L’uomo
che siede fronte a me, ha gli occhi azzurri stanchi e oramai senza
lacrime, i capelli sono bianchi con sfumature di grigio, le mani
forti e nodose di chi ha sempre lavorato, Luciano Granese,
Classe 1932, mi racconta con voce ferma la tragica storia
di sua madre, Battistina Puggioni detta Tina, una delle tanti morti
rubate nel periodo oscuro della Guerra Civile che attraversò
l’Italia Settentrionale come un ciclone di odio.
Battistina,
nativa di Cagliari nell’agosto del 1913, era una giovane e
bella donna di poco più di trent’anni, sposata con un uomo che in
seguito l'aveva lasciata .Lei abitava con tre figli che
dipendevano esclusivamente dalle sue braccia, infatti essendo sola ,
era costretta a lavorare per mantenersi e per dare da mangiare ai
suoi piccoli figli. Tina, come la chiamavano confidenzialmente in
paese, faceva la cuoca presso la mensa della Divisione San
Marco, che serviva la guarnigione repubblichina di Cairo Montenotte e
di Altare. La donna non aveva assolutamente idee politiche, era solo
una lavoratrice che lottava per la sopravvivenza della propria
famigliola, visto che il marito non era più con lei. Ma in quel
periodo oscuro lavorare per le truppe Fasciste Repubblicane suonava
come una condanna a morte
Ad
aprile del 1945 intorno alle 21, in una serata piovosa, un
gruppo di partigiani armati sino ai denti, Italiani e anche
stranieri, Slavi, circondano la palazzina , situata in località
Vispa di Carcare, salgono sino al secondo piano, bussano all’ingresso
della abitazione di Battistina Puggioni.
La
porta viene aperta dal figlio più grande, un ragazzino di tredici
anni, proprio l’anziano signore che mi sta raccontando la vicenda,
Luciano schiude l’uscio ed entra di prepotenza uno dei partigiani,
il quale ingiunge alla giovane madre si seguirli, per essere
sottoposta ad interrogatorio presso il loro comando. Il piccolo
Luciano è impaurito mentre osserva sua mamma indossare un
cappottino per uscire con quegli uomini, che lui non conosce, nella
notte buia e piovosa. Mentre sta uscendo, la donna, con grande senso
di autocontrollo, si rivolge a Luciano che vorrebbe seguirla e
accarezzandogli teneramente il viso li dice poche parole per
rassicurarlo : “ io vado e torno, mi raccomando fai il bravo”.
Nessuno dei tre piccoli rivedrà più la loro povera mamma che si
allontana nella notte con i partigiani armati. Uno di loro, si
rivolge a Luciano e gli intima di rientrare in casa e di non uscire
per almeno due ore.
Evidentemente
i sequestratori di Battistina Puggioni non volevano che il ragazzino
vedesse dove portavano la loro madre, il piccolo non si spaventa ed
esce ugualmente , sfidando il divieto, fa appena in tempo a vedere
su a madre circondata dai suoi carnefici che si allontana , verso il
bosco, su un sentiero scarsamente illuminato.
Il
gruppo armato trascina la loro prigioniera lungo il viottolo nel buio
della notte e raggiunse Pallare evitando le strade battute dagli
automezzi, lungo la strada compie una sosta per la notte, in una
locanda, in località Fornelli , sempre nella zona di Pallare.
Nell'osteria, il gruppo di partigiani rimase solo con la
prigioniera, per tutta la notte. Non è molto chiaro di quello che
accadde e e non vi sono testimoni diretti, ma la padrona della
trattoria con alloggio, dove il gruppo fece sosta, raccontò
terrorizzata, a Luciano, che per tutta notte sino all’alba, fu
costretta a sentire i lamenti della Battistina e le sghignazzate dei
suoi carcerieri.
Si
può supporre, senza ombra di dubbio, che la sventurata subì uno
stupro di gruppo. All’alba il gruppo armato riprese il suo cammino
e raggiunse la zona denominata Fornelli, si inoltrò in una vasta
abetaia, nota come Tre abeti, e uccise con un colpo alla nuca la
sventurata, che venne anche derubata di un anello, di un braccialetto
e dell’orologio. Quella zona era usata abitualmente per sotterrare
le vittime delle esecuzioni sommarie di questi banditi.
Il
povero corpo martoriato, fu sepolto in una fossa scavata accanto al
luogo dell’esecuzione, tra gli alberi della gigantesca foresta di
abeti, dove era impossibile trovarla. Questo fu quello che
qualcuno di questi briganti si lasciò sfuggire davanti a qualche
bicchiere di vino di troppo, ad un tavolo di osteria.
Luciano
che era un ragazzino coraggioso, nei giorni seguenti vagò come un
disperato nell’abetaia alla ricerca del corpo di sua madre, chiese
a tutti i partigiani dei reparti che erano in quel territorio,
senza ottenere alcuna informazione utile sul luogo dell'occultamento,
gli abitanti della zona avevano tutti la bocca cucita per paura di
fare la stessa fine. Qualcuno gli disse che la condanna a morte era
stata decretata da un tribunale partigiano di Genova, qualcuno gli
raccontò che il colpo mortale fu sparato da un partigiano straniero,
forse un polacco , insomma fu un depistaggio per distrarre il povero
ragazzino che era distrutto dal dolore per una cosa che non capiva e
che non meritava.
Fu
la solita esecuzione sommaria che nulla aveva a che fare con la
Resistenza , come ne avvennero molte nel corso della Guerra
Civile che insanguinò il Nord Italia e in particolare le zone
pedemontane della Liguria, dove qualsiasi omicidio e ruberia veniva
catalogato come atto contro il tedesco invasore, solo che in questo
caso una povera madre di tre figli era stata assassinata dopo tutta
una serie di violenze. Ad aggravare il dolore di Luciano rimane il
fatto che il marito di Tina, nonché suo padre, era di fede comunista
e molto vicino se non addirittura sodale degli assassini con la
stella rossa, che ammazzarono la povera Battistina.
A
Carcare, tutti tacevano e si guardavano bene dal parlare con il
ragazzino della morte della madre e soprattutto del luogo dove era
stata seppellita la madre. Appena potè il ragazzino si recò al
Comando partigiano a Savona che addirittura negò la presenza di
formazioni partigiane nella zona dove avvenne il fatto, era come
scontrasi con un muro di gomma.
Per
anni, Luciano Granese, ebbe come scopo della sua vita le ricerche del
corpo della mamma senza mai trovare nulla.
Sono
passati quasi settant’anni e il corpo della povera Battistina non è
stato mai rinvenuto, nonostante le disperate indagini di Luciano che
oramai ha ottanta anni, stanco e malato, ma vivendo sempre quel
grandissimo dolore, è incessantemente alla ricerca di sua madre e
non demorde, anche se sa che i responsabili sono tutti morti e spera
sempre in una risposta, magari da parte dei figli degli spietati
assassini. Tutto quello che rimane nelle mani di Luciano è una foto
stinta e consunta della madre e un documento del Ministero della
Difesa Esercito – Commissariato Generale Onoranze ai Caduti, in cui
si fa riferimento alla madre definita “civile morto per
rappresaglia partigiana” “ ancora oggi sepolta in Località
Fornelli di Pallare”.
Spesso
Luciano, transita davanti alla grande abetaia di Fornelli , che in
qualche punto, fra le zolle, conserva ciò che resta di sua madre ,
che lui tanto ha cercato, allora l’uomo curvo per gli anni e per il
dolore, sosta qualche minuto in preghiera, immaginando che lei lo
possa sentire e trovare finalmente la pace dopo tanta sofferenza.
Ora
Luciano ha trovato una persona gentile, una donna che lo ascolta con
grande umanità, e vuole scrivere un libro su questa vicenda,
mettendo nero su bianco i fatti e soprattutto il dolore che ha
accompagnato giorno dopo giorno i passi di questo ex ragazzino che
vuole ancora oggi, trovare una tomba su cui pregare e posare un
fiore.
Roberto
Nicolick
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