lunedì, maggio 15, 2017

Carlo Borsani, l'eroe cieco

Carlo Borsani
l'eroe cieco

La pattuglia di partigiani comunisti, con le cicche fumanti ancora in bocca, sollevarono il corpo della loro ultima vittima, ancora calda della vita che l'aveva abbandonata, e lo gettarono sulla carretta della spazzatura che si erano portati dietro. Dal foro della nuca del cadavere, colò altro sangue a lordare l'asfalto.
Poi il più intelligente del gruppo, prese un pennello e della vernice e vergò su un cartello queste parole : “ EX MEDAGLIA D'ORO”, pensando con quell'EX di fare della facile ironia.
Chi era la persona assassinata ad appena 28 anni, in Piazza Susa a Milano ? Si chiamava Carlo Borsani ed era un ufficiale di fanteria del Regio Esercito,prima sul fronte occidentale e quindi in Grecia dove nel 1941 per il suo comportamento eroico era stato insignito della medaglia d'oro al V.M., a seguito di un colpo di mortaio fu li li per morire ma nonostante numerose ferite si salvò perdendo totalmente la vista.
Benchè cieco, volle tornare al fronte per rincuorare con la sua presenza i suoi compagni d'arme , dopo il 43, scelse di aderire alla R.S.I. , tuttavia egli non era un esaltato e anzi tentava di evitare la guerra civile incombente.
Fu nominato da Mussolini Presidente della Associazione dei mutilati ed invalidi di guerra e direttore di un quotidiano del Regime ma, a causa del suo desiderio di superare gli odi e le intolleranze fratricide, la componente più oltranzista della RSI lo volle allontanare e così fu. Con la caduta del regime Repubblicano, gli fu offerta la possibilità di fuggire all'estero che egli con grande coraggio e serenità rifiutò.
Poi il 29 aprile del 1945, quando, quattro idioti con il fazzoletto rosso al collo, lo prelevarono dall' Istituto Oftalmico di Milano, lo trascinarono in strada e lo ammazzarono in modo sbrigativo. In seguito i mandanti cercarono di accreditarlo come un istigatore di violenze e atrocità, mentre in realtà Carlo Borsani salvò numerosi partigiani prigionieri dal plotone di esecuzione.
Era un poeta, un giornalista, un guerriero ma soprattutto un eroe e il fatto che fosse cieco non inficia in alcun modo la sua figura.
I suoi assassini dopo la sua uccisione, lo portarono in giro per Milano sulla carretta, sino all'obitorio e poi al Cimitero del Musocco, dove venne sepolto al Campo 10, Campo dell'Onore, accanto ai suoi camerati con cui spesso era in disaccordo.
Di fronte a Carlo Borsani i suoi killer, fanno la figura dei pigmei di fronte ad un gigante. Borsani ebbe due figli, una bimba e un piccolo che nacque pochissimi mesi dopo il suo omicidio.


Robert Nicolick

Mario U Balan

L'assassinio del barista del Bar G.... di Voltri
( Si ringrazia per l'informazione una gentile signora )
Era un giovanotto intelligente e simpatico, un po' fuori dalle righe, faceva il barista in un locale che è tuttora nel centro di Genova Voltri e che per ovvi motivi non posso nominare, si chiamava Mario, e come soprannome era conosciuto come Mario U Balan, era un ottimo dipendente, la sua datrice di lavoro, la signora Chiara, gli voleva bene.
Pochi sapevano dell'orientamento sessuale de ragazzo, ma quei pochi, visti i tempi, non dicevano nulla. I tempi erano crudi e tempestosi. Il Regime Fascista Repubblicano era da poco crollato, e per poco o quasi nulla, si poteva perdere la vita. Qualcuno cominciò a fare circolare la voce che il barista fosse una spia dei Repubblichini , che avesse contribuito con le sue spiate a fare arrestare dei partigiani, poi che frequentasse i repubblichini con cui secondo queste voci fosse in grande confidenza.
Questa era la prassi come nei processi alle streghe , la sua sorte era già segnata, si voleva solo spargere ancora un po di fango, tanto per giustificare quello che stava per accadere al poveretto.
Un giorno il solito gruppo di valorosi partigiani lo andò a prendere, Mario era dietro il banco del bar, gli energumeni lo trascinarono fuori, nessuno degli avventori e neppure la padrona fecero nulla, tutti erano pietrificati dal terrore che potesse capitare anche a loro.
 A calci e pugni gli fecero fare la strada sino alla piazza del Municipio, in quel posto, in mezzo alla gente lo ammazzarono come una bestia, senza pietà.

La decapitazione della Maestra Clerin, Carema, Aosta

La maestra Clerin
Carema
( Aosta)


Carema è un piccolo centro della provincia di Torino, all'epoca dei fatti faceva parte della Provincia di Aosta, i suoi abitanti non hanno mai raggiunto il migliaio. Accanto ad esso scorre la Dora Baltea, siamo nel settembre del 1943, Mussolini è stato da poco liberato dai Tedeschi e la notizia è stata divulgata in tutta Italia. Alla periferia del paese, ci sono dei lavatoi usati dalle donne del luogo per lavare e sciacquare i panni, fra le donne, una ex insegnante, di cognome Clerin. La donna, settantenne, è sempre stata di idee fasciste e non lo hai mai nascosto, appena apprende della liberazione di Mussolini, esprime la sua gioia affermando che avrebbe dato la sua testa pur di rivedere Benito Mussolini. Qualcuno ascoltò questa frase e probabilmente la riferì ad alcuni ex prigionieri Slavi, fuggiti da un campo di prigionia, uomini duri e crudeli, i quali la notte fecero irruzione nella casa della famiglia della ex maestra, la prelevarono assieme al marito, Gaudenzio. Dopo averli portati in aperta campagna, uccisero l'uomo con un colpo di pistola alla nuca e bastonarono a morte la povera donna, dopodi chè la decapitarono.  

venerdì, maggio 12, 2017

la terribile storia di Giuseppe Caneva




Giuseppe Caneva, era un Genovese di 30 anni, anzi un Voltrese, era impiegato come sorvegliante alla S. Giorgio, una antica azienda Genovese, che in quel periodo produceva strumenti di precisione per la Regia Marina Italiana, che venivano installati sul naviglio da guerra.
Caneva apparteneva alla 8° Compagnia Provinciale delle Camicie Nere, la famosa Aldo Resega. e aveva partecipato alla campagna di Russia con il 79° Battaglione Camice Nere.
Dopo l'8 settembre 1943, la S. Giorgio, venne trasferita a Seregno e Caneva come molti altri lavoratori si trasferisce nell'hinterland Milanese, lasciando la famiglia di origine a Genova. Poi la RSI cade e arriva dopo il 25 aprile 1945 una ventata di odio e di ferocia.
Quello che accade è ricostruito, parzialmente, anche grazie al racconto della nipote che a tutt'oggi porta dentro di sé il dolore per quello che accadde a Caneva come a tanti altri.
Una banda di partigiani comunisti, nel maggio del 45, di Sestri arriva a Seregno e lo preleva. Lungo la strada subisce sevizie di ogni tipo, quando arriva a Genova Sestri è devastato dalla tortura.
Una donna sua conoscente , una certa Filomena M. lo vede nelle carceri di Genova Voltri, e a fatica lo riconosce, . La donna racconta alla madre dello sventurato, che la giacca era lorda di sangue, il viso gonfio e tumefatto, inoltre un occhio gli era fuoriuscito dall'orbita e pendeva verso il basso.
Secondo alcune illazioni, i suoi boia, lo avrebbero portato all'interno di uno stabilimento siderurgico di Sestri Ponente, e qui come tanti altri, ne avrebbero gettato il cadavere all'interno dell'altoforno. In quel modo barbaro molti corpi di Repubblichini, sparirono senza lasciare alcuna traccia. Chi commise quelle atrocità tenne la bocca ben chiusa e niente di quello che accadde in quella fonderia, fu mai provato o documentato, ma in qualche trattoria della rossa Sestri, qualcuno con troppo vino in corpo, si vantò di come si facevano sparire le prove degli omicidi, dentro gli altoforni ma delle temperature che incenerivano qualsiasi sostanza organica.
La anziana madre di Giuseppe Caneva, si dovette accontentare di un certificato di morte presunta e non potè mai avere un luogo, dove posare un fiore o pregare per Giuseppe Caneva.

Robert Nicolick

giovedì, maggio 04, 2017

La strage dei Manzoni a Lugo, Ravenna

Fra il 7 e l'8 luglio 1945, di notte, accadde a Lugo ( Ravenna), una strage famigliare analoga per medesime caratteristiche a quella che accadde a Savona, alla famiglia Biamonti e alla sua domestica , Elena Nervo nel maggio del 45.
Anche in questo caso di notte, i criminali che sterminarono la famiglia Manzoni erano, guarda caso, partigiani comunisti e anche in questo caso, tutte le cose di valore di proprietà, furono trovate successivamente nelle case degli assassini.
La notte del 7 luglio una banda di partigiani rossi, irrompe in una villa patrizia di Lugo, all'interno vi sono la Contessa Beatrice Manzoni e i suoi tre figli, (Giacomo, Luigi e Reginaldo), la domestica della casa, Francesca Anconelli, ed il cane di famiglia , tutti vengono sequestrati dagli uomini armati e fatti uscire dalla casa che è successivamente posta sotto sequestro dal CLN, non si sa per quale motivo.
Quindi i banditi comunisti, portano il gruppo famigliare in una tenuta agricola vicina, presso Alfonsine, e lì provvedono a sterminarli con modalità a dir poco sadiche, i tre figli , vengono soppressi a colpi di pistola alla testa, al torace, mentre la Contessa e la domestica sono trucidate con ferocia bestiale a colpi di bastone, anche il cane non viene risparmiato e sarà sepolto in una fossa comune ad un metro di profondità, assieme ai suoi padroni, per impedirgli di ritrovare con il suo fiuto la famiglia che condivideva.
Il movente della strage potrebbe essere ricercato ricercato nella simpatia che la nobile famiglia nutriva, anche se solo in parte, verso la Repubblica Sociale Italiana, ma le vere motivazione stanno nelle sostanze economiche in possesso dei Manzoni che interessavano a un gruppo di partigiani comunisti i quali se ne volevano impossessare, tutto qui. Fu una rapina che si concluse con una strage.
Gli assassini non si fermarono all'eccidio e alla spoliazione dei beni dei Manzoni ma iniziarono un vero e proprio depistaggio per scoraggiare i parenti dal cercare i Manzoni. Sparsero la voce che non si trattava di una strage ma bensì di un allontanamento volontario.
Solo la tenacia di una giovane nipote, la Contessina Valeria Manzoni riuscì a far proseguire le indagini, dopo che lei si recò alla villa dei Manzoni in frazione Frascata a Lavezzola e la trovò vuota ed abbandonata. Quando i partigiani comunisti capirono il pericolo che Valeria rappresentava per loro , progettarono di eliminare anche lei in due diverse occasioni, ma la ragazza non era stupida e non cadde nei tranelli che essi le avevano teso e riuscì a dribblare il sicario mandato a Bologna, dove abitava, per liquidarla.
I Carabinieri dopo la nuova denuncia, nel 1948, iniziarono le indagini e nel corso di alcune perquisizioni trovarono dei mobili che erano appartenuti ai Manzoni in case di proprietà di alcuni partigiani, uno dei quali, Primo Cassani detto Togo, sottoposto a stringente interrogatorio confessò l'accaduto e portò i Carabinieri al podere ove erano stati occultati i corpi delle vittime che vennero finalmente esumati.
L'attenzione degli inquirenti si accentrò su una dozzina di partigiani e sul loro capo, tale Silvio Pasi, dirigente del P.C.I. nonché membro della Camera del Lavoro. Cassani intanto non si fermava alla prima confessione e fece i nomi degli altri responsabili della strage, in primis Silvio Pasi, poi Gagliardi Santino, Graziani Pompeo, Canotti Olindo, Casselli Paolo, Coccoli Leonida, Tamburini Fausto, i fratelli Martini, Bagnaresi Gianprimo, Ricci Rino, Salami Marino, Donigaglia Dergo, e Guerra Luigi.
Sette di essi fuggirono in Cecoslovacchia, il porto franco dove tutti gli assassini comunisti trovavano rifugio anche se nello squallore più totale.
Nel 53 fu celebrato il processo e ben 13 ergastoli vennero distribuiti agli assassini, ma per effetto della amnistia Togliatti furono ridotti a 19 anni di cui solo 5 effettivamente scontati e in terzo grado ad Ancona tutti furono assolti per insufficenza di rove.
Nel 62, il capo, Pasi morì a 51 anni, altro parallelo con l'assassino dei Biamonti, Luigi Rossi che anch'esso se ne andò ancora giovane divorato da un tumore al cervello.

Purtroppo il Comune di Lugo gli tributò funerali solenni a spese dei cittadini, nonostante tutti sapessero quello che aveva fatto e negli anni seguenti gli intitolò addirittura una via, anche se in periferia e contornata da appena otto case.

martedì, maggio 02, 2017

Gioacchino Agnarelli


Gioacchino Agnarelli
1 maggio 1945
Savona
Sembrava una mattina come le altre, ma non lo era, alle 9 del 1° maggio del 1945, sul pontile di ferro arrugginito, dell'ILVA di Savona stava per avere luogo una delle tante esecuzioni sommarie, un gruppo di uomini armati in uniforme da partigiano, stava trascinando sino all'estremità del molo artificiale, un uomo alto e snello, con addosso una tuta da operaio, con dei sottili baffetti , le mani legate dietro la schiena.
All'estremità opposta del pontile c'era un pubblico composto da un centinaio di uomini, dal volto segnato dalla fatica, tutti operai dell'ILVA, erano tutti immobili ad osservare, terrorizzati, la scena brutale.
L'uomo nonostante fosse legato e violentemente spintonato dagli uomini armati, continuava a voltarsi verso gli spettatori muti, urlando con disperazione e chiedendo aiuto nella speranza che qualcuno di quegli operai, suoi compagni di reparto, facesse qualcosa, qualunque cosa, per aiutarlo, ma nessuno alzò un dito per tentare almeno di bloccare quello che stava per accadere.
I boia, raggiunta l'estremità del pontile lo allontanarono con forza da loro, spingendolo, gli puntarono i mitra contro e gli piantarono in corpo una dozzina di pallottole in rapida successione.
Colpito dalla sventagliata di raffiche il corpo cadde in mare, rimanendo a galleggiare a faccia in giù, sballottato dalle onde e nessuno cercò di recuperarlo, forse per paura .
Chi era lo sventurato, vittima dei carnefici partigiani ? Si trattava di Gioacchino Agnarelli, di 50 anni, caporeparto all'ILVA di Savona, e gli operai che avevano assistito al suo assassinio erano suoi compagni di lavoro, gente con cui egli aveva lavorato, gomito a gomito, sino a pochi giorni prima, e nessuno di loro aveva detto una sola parola in sua difesa lasciando che si compisse l'atto infame del suo omicidio.
Agnarelli era sì iscritto al Partito Fascista Repubblicano, ma nonostante la sua fede politica aveva nascosto dalla polizia politica repubblichina un partigiano, salvandolo dal plotone di esecuzione. Insomma Agnarelli era una persona moderata, ma all'interno dell'ambiente di lavoro qualcuno dei suoi colleghi lo odiava, in primis, in quanto caporeparto e poi come fascista, la solita vecchia storia di rancori mai sopiti e riesplosi dopo, nel momento migliore per poter compiere le proprie vendette.
Agnarelli, tuttavia, avendo la coscienza tranquilla, quando cade il Regime Fascista Repubblicano non scappa e neppure si nasconde.
All'indomani del 25 aprile 1945, due operai dell'ILVA, in divisa da partigiano lo vanno a prelevare e lo accompagnano al carcere di S. Agostino, dove erano detenuti molti fascisti in attesa di essere giudicati dai tribunali del popolo.
Qui è interrogato, ma nulla emerge a suo carico e la polizia ausiliaria partigiana è costretta, obtorto collo, a rilasciarlo. La moglie e il figlio tredicenne, lo vanno ad aspettare al rilascio, abbracciandolo con grande gioia.
Sono tutti convinti di aver scampato un grave pericolo ma non è così. Dopo appena due giorni i soliti noti pieni di rancore per la sua liberazione, ritornano a casa sua, nel centro storico di Savona e lo riprendono senza alcuna procedura o mandato, questa volta non si recano al carcere ma direttamente all'ILVA, sul vecchio pontile rugginoso e in disarmo, famigerato luogo di esecuzioni.
Qui Gioacchino Agnarelli sarà ucciso con la solita crudeltà. Il suo corpo crivellato dalle raffiche, verrà recuperato solo dopo cinque giorni, assieme ad altri corpi di persone ammazzate dai partigiani comunisti e tumulato in una grossolana cassa di ferro. Nel 1956, finalmente, le sue spoglie verranno sistemate dalla famiglia in una vera bara funebre.
Poco prima di assassinarlo, i suoi carnefici gli presero gli spiccioli che aveva in tasca, e gli sfilarono degli anelli che portava alle dita.

Gioacchino era un fumatore e nella tasca teneva un accendino, quasi per crudele ironia, quelli che lo uccisero riconsegnarono ai famigliari l'accendino, solo quello, forse perchè loro non fumavano.

Scorci di un paese del basso Piemonte