lunedì, ottobre 29, 2018

L'Omicidio di Pasqualina, Carrù 1944 , 17 dicembre




Pasqualina B. in M.
detta Lina
17 dicembre 1944

Ricevo una comunicazione su Messenger di un mio vecchio amico, Franco M., con cui ho condiviso una militanza politica una ventina di anni fa, era un ufficiale della marina militare, se non sbaglio dovrebbe avere intorno ai 76 anni, vuole raccontarmi la storia di sua madre, Pasqualina e della sua morte avvenuta in circostanze tragiche ad appena 29 anni a Carrù.
Lo rivedo volentieri, è un signore dall'aria dignitosa e austera con un paio di baffetti bianchi, ci sediamo in un bar di una cittadina rivierasca, dove egli vive, apre la borsa ed estrae un grosso faldone marrone, stretto da un elastico, con una scritta in caratteri gotici, “Carteggio riservato Lina M.”.
Questo faldone, che il babbo gli ha lasciato in eredità, contiene una raccolta di documenti di vario genere inerenti al rapimento e all'omicidio di sua madre Lina, avvenuto il 17 dicembre 1944 ad opera di tre partigiani.
Mi espone il caso con voce emozionata e commossa e a ogni passo della narrazione, mostra un documento a sostegno delle sue parole, è preciso e metodico, le carte sono in ordine cronologico, ordinate e ottimamente conservati anche se hanno più di settant'anni.
Sono stati raccolti con pazienza certosina dal babbo, Ferdinando M. , ex colonnello dell'Esercito Italiano, da tempo morto.
Ferdinando giovane Tenente, fresco di nomina, partecipa alla guerra civile di Spagna nei reparti denominati Frecce Azzurre. Ritorna in Italia e si sposa con Pasqualina detta Lina B., nativa della Val di Susa, classe 1915, ragazza di rara bellezza, come si evince dalla foto che Franco mi mostra, ha dei fluenti capelli castano chiari, occhi profondi, tratti del viso regolari e pelle candida e soprattutto è onesta, retta e intelligente, una splendida creatura che il Tenente M. amò e da cui fu riamato.
Ebbero un figlio, Franco, il mio amico appunto. Abitano a Torino, in Via Dresda, al civico 20. Sono una famiglia serena ed unita.
Scoppia la guerra, il Tenente M. deve partire per il fronte e per allontanare la sua famiglia dai bombardamenti alleati su Torino, nel gennaio del 1943, li fa sfollare in un luogo che egli reputa più sicuro, Carrù, dove affitta un piccolo appartamento per la moglie e il bimbo, presso la famiglia Revelli che egli conosce.
Carrù purtroppo non è così sicura come il Tenente crede. Nella zona di Carrù dopo i pesanti rastrellamenti delle truppe Nazifasciste avvenuti nel 42, si aggirano numerosi partigiani sbandati, appartenenti alla Divisione Mauri, questi soggetti vivono di prepotenze facendosi mantenere dai contadini , scendono frequentemente nel centro abitato di Carrù, dove in assenza dei Repubblichini, spadroneggiano, accadono frequenti omicidi di civili fatti passare per esecuzioni sommarie di presunte spie fasciste ma che hanno motivi personali nascosti dietro.

Il Tenente Ferdinando M. partecipa alla campagna di Albania, è in Grecia e quindi in Jugoslavia, dove lo sorprende l'otto settembre 1943, vive il dramma dei militari Italiani, lasciati senza ordini, in balia di sé stessi, con i Tedeschi incattiviti per quello che consideravano un tradimento. Prigioniero dai Tedeschi, è caricato su un treno piombato, assieme a centinaia di suoi commilitoni, internato in Germania presso il Stammlager , Baracke n. 29 /A. da cui farà ritorno solo nell'agosto del 1945.
Da lì vive la sua prigionia, costretto a lasciare soli la moglie e il piccolo Franco.

Ferdinando e Lina si si scambiano, lettere di amore e nostalgia, la donna per vivere e poter dare da mangiare a Franco, si adatta a produrre maglioni fatti a lana, visto che lei è molto abile con i ferri e i gomitoli. Non vuole denari per il suo lavoro ma prodotti alimentari della campagna per alleviare la fame di quei tempi.
Lina è una donna sola e molto attraente, viene adocchiata da alcuni di questi partigiani sbandati, costretta a difendersi con determinazione da questi corteggiatori molto invadenti che la disturbavano.
Uno di quelli che le ronzano attorno con insistenza, è un partigiano, tale Alditore che si era auto nominato maresciallo pur senza averne diritto il grado.
Alditore aveva secondo alcune testimonianze, atteggiamenti arrogati e sfrontati, verso chiunque, ma soprattutto, un testimone, Severina Revelli , negoziante, affermò di riconoscere al polso dello stesso, un orologio d'oro che era stato di proprietà di Fiorenzo Gallo, a suo tempo “giustiziato” dai partigiani.
Nello stesso caseggiato dove vive Lina e il piccolo Franco , abita anche un'altra donna, Liliana Grondona, staffetta partigiana, fidanzata con un partigiano, Michele Bracco, detto il Moro. La donna limitata e ignorante, nutre nei confronti di Lina, un malcelato odio, per la sua avvenenza e per il fatto che Lina ha modi nobili ed eleganti, molto diversi dallo standard di un paese come Carrù.
La paesana, inizia a diffondere nei confronti di Lina, malignità e falsità, facendo affermazioni inverosimili e chiaramente false, su presunte infedeltà, ma soprattutto accusandola, senza avere nessuna riprova di ciò, di essere una spia dei Fascisti, siamo nel 1944 e quest'ultima calunnia potrebbe portare a delle conseguenze nefaste per Lina.
Addirittura allorquando Lina deve recarsi in treno a Torino, per monitorare gli anziani genitori del marito, la Grondona, si inventa che presso la stazione di Porta Nuova, avrebbe avuto un incontro con un ufficiale dello spionaggio della RSI. Purtroppo queste sue asserzioni fallaci e dettate dall'odio, trovano credito tra alcuni partigiani dei Mauri, già ostili verso la forestiera per i suoi rifiuti ad essere disponibile verso di essi, che iniziano a sorvegliare la povera Lina.
La povera donna sola e lontana dal marito, vive un periodo molto triste in cui è sottoposta a pressioni continue, vista di cattivo occhio per il fatto di essere una cittadina in un paese, corteggiata da personaggi violenti convinti di avere potere di vita o di morte, con un bimbo di cinque anni a cui badare.
La insensata campagna di denigrazione della Grondona, porta ai primi risultati: la povera Lina è prelevata dai partigiani nell'agosto del 1944 e rinchiusa in un campo di detenzione,a Ghigliani nel comune di Clavesana, dove sono tenuti ristretti tutti coloro che sono sospettati di essere collaborazionisti dei Fascisti.
L'accusa, semplicemente incredibile, è quella di avere in uso una radio ricetrasmettente con cui comunicare ai Fascisti gli spostamenti dei partigiani, con lei c'era , detenuta anch'essa un'altra donna, Rina Bonino, colpevole unicamente di non aver consegnato prontamente le sigarette ai partigiani che le avevano richieste. Le due donne stringono amicizia e passano il tempo giocando a carte, anche qui sono spiate ma i loro discorsi sono incentrati sul tempo, sui figli e sul gioco delle carte e nulla più..
In quei giorni ben 6 civili nel territorio di Carrù, sospettati di essere delatori al servizio dei repubblichini vengono uccisi dai partigiani che dopo si appropriano degli effetti personali, è una vera e propria caccia alle streghe molto ben orchestrata. In particolare verranno trovati i corpi di Veronica Rovella e della figlia Eralda Ferrero in un rio sulla strada che porta a Benevagienna, Reyneri Dott. Renato trovato nel Canale Bobbio, Bonardi Caterina trovata a galleggiare nel Tanaro a valle di Clavesana, anche il segretario comunale di Marsaglia è stato ucciso e sotterrato parzialmente ma prima di essere ucciso ebbe una violenta collutazione con uno dei partigiani che lo volevano assassinare e in effetti, strana coincidenza, il partigiano Roma dopo quel fatto portò per qualche tempo una vistosa fasciatura ad una mano.
Lina M. rimane per una decina di giorni al campo di Ghigliani poi, prosciolta da ogni accusa è rilasciata. Una volta libera manterrà la sua amicizia con la Rita Bonino. Ma l'occhiuta sorveglianza dei partigiani locali non si allenta, tanto meno le maldicenze della Liliana Grondona.
La sera del 17 dicembre 1944, due partigiani Mauri, Bracciale Antonio e Piras Giuseppe, si presentano armati alla abitazione dell Signora Lina M., le ingiungono di seguirli per conferire con il loro comandante , Enrico Martini.
La donna. In quel momento era sola, in quanto il piccolo Franco era al cinema del paese, indossa una pelliccia e li segue, per avere l'opportunità di spazzare via, una volta per tutte le maldicenze che la Grondona spargeva a piene mani su di lei.
Ma è un appuntamento con la morte, la povera Lina non farà più ritorno a casa dal suo bimbo di appena 5 anni.
Strada facendo si aggiunge un altro partigiano, Roma Vincenzo, Lina viene assassinata con un colpo d'arma da fuoco esploso alla tempia sinistra e avviene il 23 dicembre 1944, quindi sarà in balia dei suoi assassini per sei giorni
Il suo povero corpo, privo di vestiti, verrà solo più tardi, ritrovato il 17 gennaio 1944, in avanzato stato di saponificazione, in un rio, con le gambe legate da del fil di ferro collegato da un grosso sasso. Secondo alcune testimonianze quello è il secondo luogo di occultamento, perchè il primo sito dove viene immersa è un pozzo in una vigna, poi per ragioni ignote e note ai soli assassini verrà recuperato e gettato nel rio. La pelliccia che la donna indossava viene sottratta e pure i gioielli che portava non si trovano più, inoltre qualcuno si reca nell'appartamento dove lei viveva e sottrae una radio. E' omicidio che nulla ha che fare con la guerra.
Accadono alcuni fatti molto strani, i due partigiani , Bracciale e Piras, che hanno prelevato Lina e probabilmente l'hanno uccisa , decidono di “suicidarsi”, nel loro letto, in Frazione Mellea di Farigliano, accanto a loro le pistole, una delle quali inutilizzabile e un biglietto in cui uno dei due si dichiara pentito di quello che ha fatto.
Il terzo partigiano presente all'omicidio di Lina, Roma Vincenzo viene giudicato, in fretta e furia, dal Comando della I° divisione Langhe colpevole dell'omicidio del segretario comunale di Marsaglia, Pinto Roberto, fatto compiuto con tale Roberto, che però sfugge alla cattura e al giudizio, tanto da essere processato contumace.
Roma comunque il 24 gennaio 1945, è passato per le armi.
Tutti e tre i partigiani coinvolti nell'omicidio della povera Lina tacciono per sempre.
Il marito, Ferdinando, quando ad agosto 1945, torna dalla prigionia è sconvolto per la morte ingiusta della moglie, e inizia a indagare affiancato da un legale, suo compagno di prigionia, L'avvocato Pampaloni, si scontra con un muro di omertà.
La Grondona che nel frattempo è stata assunta dal comune di Carrù, continua a trinciare giudizi sulla defunta Lina , che non si può difendere.
Il tenente M. apprende da un ufficiale del Controspionaggio partigiano e da altri partigiani che la moglie era assolutamente innocente delle accuse che le venivano mosse e un certo Baricalla, responsabile del Contro spionaggio partigiano, invece, insiste nel dire che la moglie era sicuramente una spia dei repubblichini, poi evita in seguito di incontrare il Tenente M. che insisteva per avere ulteriori informazioni.
Per la cronaca Baricalla viene arruolato nei Carabinieri e svolge la sua attività alla Caserma di Pinerolo come scritturale. La morte della povera Lina viene definita spiacevole ma pur sempre eseguita su otdini superiori, di chi non è dato saperlo. L'avvocato che segue M. dopo aver fatto una disamina attenta delle carte e dei fatti conclude che non c'è spazio per una indagine istruttoria e neppure per un rinvio agiudizio dei responsabili di questo insensato omicidio inoltre gli omicidi della moglie sono stati messi nelle condizioni di non parlare più, il comando partigiano ha coperto l'omicidio della moglie definendola una spia fascista, fra i moventi c'è la gelosia di una donna ignorante, gelosa e abbietta oltre al risentimento di un partigiano respinto e desideroso di vendicarsi. Con il cuore straziato per la giustizia negata, Ferdinando continua a allevare il piccolo Franco pur senza mai raccontare quello che accadde in quegli anni lontani alla sua povera mamma.
Raccoglie tutto il materiale documentale nel faldone marrone che custodisce gelosamente senza mai mostrarlo al figlio.
L'odio insensato di una donna e di un gruppo di partigiani ha ucciso una creatura meravigliosa bella fuori e dentro e soprattutto la verità e la giustizia non hanno trionfato.
Guardo l'orologio che ho al polso e mi accorgo che sono passate due ore senza che me ne accorgessi, Franco di fronte a me, ha gli occhi lucidi e io pure, prima di andarsene mi racconta solo un ultimo particolare che galleggia nella sua mente , mio padre mi vietò sempre di andare a Carrù, senza dirmi il motivo, quando lessi il contenuto del faldone, compresi il perchè, alcuni dei suoi abitanti ebbero le mani lorde di sangue anche di sua madre oppure si girarono dall'altra parte quando lei venne presa dai suoi boia.
Roberto Nicolick








domenica, ottobre 28, 2018

L'eccidio di Noasca

L'eccidio di Noasca
Noasca è un piccolo centro abitato nella Valle dell'Orco, fra i monti del Gran Paradiso, posto a 1065 m.s.l.m. ha circa un centinaio di abitanti, in questo paese si consumò un eccidio di tre persone, una signora anziana ,  Laura Rava vedova settantenne del Notaio Roscio  e i suoi due nipoti di appena 16 e 18 anni, Giovanni e Maria Antonietta, tutti e tre di Locana , Torino. Queste tre persone furono prelevate da quattro partigiani di una divisione alpina partigiana del Canavese, i quali si comportarono con ferocia e spietatezza nei loro confronti. Era mezzanotte del 24 settembre 1944, quando la pattuglia di assassini arrivò alla casa dei Roscio, svegliarono la signora e i due nipoti, al ragazzo di sedici anni  subito gli spararono un colpo di pistola in viso uccidendolo sul colpo, poi dopo aver preso una borsa con oro, denari e titoli nominativi, trascinarono la signora e la ragazza su per il sentiero che porta al bacino della diga di Teleccio, era buio e il sentiero era difficile quindi i partigiani dovettero sorreggere la anziana signora. Il ragazzo prima di essere ammazzato  riuscì a scrivere un biglietto per la madre, che per sua fortuna era a Torino, nel biglietto il giovane scrisse che erano venuti i partigiani a prelevarli per interrogarli e li avrebbero portati a Ribordone a circa mezzora di auto, in realtà il biglietto contribuì a ritardare il ritrovamento dei corpi, in quanto i partigiani portarono le due donne in direzione opposta. Giunti al bacino della diga uccisero la vedova, la spogliarono dei vestiti e degli effetti personali e la gettarono nel canale di Rosone annesso alla diga,  poi trascinarono la ragazza sino ad una baita in località Roch. E' intuibile le infamie  che la ragazza dovette subire, quello che i partigiani definisco un "interrogatorio", in realtà la povera diciottenne fu sicuramente stuprata a turno dai quattro criminali. Il giorno successivo dopo aver fatto i propri comodi la portarono in basso verso al diga, qui la assassinarono spaccandole il cranio con il calcio del fucile indi gettarono anch'essa nel bacino della diga. La madre dei due giovani e figlia della vedova, Letiza Rava per settimane cercò angosciata i suoi parenti per tutti i paesi e le valli della zon ama nessuno seppe o volle dirle nulla. Anzi gli assassini dei suoi cari per tacitarla giunsero al punto di arrestarla.Le indagini successive portarono alla identificazione dei due principali assassini, tali Antonio Rossin e Mario Marocco, entrambi di 26 anni, senza occupazione, e di altri due non meglio identificati partigiani Veneti mai fermati o arrestati. Nel corso del processo presso la Corte di Assise di Ivrea nell'aprile del 1947,  i due imputati si difesero dicendo che compirono le esecuzioni sommarie in quanto i tre erano spie al soldo dei Fascisti pertanto loro consideravano questo eccidio inumano e bestiale come un atto di guerra. Negarono il furto dei valori e dei titoli, negarono lo stupro di Maria Antonietta,affermarono di aver agito in piano accordo senza avvisare i loro superiori.Al processo si presentò come parte civile la signora Rava che affermò che in seguito trovò la borsa con i titoli nominativi e le chiavi di casa all'interno della abitazione, i titoli infatti non potevano essere cambiati in denaro se non dall'intestatario che era stato assassinato.Il processo turbato dalla presenza minacciosa di molti partigiani si concluse con uno sfregio alla giustizia e alla verità: i due imputati furono assolti dalla imputazione di rapina aggravata per insufficienza di prove e si ebbe il non luogo a procedere per il sequestro di persona e il triplice omicidio per soravvenuta amnistia. Al di fuori del tribunale un gruppo di compagni li attese per festeggiare la sentenza.

mercoledì, ottobre 24, 2018

grazie alla Civetta




Ringrazio la Professoressa Barbara Spadini per lo spazio che concede su il periodico LA CIVETTA da tempo, ai miei umili articoli. E' un vero onore occupare anche se modestamente le pagine di questa rivista.

atti di morte della famiglia Turchi


Atti di morte della famiglia Turchi
Questi che ho postato sono gli atti di morte dei componenti la famiglia Turchi, Flaminio , sua moglie Caterina Carlevarino e le giovani figlie Giuseppina, Maria Benedetta e Giovanna Pierina. Un gruppo di assassini armati, pare almeno cinque ma non ci sono conferme, salì la notte del 12 maggio 1945, su per Via Ciantagalletto, una stretta strada che porta ad una collina Savonese e arrivato al civico 44 fece irruzione nella casa colonica dove la famiglia Turchi viveva.
Fu uno degli eccidi più crudeli che si ricordano nella storia di Savona, e ce ne furono molti altri, e come gli altri, una strage inutile, compiuta su persone indifese e sorprese nella loro intimità famigliare.
Soffermandoci sui documenti redatti dal Parroco di San Dalmazio, Don Pino Cristoforoni, si leggono i dati anagrafici e soprattutto alla voce , munito dei Sacramenti, barrata con un tratto di penna, si legge “assassinato da sconosciuti”, a tutt'oggi non si conosce l'identità di questi “sconosciuti”.
Ma si capisce benissimo l'ambiente dove è maturata questa strage, i Turchi erano considerati benestanti e Fascisti, una accoppiata molto pericolosa in quei tempi, pochi giorni prima due delle figlie di Flaminio Turchi, avevano subito il taglio dei capelli nella piazza di Lavagnola e una vecchia nonnina del quartiere rosso, M.V. mi ha detto che il suo vicino, morto da poco, le mostrava spesso le forbici da parrucchiere con cui , a suo dire, avrebbe devastato la chioma delle due giovani figlie di Flaminio, il quale sconvolto per quel gesto infame , andò a protestare al C.N.L. Dopo pochissimi giorni l'intera famiglia fu soppressa.
Sempre la stessa anziana signora mi ha comunicato il nome del cane della casa, anch'esso ammazzato , la povera bestia si chiamava Morris. Questi criminali non amavano i Cristiani e neppure gli animali.







domenica, ottobre 21, 2018

La strage della famiglia Turchi maggio 1945, località Ciatti, Savona



La strage della famiglia Turchi in località Ciatti
13 maggio 1945

Fu una strage di una famiglia, la famiglia Turchi, i cui responsabili non furono mai identificati. La famiglia Turchi aveva un orientamento politico vicino alla RSI, ma non erano combattenti, non erano delatori, erano semplicemente una famiglia normale come ce ne sono tante in allora e adesso che abitava un casolare con del bestiame e dei campi coltivati con cui la famiglia viveva.
C'era un padre di 65 anni, Flaminio Turchi, la moglie Caterina Carlevari di 48 anni e le giovani figlie, Giuseppina, detta Pia, di anni 25, Pierina di 23 e la più giovane Maria di 20. I Turchi erano benestanti, anche per questo la famiglia era nel mirino da tempo, subito dopo la liberazione, le due ragazze più giovani, erano state sequestrate dai partigiani e sottoposte al taglio coatto dei capelli, la classica pena per le donne accusate di aver collaborato con i fascisti.
Per questo gesto di prepotenza, il padre delle ragazze, Flaminio Turchi , uomo diretto e deciso, si recò alla sede del CNL e protestò per la prepotenza gravissima che le sue ragazze avevano subito
Si trattava di una cascina isolata, abbastanza grande, che dava da vivere alla famiglia Turchi, era localizzata sulle colline nord di Savona, in località Ciatti.
Secondo alcune voci, cinque assassini arrivarono ai Ciatti, la notte del 13 maggio 1945, irruppero nella casa, e fecero la strage, che ha analogie molto, troppo precise, con quella della famiglia Biamonti, avvenuta pochissimi giorni dopo, i cui responsabili furono però individuati, rinviati a giudizio e condannati.
Decine di pallottole di mitra furono sparate in uno spazio ristretto della cucina. Dopo qualche ora, all'alba, Maria fu trovata dagli operai delle funivie nel mezzo del bosco accanto alla cascina dei Turchi, morta dissanguata dove si era trascinata, lontano dalla mattanza.
Gli altri componenti la famiglia furono rinvenuti all'interno della cucina, nel cortile della casa c'era anche il cane della famiglia ammazzato anch'esso, forse aveva cercato di azzannare gli aggressori dei suoi padroni, è evidente la matrice politica dei killer che compirono questo ennesimo eccidio, partigiani comunisti.
Ipocrita fu l'atteggiamento della polizia ausiliaria partigiana che prese solo atto dell'accaduto.
E' molto probabile che gli assassini dei Turchi fossero un gruppo di fuoco, coordinato o vicino a quello che sterminarono i Biamonti di Legino.
Ci fu un seguito alla strage, come con i Biamonti, la casa dei Turchi fu depredata di ogni bene, denari, ori e abbigliamento.
Il parroco di Lavagnola di quegli anni, Don Pino Cristoforoni, appena seppe dell'accaduto, salì ai Ciatti, dove benedisse i corpi delle vittime , quindi li fece raccogliere e caricare su di un carretto, per trasportarli al campo santo di Zinola.
Lungo la strada che è in discesa nelle adiacenze di Corso Ricci, il cadavere della ragazza più giovane, Maria, sballottato dagli scossoni, pendeva in modo scomposto dal carretto, con il capo ed un braccio che erano trascinati sulla strada, una signora che era li accanto con la figlioletta di pochi anni, la signora P. si avvicinò e dopo aver fatto fermare il mezzo, riordinò in modo dignitoso il corpo della povera ragazza.
Mentre dava seguito a questo suo gesto di pietà, arrivò un uomo, dall'aspetto ripugnante, che la spinse via minacciandola con grevi parole. La figlia della donna, che fece in seguito l'insegnante, non dimenticò mai questa scena, l'atteggiamento di questo energumeno e l'odio che traspariva dai suoi gesti. La donna spaventata ed indignata, si allontanò dal carretto che proseguì con il suo mesto carico. La casa dei Turchi, conservò per qualche decennio i segni delle pallottole sulle pareti interne, poi fu abbattuta e al suo posto venne costruita una palazzina più recente.

Roberto Nicolick

giovedì, ottobre 04, 2018

la strage di Schio


La strage di Schio
6 – 7 luglio 1945

Nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945, si consumò a Schio una strage ad opera di partigiani comunisti e poliziotti ausiliari, nella quale furono assassinati, ben 54 prigionieri e 17 furono feriti, uomini e donne, la più giovane delle vittime fu una sedicenne, va registrato a onor del vero che solo una parte dei caduti erano connessi in qualche modo alla Repubblica, molti di loro erano stati incarcerati per errore e stavano anche per essere liberati, ovviamente con la classica lentezza burocratica che contraddistingue l'Italia di allora e quella di oggi.
Comunque la guerra era finita da un pezzo, quasi 90 giorni, ma nonostante questo, la strage si consumò con una ferocia disumana scegliendo come bersagli prigionieri indifesi benchè tutelati dalle autorità alleate che in effetti avevano in animo di sottoporli ad un regolare processo che poteva anche concludersi con una assoluzione dalle imputazioni.
Tra i 99 detenuti c'erano 8 comuni, 25 donne, cinque appartenenti alle BBNN, tre agenti della polizia ausiliaria fascista, tre ragazze del SAF, 34 persone definite genericamente come fascisti o simpatizzanti, c'erano ragazzine di 17 anni, donne in stato di gravidanza, madri e figlie, sorelle, padri e figli, anziani ultrasettantenni, il primario dell'ospedale di Schio Arlotta, il commissario prefettizio Vescovi, esponenti di rilevo della RSI, Plebani, Tadiello, Domenico e Isidoro Marchioro, Capozzo, una ragazza di 16 anni Anna Franco, un reduce dell'ARMIR Calcedonio Pillitteri, l'ex podestà di Torrebelvicino Antonio Sella, Giuseppe Stefani e altri gregari della RSI.
L'eccidio ebbe luogo presso la sede del tribunale e del carcere di Schio, una palazzina stile Liberty situata nel centro di Schio, i detenuti vi erano ammassati in due celle al primo piano e in uno stanzone al secondo piano e fu compiuta a colpi di armi automatiche, fucili mitragliatori e una mitragliatrice.
Nei giorni precedenti la fine della guerra la zona di Schio e il Vicentino tutto, erano state teatro di aspri scontri tra le formazioni militari della RSI i Tedeschi e le Brigate partigiane comuniste che erano collegate ai partigiani Titini, noti questi ultimi per il loro odio atavico verso gli Italiani.
Il terreno di coltura di questa strage era già bello pronto, era solo questione di tempo. In quel periodo era presente a Schio un CLN che non aveva alcun potere decisionale sulle forze partigiane , a parte gli Alleati , sul territorio era stata operativa, durante la guerra, una brigata partigiana comunista, la Ateo Garemi, che nonostante ci fosse stato l'ordine alleato di consegnare le armi, le deteneva ancora in previsione di un loro futuro uso, cosa che avvenne puntualmente.
I due capi partigiani, Igino Piva e Valentino Bortoloso, Romero e Teppa un soprannome che è tutto un programma, con un reparto della succitata brigata partigiana, arrivano al carcere di Schio, alle 23 della notte del 6 luglio 1945 armati sino ai denti e soprattutto mascherati, in diversi modi per non essere identificati, chi con un fazzolettone, chi con una maschera antigas, chi con una rete sul capo da cui pendevano dei rametti di piante chi con un cappellaccio calato sul viso, tutti in abiti borghesi.
Non hanno alcuna lista di proscrizione, solo una ferma volontà di fare piazza pulita degli “odiati fascisti”, si trovano di fronte a 99 prigionieri. Nel gruppo dei partigiani nascono accese discussioni sul numero dei prigionieri da “giustiziare”e soprattutto sul chi .
Dopo un'ora di dibattito, alcuni in disaccordo se ne vanno, altri, quelli più biechi e ottusi, vanno sino in fondo nella loro infame azione, e in spregio alle leggi umane e di guerra, i boia decidono in obbedienza alle direttive ricevute, di ammazzare anche le donne.
Donne che non avevano mai preso parte alle azioni militari della RSI, al contrario erano studentesse, casalinghe, ma purtroppo per loro, mogli o fidanzate di Fascisti, questa la loro unica colpa, i tristi e feroci assassini ne uccisero 14, tutte assolutamente incolpevoli.
Inizialmente i detenuti, soprattutto quelli che avevano esperienza militare cercarono di puntellare le porte delle celle ma vennero abbattute dai boia, non tutti subito capirono quello che stava per accadere perchè inizialmente i banditi dissero di stare tranquilli in quanto si trattava solo di un trasferimento, ma dopo pochissimo tempo, tutti capirono che era una esecuzione sommaria multipla. La disperazione e il terrore afferrò tutti i prigionieri.

Alle 0.15, dopo essere entrati in tutti i locali, dopo aver fatto una selezione delle vittime da abbattere, dopo aver spianato le armi i poliziotti ausiliari partigiani e i partigiani comunisti, che poi erano la stessa sordida cosa, iniziarono a fare il tiro al bersaglio, a bruciapelo, contro i prigionieri che erano assiepati nelle celle, in piedi e in attesa spasmodica della loro sorte, in quella posizione non potevano sottrarsi alle pallottole. Anche il tiratore più scarso tra i partigiani non avrebbe potuto fallire. I bersagli erano il toraci, le gambe, le braccia, in una frenesia omicida.
Per diversi minuti , le armi degli assassini crepitarono, a decine i poveretti caddero prima feriti e poi finiti dal tiro incrociato, subito caddero le prime file poi quelle successive in un terrore senza fine. c'era sangue ovunque e l'odore della cordite impregnava l'aria dei locali, le pareti, gli infissi, i pavimenti erano tutti lordati dal sangue delle vittime.
Quando dopo circa un'ora i soccorsi arrivarono trovarono decine di corpi ammonticchiati nelle celle, e ogni tanto si udiva un flebile lamento, erano i feriti che erano sopravvissuti alle raffiche, nascondendosi sotto i cadaveri dei loro compagni di sventura.
Fu, per le modalità con cui venne compiuta, una delle stragi più efferate che avvenne nel periodo di pace relativa che seguì il periodo post insurrezionale.
Una volta tanto le forze alleate non restarono inerti, il 13 settembre 1945 la Corte Militare Alleata giudicò e condannò a morte i partigiani Renzo Franceschini, Valentino Bortoloso e Antonio Pochesato, all'ergastolo i partigiani Aldo Santacaterina e Gaetano Canova, molti di questi fuggirono in Yugoslavia ed eviarono i rigori della giustizia alleata.

Nel 1952 a Milano altro processo per i mandanti e gli esecutori dell'eccidio, alla sbarra sono : Ruggero Maltauro ex capo della polizia ausiliaria partigiana a Schio ed espatriato presso il compagno Tito subito dopo la strage, Giovanni Broccardo, Italo Ciscato, Narciso Manea, Andrea Bruno Micheletto, Gaetano Pecoraro, Igino Piva e Bruno Scortegagna.
Il processo che ebbe grande risonanza si concluse con la condanna all'ergastolo per tutti gli imputati tranne che per Bolognesi e Sterleche che presso la Corte di Assise di Vicenza furono prosciolti , il primo per insufficenza di prove e il secondo per non aver commesso il fatto.

Fermo restando che i morti, una volta tali, hanno diritto a rispetto e giustizia, i poveretti che persero la vita nel carcere di Schio non ebbero ne l'uno ne l'altra, ancora oggi non si conoscono i nomi dei mandanti e di tutti gli esecutori.
Robert Nicolick

Questo articolo è stato scritto su richiesta specifica di Caterina Ratta.






mercoledì, ottobre 03, 2018

la strage di Stellanello 10 giugno 1944


La strage di Stellanello
10 giugno 1944
Stellanello è un piccolo comune della provincia di Savona, a metà strada tra il mare e l'alta via dei monti Liguri, il 10 giugno del 1944 fu teatro di un eccidio di un plotone di giovanissimi militari , tutti al di sotto dei 20 anni, che vestivano la divisa della G.N.R. Appartenente al IX Battaglione Genova, si tratta di 18 ragazzi con armi individuali e del loro comandante un sottotenente , Filippo Mugavero.
Il plotone era in zona in attività di perlustrazione, viene circondato da numerosi gruppi di partigiani e dopo un breve scontro a fuoco, si arrende. In condizioni normali i prigionieri sarebbero trasferiti ad un campo di prigionia ma la banda partigiana che li ha presi ha bel altro in mente. I prigionieri dopo essere stati depredati dei loro effetti personali sono condotti con una marcia forzata in località Pian di Bellotto, qui intorno a mezzogiorno del 10 giugno, dopo essere stati privati delle uniformi, delle scarpe e persino della biancheria, vengono passati per le armi, contro ogni più elementare norma militare e soprattutto umana.
Molti abitanti del luogo si ricordano ancora oggi, a distanza di anni, di quella colonna di prigionieri visibilmente impauriti che camminavano lungo il sentiero che li conduceva alla morte, in particolare molti di loro avendo capito quello che stava per accadere gridavano ai partigiani di risparmiare loro la vita, ma i boia furono irremovibili.
L'ufficiale che guidava il plotone dei giovani soldati, Mugavero, ferito ad un braccio da cui perdeva sangue in modo copioso, non ebbe nessuna cura medica, cosa che avviene da parte di tutti gli eserciti, anch'esso venne trascinato davanti alla canna dei mitra dei carnefici, cercò in tutti i modi di rendere più pietoso questo terribile momento, chiese i conforti religiosi per sé e i suoi soldati, ma i partigiani gli risposero che non avevano tempo da perdere.
Dopo aver raggiunto il luogo della strage, tutti i 19 militari vennero assassinati e sepolti in una fossa comune. Non si capì mai le ragioni di quest'odio feroce e irragionevole che armò le mani dei partigiani.
Il sottotenente Mugavero era un Cattolico praticante e aveva guidato il suo plotone sempre con grande umanità e nel rispetto delle popolazioni locali, non aveva mai ecceduto, forse si era imbattuto in un gruppo di feroci assassini che godevano a spargere sangue di repubblichini.
A distanza di un anno il fratello e la sorella del tenente Filippo Mugavero, riuscirono grazie all'aiuto di un contadino che aveva posto una grossa pietra a segnare la fossa, a ritrovare il luogo.
Lo scavo portò alla luce solo irriconoscibili ossa e nient'altro, ossa a cui fu molto difficile dare un nome e distinguerle l'una dalle altre.
A conforto dei parenti fu la testimonianza che il capo dei boia aveva fatto al parroco di Stellanello , quando Filippo Mugavero ebbe la certezza della morte imminente, abbracciò uno per uno i suoi militari esortandoli ad avere fiducia in Dio e a cadere da uomini, espresse parole di perdono ai suoi carnefici poi si aprì la camicia offrendosi alle pallottole , gridando “Viva l'Italia”.

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