gesto
degli antichi aquileiesi fu ripetuto con semplicità, con umana dignità, come
avviene nelle grandi azioni necessarie. Pola fu abbandonata; Fiume, Rovigno, Parenzo,
Pisino, Albona, Cherso, Lussino e via via, tutte le altre ne seguirono
l’esempio”. (Biagio Marin).
18 agosto 1946 -
Sulla spiaggia di Vergarolla, presso Pola, 29 mine antisbarco, seppellite nella sabbia e
collegate fra loro, scoppiano dilaniando 109 persone e disperdendo le loro membra
in mare, contro i pini e contro la facciata della sede della Società Sportiva “Pietas
Julia”, che aveva preparato una gara. Il Tribunale alleato accerterà che “l’esplosione
non poteva essere accidentale” (tesi ribadita nel 2008 dopo l’apertura degli
archivi del Foreign Office e la conferma di responsabilità dell’OZNA). Infatti
le mine erano state disinnescate e lasciate in vista sulla spiaggia in quanto
ritenute innocue: per gli abitanti di Pola fu l’ultimo tragico avvertimento. “Non
è certo il caso di restare a Pola per fare da cavie, sacrificandosi per fare
opera di italianità, come qualcuno ha detto a Roma. Nella capitale non si ha
idea di cosa succede nell’Istria. Il pericolo è grande di fronte all’inerzia
del Governo. La popolazione di Pola è angosciata e domanda se riuscirà a
salvarsi.” (CLN di Pola, estratto dal verbale della seduta in data 27 dicembre 1946).
I giuliani e gli
istriani hanno affrontato l’esodo con determinazione fredda e responsabile: sapevano
che l’Italia sconfitta, semidistrutta, mal vista internazionalmente, con tre
milioni di disoccupati ed oltre, avrebbe offerto loro le baracche di legno, il
pane nero ed ancora razionato, il sussidio dei poveri: non ci potevano essere certo
interessi materiali nella loro scelta. “L’esilio ha rappresentato per noi l’abbandono
di ogni cosa cara, la distruzione dei focolari domestici e delle comunità
cittadine, per molti ha voluto dire la morte, la disperazione, la miseria”. (Sergio
Cella).
Amedeo Colella ha
definito l’esodo come “una esigenza di sopravvivenza, di libertà, un bisogno di
continuare a vivere nello
spirito della civiltà latina, di praticare la religione dei
padri, di educare i figli nelle tradizioni venete, un onesto e generoso amor di
Patria”.
Pasquale De Simone,
segretario del CLN di Pola, antifascista, ha scritto nel 1961: “Il nostro esodo
è stato ed è scarsamente capito; ma ci si risparmi almeno la puerilità di
vederlo come un fenomeno di suggestione collettiva, di un’esaltazione retorica.
Nacque come dolorosa necessità nella mente di ognuno per garantire una esistenza
degna di essere vissuta, maturò a occhi bene aperti e si sviluppò a contatto
dei grandi e piccoli problemi creati dal trasferimento in massa di una
popolazione. Respingiamo il richiamo alle suggestioni che per tiepidezza o
frettolosità sono state da qualche parte ricercate per infirmare il valore di
una pagina di storia che ha, invece, il significato inalienabile di protesta,
di rivolta contro il disprezzo della volontà popolare con cui si è voluto
disporre del destino di una terra”.
Nessun settore
dell’opinione pubblica pensò ad un esodo tanto massiccio: la stampa si era occupata del problema giuliano, ma identificandolo
quasi sempre con la questione di Trieste. Pochi inviati dei giornali (tra i
quali Indro Montanelli) arrivarono fino a Pola nei momenti caldi del 1946; quasi
tutti si fermarono a Trieste, senza penetrare nella realtà particolare, quanto
a condizione sociale ed a situazione psicologica, dei 30 mila abitanti di Pola,
arroccati nei confini cittadini e collegati a Trieste soltanto via mare, con
una linea a frequenza trisettimanale. Nessuno si azzardava a fare uso della
ferrovia che attraversa l’Istria, in quanto occupata militarmente dalla Jugoslavia.
Neppure De Gasperi credette allo spopolamento quasi completo di Pola. Quando il
CLN di Pola fece compilare ai cittadini le schede per l’esodo e ne furono
presentate oltre 28 mila, il Presidente del Consiglio pensò ad una forzatura
propagandistica per contestare l’iniquo verdetto di Parigi, ma subito dopo,
rendendosi conto di essere in presenza di un moto di popolo irrefrenabile, si
preoccupò per il danno derivante sul piano nazionale dalla slavizzazione immediata
di una città a seguito della partenza di quasi tutti i suoi abitanti. Cercò di
prendere tempo chiedendo - invano - il rinvio di un anno dell’attuazione del
trattato di pace, al fine di rendere possibile il raffreddamento delle
contrapposizioni e lo stemperamento dei contrasti in un clima più rasserenato,
sia pure per forza di rassegnazione. Intanto invitava a non precipitare, ma il
messaggio portato a Pola dai delegati del CLN che facevano la spola con Roma accrebbe
il timore dell’abbandono ed accentuò nei 28 mila che avevano sottoscritto la
scheda dell’esodo, l’ansia di partire senza indugio.
Sotto questa
pressione, la fase dell’esodo fu dichiarata aperta dall’apposito Comitato di Assistenza
istituito dal CLN che provvide a noleggiare i primi bragozzi per il trasporto
delle masserizie. Alcune settimane dopo le autorità di Governo presero atto
dell’evidenza. Fu possibile avvalersi anche della ferrovia per l’inoltro del
mobilio, accatastato per lo più a Trieste. Trascorsi Natale e fine d’anno del 1946 in una corale
esplosione di festosità (per reazione all’angoscia, per un fermo grido dell’
animo popolare, per l’ultimo ritrovarsi prima della dispersione), le partenze ebbero
inizio nel 1947 subito dopo l’Epifania, con le corse normali della motonave “Pola”
verso Trieste, che prese ad effettuare i viaggi stracolma di passeggeri. La linea
fu poi rafforzata con il “Grado” per consentire l’effettuazione di corse
giornaliere nel periodo dell’emergenza..
Gli Alleati, non
essendo più in grado di gestire il grande afflusso di profughi a Trieste, sollecitarono
l’Italia ad intervenire. Il Governo, allora, mise a disposizione il piroscafo “Toscana”
per una serie di collegamenti con Venezia e Ancona, protratti fino a marzo,
quando Pola rimase quasi deserta: poco più di tremila coloro che restarono,
comprese alcune centinaia di “indispensabili”, intendendo per tali gli
impiegati pubblici che erano trattenuti sul posto dai doveri d’ufficio ed ai
quali il Governo Militare Alleato aveva garantito il viaggio di trasferimento
al momento del passaggio di sovranità alla Jugoslavia (15 settembre). Gli Alleati
si adoperarono per facilitare l’esodo degli abitanti di Pola, ma anche dalle
zone circostanti (già sotto la dominazione slava) che giungevano in città con
ogni mezzo.
Tutti gli altri
istriani, fiumani e dalmati abbandonarono le loro case sotto il controllo
poliziesco dei partigiani slavi. Molti,
in base al trattato di pace, ottennero il visto di partenza, ma ebbero la
possibilità di portare con sé solo una valigia di indumenti e cinquemila lire. Ad
altri, invece, il visto venne negato per ragioni politiche, per vendetta, per
non privarsi di personale specializzato: ebbero così origine tante fughe drammatiche
e pericolose. Sul Carso di Gorizia e di Trieste funzionava a pagamento un
servizio di “spalloni” che guidavano i fuggiaschi attraverso passaggi
clandestini; purtroppo non mancarono coloro che vennero colpiti da raffiche di mitra, dallo scoppio di mine, o
non riuscirono a superare il filo spinato. Alcuni, provenienti dalle coste
istriane o dalle isole, affrontarono l’Adriatico con fragili barche a remi e
raggiunsero l’Italia stremati dalla fatica, con le mani spellate e sanguinanti;
altri, meno “fortunati”, vennero intercettati dalle vedette slave e condannati fino a dieci anni di lavori
forzati, per non dire delle salme di fuggiaschi travolti dalla bufera,
restituite dal mare sulle coste venete e romagnole.
NELLE BARACCHE
DI 109 CAMPI PROFUGHI
I profughi arrivavano
in Italia a ondate, ma dove e come sistemare tanta gente? Gli Esuli chiedevano
di non essere dispersi e proposero una sottoscrizione nazionale per creare delle
piccole città. Luigi Einaudi sostenne l’idea
del CLN di Pola per
un forte insediamento in Alto Adige dove le attrezzature alberghiere offrivano
una decorosa collocazione provvisoria e dove le industrie avrebbero potuto
offrire diverse sistemazioni definitive. I Comuni del Gargano si riunirono in
assemblea ed offrirono la terra per fondare una “Nuova Pola” affinché “i
fratelli polesi possano riaffacciarsi su quel mare da dove incomprensione ed ingiustizia
li hanno cacciati” (Deliberazione della Giunta Municipale di Vieste del 18
aprile 1947).
Esodo dai Pola
Il parlamentare giuliano Antonio De Berti,
dal canto suo, indicò la località di Castel Porziano per fare risorgere Pola e
presentò un progetto dettagliato, ma il Governo si oppose a tutte le
concentrazioni e preferì chiaramente la dispersione. Le
autorità non si rendevano conto delle ragioni per cui tanta gente aveva rifiutato una Jugoslavia “democratica” e
vincitrice, ed aveva preferito l’Italia sconfitta, distrutta e umiliata: “Questi
giuliani - pensarono - devono essere dei nazionalisti pericolosi. Disperdiamoli
da Trieste alla Sicilia, da Torino a Bari”.
Ed agirono di
conseguenza. Si erano appena vuotati i
campi dei prigionieri e le caserme dei soldati, ed in questi locali si allestirono
alla meglio 109 accantonamenti che vennero chiamati Campi di Raccolta. La
burocrazia risolse il problema nella forma meno impegnativa: “I profughi sono
dei poveri senza casa e senza lavoro, si mettano in fila dietro gli altri
poveri”. Una massa di 350 mila persone richiedeva, invece, una soluzione
globale e razionale: costoro, già abituati a soffrire ed a rischiare, hanno
cominciato a costruirsi una nuova vita con tenacia silenziosa; non sono scesi
in piazza ad urlare sotto le finestre delle autorità quando si sono visti
intruppati nelle baracche recintate da filo spinato, decaduti nella miseria,
con una gavetta in mano, in fila davanti ad una marmitta militare; quando per
mesi ed anni hanno visto i loro figli e i loro vecchi tremare di freddo su una
brandina.
Non si poteva
risolvere un problema così grave mettendo i profughi in fila con tre milioni di
disoccupati e con quattro milioni di senza tetto. Un gruppo ardimentoso di
istriani, fiumani e dalmati diede vita a vari enti: a Roma sorse l’Associazione Nazionale
Venezia Giulia e Dalmazia, articolata in Comitati Provinciali
ed in varie delegazioni all’estero, con diverse iniziative di assistenza
morale, giuridica ed economica, e nel 1947 entrò in scena l’Opera per
l’Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati. Era necessario impostare un
programma assistenziale agile e funzionale, acquisire la fiducia dello Stato e
degli Istituti finanziari, e naturalmente, quella dei profughi. A tale scopo furono
chiamate a far parte dell’Opera eminenti personalità che misero a punto un
programma articolato su tre settori principali: casa, lavoro, assistenza ai
minori ed agli anziani. Alla presidenza si sono succeduti uomini di alto valore
nel campo industriale e finanziario che hanno sempre dimostrato una generosa attenzione
per il problema giuliano: Oscar Sinigaglia, fondatore delle Acciaierie di
Cornigliano, Enrico Manuelli, Presidente del Gruppo Finsider, Giusto Carra,
alto funzionario industriale, e via dicendo. L’Opera, con 50 miliardi di lire,
ha costruito 8.326 case in 39 Province, creando spesso dei veri borghi e quartieri
giuliani come a Trieste, Gorizia, Roma, Venezia, Varese, Udine, Milano, Brescia,
Catania, Genova.
Campo Raccolta Profughi - Brescia
Il collocamento al
lavoro si à svolto attraverso varie fasi: l’Opera ha censito tutti i disoccupati,
ha organizzato corsi di qualificazione per i giovani, ha preso contatto con
importanti industrie che presentavano la possibilità di assunzioni; ha
trasferito i lavoratori ,
a proprie spese, nella zona di lavoro, pagando loro l’alloggio ed un sussidio
di mille lire giornaliere. Non appena il collocamento del profugo ha evidenziato
una garanzia di stabilità, essa ha costruito gli alloggi e vi ha trasferito le
famiglie dei lavoratori; con questo sistema è riuscita a collocare al lavoro 62
mila giuliani.
Altri, che in Istria
erano dipendenti dello Stato, ebbero ripristinato il loro posto di lavoro. Ad
esempio, a Sestri Ponente (Genova), nella Manifattura Tabacchi furono collocati
parecchi profughi, che però non furono bene accolti ed ebbero momenti di vero sconforto: basti pensare che
durante la campagna elettorale del 1948 alcuni candidati comunisti
qualificarono i profughi, proprio in Liguria, come “banditi” che avevano osato
abbandonare il “paradiso” di Tito.
L’Opera ha creato,
per l’infanzia e la gioventù, 14 istituti scolastici: sette Case del fanciullo,
due Convitti femminili, due maschili, un pensionato per gli studenti
universitari. L’assistenza ai giovani ha registrato 76.285 presenze con una
spesa complessiva di 11 miliardi e 590 milioni di lire. I titoli di studio e le
qualificazioni professionali conseguiti hanno consentito a decine di migliaia
di giovani di tutelare i valori culturali della Venezia Giulia e di
inserirsi brillantemente nella vita dello Stato. Particolare menzione meritano
i due Preventori di Sappada: la salubrità della bellissima conca alpestre, la
funzionalità dei locali, l’assistenza medica, l’attrezzatura scolastica e
ricreativa si sono rivelate provvidenziali per l’infanzia profuga, debilitata
da una lunga degenza nei Campi di Raccolta.
Inoltre, l’Opera ha
realizzato nove moderni centri per anziani con
942 posti letto, tutti ubicati nella Venezia Giulia , da
Trieste ad Udine e Pordenone, permettendo una serena convivenza di persone
provenienti dalle stesse terre, che avevano vissuto lo stesso dramma dell’esodo.
Per la realizzazione di questo programma, così molteplice ed impegnativo, l’Opera
si è avvalsa dei contributi dello Stato, dei mutui bancari, della
collaborazione di Enti locali, della generosità di cittadini privati ed in
particolare della famiglia Mayer Sinigaglia. Il successo è stato determinato dalla
forte capacità programmatrice e realizzatrice dei suoi dirigenti.
Tuttavia, oltre 80
mila Esuli abbandonarono l’Italia e si sparsero per le vie del mondo: cominciava
per loro un nuovo esilio, più spesso in Paesi lontani quali Australia,
Argentina, Canada, Stati Uniti, Venezuela.
Ed i miei parenti? Come
tutti, si erano preparati alla partenza da Pola. Il 2 marzo 1947, con il settimo
viaggio del piroscafo “Toscana”, hanno visto la loro città che si allontanava,
quasi nascosta dalle brume del mattino e dalle loro lacrime. Essi sapevano dove
andare, non partivano alla ventura, perché avevano due punti di riferimento. Giunti
a Venezia la famiglia dovette separarsi: i tre figli maggiori, la nuora e il
nipotino dovevano recarsi a Verona, ospiti di un convento di Francescani. Il
mio bisnonno e il resto della famiglia partirono per Genova dove furono ospitati
dal fratello della moglie. La famiglia si sarebbe nuovamente riunita quando a
Genova fosse stato possibile trovare un’attività adatta alle sue capacità
professionali: era una famiglia di sarti. Furono abbastanza fortunati, perché
riuscirono a rilevare una sartoria già avviata in un appartamento molto grande.
Richiamati i figli da Verona, che si recarono a Venezia per spedire i mobili
giacenti in magazzino, furono di nuovo insieme dopo una breve separazione. All’inizio,
la padrona dell’appartamento non voleva riconoscere il contratto stipulato dal
precedente inquilino e non accettava l’importo della pigione, che però veniva
versato su un conto bancario. In seguito la signora comprese: si trattava di
persone che desideravano vivere in pace e lavorare, accettò la pigione ed offrì al mio prozio un appartamentino
dove avrebbe potuto trasferirsi con la sua famiglia. Il lavoro aumentava, con
una buona clientela (anche vecchi clienti della sartoria di Pola provenienti
appositamente da altre città)) e poterono vivere in modo decoroso e tranquillo.
Ma a Pola era un’altra
vita !!!
Il piroscafo “Toscana”
Bibliografia:
- P. Rocchi Flaminio, L’esodo
dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Anvgd 1990
- De
Castro Diego , Trieste,
Bologna, Cappelli 1953
- De
Castro Diego , Questione
di Trieste, Trieste, Lint 1981
- Molzer, Fasti e nefasti
della quarantena titina a Trieste, Trieste,
Moderno Grafica 1946
- Veiter, Aspetti sociali
dei profughi delle regioni costiere dell’Adriatico
- Molinari
Fulvio , Istria contesa,
Milano, Mursia 1996
- Alberi Dario, Istria: storia, arte, cultura, Trieste, Lint 2006
Peccato che mancano le foto!
RispondiEliminaOttima tesina per una sensibile giovane studentessa.