martedì, dicembre 29, 2015

L'eccidio della famiglia Fucione a Stella Santa Giustina

Bernardo Fucione,  Caterina Patrone,  Oreste Fucione
Località Campasso, Stella Santa Giustina ( Savona)
21 giugno 1925
Bernardo Fucione di anni 56,  la moglie Caterina Patrone di anni 40,  e il piccolo figlio Oreste di appena 12 anni, si guadagnavano da vivere facendo gli  agricoltori,  abitavano una piccola cascina in località Campasso a poca distanza dall’abitato di Stella S. Giustina. L’intero nucleo famigliare venne sterminato in pochi minuti intorno alle 12,30 . Fu una strage compiuta a colpi di roncola o di accetta ,  il primo corpo ad essere trovato è quello del  capo famiglia, Bernardo, che ha tentato di fuggire lungo un sentiero che scende al paese ma è stato inseguito e raggiunto e colpito ripetutamente e lasciato in una pozza di sangue, poi è stata rinvenuta  la moglie, ammazzata in casa, al primo piano in camera da letto e abbattuta anch’essa, con  diversi colpi di accetta, poi il figlio, il piccolo Oreste, il quale  deve aver sentito le urla della donna e probabilmente ha tentato la fuga ma anch’esso ha fatto poca strada, raggiunto e ammazzato sempre con la stessa arma poi abbandonata accanto al corpicino, rossa di sangue sino alla metà del manico.
Alcuni contadini dopo aver rinvenuto i tre cadaveri corsero ad  avvisare i Carabinieri che accorsero sul posto  in seguito  piantonato dai soldati che sono di guarnigione al Forte del Giovo sino all’arrivo del magistrato. C’è una coincidenza inquietante, nello stesso paese qualche mese prima, un contadino fece la stessa orrenda fine della famigliola Fucione, nella stalla della sua casa colonica solo la moglie  riuscì ad avere salva la vita fingendo di non conoscere l’omicida che invece le era ben noto. 
Due ragazzini Faustino e Pierino Pescio, amici di giochi dell’Oreste, sono gli unici testimoni oculari del pluri omicidio , affermarono che mentre erano sul versante della collina di fronte alla cascina, di aver inteso delle urla disperate e di aver quindi visto Oreste correre disperatamente inseguito da un uomo armato di  una scure. Essi riconobbero nell’inseguitore tale  Luigi Frecceri, infatti gridarono all’indirizzo dell’inseguitore < è Luigi è Luigi !> ma nonostante fosse sicuro di essere stato riconosciuto, non desistette dall’inseguimento, anzi li minacciò da lontano agitando la scure verso di loro.
Luigi Frecceri, un trentenne forte e robusto, era il nipote di Caterina,  frequentava assiduamente la casa dei Fuscione. Uomo molto solitario e di carattere chiuso, non aveva mai avuto una fidanzata, emigrato in Nord America, aveva soggiornato qualche anno in California e poi con i soldi guadagnati, era tornato a Santa Giustina comprando un casolare a circa 200 metri dalla abitazione dei Fuscione dove abitava da solo, lontano dai suoi fratelli con cui non aveva rapporti. Da una delle ricostruzioni dei Carabinieri, Frecceri intorno alle 12 di quel giorno fosse a casa della zia, di cui era appunto assiduo e con cui aveva iniziato una animata discussione, nella camera al primo piano, forse il confronto ha preso una brutta piega e Freccero ha colpito la donna con l’accetta alla guancia e al braccio destri, quasi recidendo di netto la mano dal polso, il colpo successivo lo calò sul  capo abbattendo la donna. Il marito era nella stanza attigua che si radeva con un rasoio, sentendo l’accaduto entrò nella stanza da letto e con quello strumento affrontò il nipote ferendolo al viso, ma ebbe la peggio e tentò di fuggire da basso per le scale, inseguito dall’assassino che lo raggiunse in fondo al sentiero e lo colpì ripetutamente alla nuca  sino ad ucciderlo. Il piccolo Oreste aveva visto tutto, bloccato dal terrore, appena vide l’assassino puntare verso di lui provò a scappare ma venne raggiunto dalle lunghe falcate dell’uomo e colpito alla tempia, alla guancia e al viso che si aprì in due parti. Poi  Freccero posata la scure, fuggì nel bosco verso la sua abitazione, questa è la versione ufficiale del fatto anche se ce ne furono altre non suffragate da elementi probanti.
I bimbi che assistettero al macello di Oreste diedero l’allarme in paese ai contadini che corsero a portare soccorso, inutilmente , infatti i tre corpi erano devastati, e ai Carabinieri che iniziarono subito le ricerche di Frecceri. Fu rastrellata tutta la zona, anche una miniera venne ispezionata senza trovare nulla. Il giorno successivo , una pattuglia di Carabinieri di Stella S. Giovanni trovano il cadavere dell’assassino che galleggiava in laghetto denominato Gotto, morto da ore. L’orologio era fermo alle 13, quindi la morte risaliva a mezzora dopo la strage, anche in questo caso non si appurò se fosse stato un suicidio oppure una caduta incidentale finita in un annegamento.

Roberto Nicolick

martedì, dicembre 22, 2015

il triplice omicidio di Giustenice

Il triplice omicidio di Giustenice
29 giugno 1991
Giustenice ( Savona )
Angelo Vitali 47 anni, Magda Milanese 51 anni, Giovanni Corongiu 35 anni.
Questa strage è avvenuta per le solite, piccole, discussioni che nascono tra proprietari di terreni e case confinanti, liti all’inizio non di grande rilievo, ma che col tempo e con la scarsa disponibilità a mediare portano, come in questo caso ad una escalation di violenza cieca da una sola parte, che tende a sopraffare la controparte. 
Il fatto accade a Giustenice,  un piccolo comune, montano, sparso sul territorio,  della Provincia di Savona, che non supera i 900 abitanti, l’economia è prevalentemente agricola. Salvatore Boasso di anni 61, che in passato ha fatto il guardiacaccia è proprietario di alcuni terreni, in quella zona,  dove sono sorte delle case agricole. Ne vende una , Villa Alice, ad una famiglia proveniente dalla provincia di Genova,  i Vitali, nella persona di Angelo un imprenditore che gestiva la GEFI, una immobiliare di Savona, e della stessa moglie Magda Milanese,  titolare della COMITER una società che commercializzava lavori di oreficeria, la coppia ha una figlia di 23 anni, Luisella. Si tratta di una famiglia tranquilla e per bene che cercano una casa immersa nel verde e lontano dal traffico cittadino.
Tra Boasso e i Vitali, nasce una controversia in merito ad una stradina che passa davanti a Villa Alice, strada che veniva utilizzata dal Boasso per raggiungere i campi da coltivare e che i Vitali volevano deviare per poter liberare dei cani di grossa taglia da guardia, nel terreno prospiciente la casa. La contesa andava avanti da tempo e contribuiva ad esacerbare gli animi. In particolare chi era maggiormente polemico e scarsamente incline a mediare, erano i due capifamiglia: Salvatore Boasso e Angelo Vitali.
Nella serata  sabato 29 giugno 1991, dopo tutta una serie di contrasti sempre più estremizzanti, Salvatore con il figlio Bruno di 29 anni mentre transita alla guida di  un motocarro sulla stradina sfiora  rischiando di travolgere il Vitali, con cui iniziano a litigare, i Carabinieri chiamati non possono intervenire, perché impegnati in un altro intervento di maggiore rilevanza, se fossero intervenuti, molto probabilmente con la loro semplice presenza avrebbero scongiurato il seguito della lite.
Secondo la testimonianza della figlia, Luisella Vitali, unica superstite della strage, il Boasso perso il controllo stava per colpire con un bastone il Vitali alle spalle,  lei corre in difesa del padre e inizia una colluttazione con l’aggressore, nel corso di questo scontro  il parabrezza del motocarro, viene colpito da un’asse e  va in frantumi. Mentre il giovane Bruno Boasso continua a discutere con i Vitali, suo  padre, Salvatore,  si allontana per raggiungere la sua abitazione, e torna in auto, questa volta armato di una doppietta caricata a pallettoni.
Da quel momento inizia la follia:   urlando punta l’arma e  spara a Luisella, la figlia di 23 anni studentessa universitaria che crolla a terra, gravemente ferita,  lei si finge morta, da terra riesce a seguire con lo sguardo tutta la strage. Vede il Boasso che spara altri colpi in rapida successione, ai suoi genitori che cadono a terra in una pozza di sangue rantolando,  l’assassino quindi punta l’arma contro Corongiu, il fattore che era presente per sedare la lite, e lo colpisce prima alle gambe e poi lo finisce con un’altra scarica . Quindi Boasso spara un’altra fucilata agli arti inferiori di Luisella, che continua a fingersi morta, trattenendo il respiro tra atroci dolori. Poi l’ex guardiacaccia spara tre colpi contro la porta della villa dei Vitali, si affaccia all’interno, ma non scorge nessuno  e torna a casa con il figlio Bruno, che comunque non ha fatto nulla per fermare la follia omicida del padre. Salvatore non sa che dentro, nascoste ,ci sono due donne, paralizzate dal terrore, Donatella una amica di Luisella, e la nonna dei Vitali.
Quando arrivano i Carabinieri trovano la carneficina , tre morti, Angelo e Magda Vitali, Corongiu il fattore e una ragazza poco più che ventenne, Luisella devastata in più punti del suo giovane corpo e  che dovrà subire decine di interventi chirurgici, al fegato, ai polmoni e alla milza. Questa ragazza non dimenticherà mai quello che ha subito e soprattutto quello che da terra ha dovuto vedere: i suoi genitori e il suo fattore sterminati a colpi di pallettone.
I carabinieri si recano allora,  alla abitazione del pluriomicida e non senza fatica lo convincono a consegnarsi. Verrà rinviato a per giudizio  per omicidio plurimo, assieme al figlio Bruno per concorso morale. Nel corso dei processi in Corte di assise e in Appello sino alla Cassazione, Boasso non dimostrerà pentimento, tanto che i suoi legali tenteranno la carta della infermità mentale. Nell’ottobre del 93, la Suprema Corte di Cassazione confermerà la pena dell’ergastolo per Salvatore Boasso, detenuto presso il carcere di Prato mentre il figlio inizialmente indagato anch’esso sarà scarcerato.


mercoledì, dicembre 16, 2015

L'affondamento della motobarca Anna Maria

L’affondamento della Anna Maria.

16 luglio 1947- ALBENGA


Il 16 luglio 1947 , ricorre un anniversario, terribile , che e’ opportuno ricordare, rinnovando il pensiero e la pietà per quel fatto , circa 70  anni fa, in quel giorno maledetto, un martedì,  intorno alle 18, davanti alle spiagge di Albenga, morirono annegati quarantaquattro  bimbi, tutti maschi, di una età che andava dai soli quattro sino agli otto, provenienti  quasi tutti dalla Lombardia e dal Veneto.

Fu una tragedia di portata enorme, che colpì nell’anima, migliaia di persone, sia  vicine e che  lontane dal luogo del disastro.
Assieme ai poveri bimbi, perirono anche quattro adulti, presenti sul barcone.

Ottantun bimbi, tutti maschi, appartenenti alla Colonia della Solidarietà Nazionale, di Loano, si imbarcarono nel pomeriggio del 16 luglio, sulla motobarca Anna Maria, per effettuare una gita all’isola della Gallinara. La mattina stessa, le bimbe avevano effettuato la stessa gita con lo stesso natante, senza alcun problema e ora toccava ai bimbi. Sull’ imbarcazione l’atmosfera era allegra e distesa.
I bimbi erano eccitati per la gita in mare sopra una imbarcazione che loro vedevano come una grande nave,  per loro era una occasione inusuale ed eccezionale.

Il barcone, lungo una decina di metri, salpò dal porticciolo turistico di Loano, in direzione della costa Ingauna, transitando davanti a Borghetto Santo Spirito, Ceriale, e arrivando a costeggiare Albenga, davanti alla Regione denominata “Burrone” in vista della meta, la Gallinara, che i bimbi entusiasti volevano vedere da vicino.

L’imbarcazione al comando di Angelo Podestà, costeggiava ad una distanza di circa 30 metri da riva, dove il mare era profondo tra i 9 e i 10 metri., i bimbi cantavano in coro, mentre la navigazione proseguiva senza problemi. Ma il pericolo era in agguato sotto forma di un palo di sostegno della fognatura, il ferro lungo circa 6 – 7 metri, era ad un metro circa dalla superficie del mare,  completamente  invisibile nell’alta marea e visibile durante la bassa, quindi tutti erano a conoscenza di questi pali che erano infissi sul fondo di fronte alla spiaggia in località Burrone. Chi era alla guida della imbarcazione non vide oppure non si ricordò della esistenza dell’ostacolo. A poppa un giovane bagnante lombardo intratteneva i piccoli suonando con una fisarmonica e facendoli cantare.

La barca, era , forse, sovraccarica, rollava e beccheggiava vistosamente. Appena giunta nello specchio acqueo , davanti alla Regione Burrone di Albenga, alle 18 circa , la Anna Maria, colpì violentemente  con la chiglia, di prua, l’estremità della  putrella, sommersa che assieme ad altre sorreggeva un condotto fognario rimosso nel 41. Per motivi di difficoltà tecniche non tutte vennero tolte e questa che era isolata dalle altre, fu fatale,  aprì  una falla circolare di grosse dimensioni entro cui cominciò a riversarsi da subito, una grande quantità di acqua, compromettendo immediatamente l’assetto del natante.

Il rumore molto forte dell'urto venne percepito dai bimbi che si spaventarono. Per la collisione la barca, sobbalzò, i bimbi terrorizzati  si spostarono in massa verso poppa, mentre la barca dalla falla provocata dal palo, imbarcava velocemente acqua inclina dosi pericolosamente e iniziando ad affondare. A seguito della inclinazione i piccolissimi passeggeri, in preda al terrore, cadevano a grappoli in mare. In circa un minuto la barca affondò e raggiunse il fondale sabbioso, adagiandovisi sopra mentre sulla superficie del mare si allargava una chiazza di nafta frammista a travi, bidoni e soprattutto bimbi che tentavano disperatamente di galleggiare, aggrappandosi ai relitti.  La corrente molto forte in quel punto allontanava i corpicini dalla riva.

La quasi totalità dei bambini erano incapaci di nuotare,  la confusione e il panico completarono la catastrofe. Dalla spiaggia prospiciente, due ragazzi dopo essersi accorti della situazione si tuffarono  in soccorso, fu un gesto eroico, ma erano solo due giovani e decisamente insufficienti alla gravità della situazione .Inoltre si appurò che sulla barca erano presenti solo tre salvagente!
Intanto  la voce dell'affondamento si sparse in Albenga, tutti lasciarono le loro incombenze quotidiane per correre sul luogo del disastro,  i commercianti abbandonarono i negozi, gli impiegati gli uffici, il tam tam arrivò anche nell’immediato entroterra, di slancio  decine di persone si tuffarono  nuotando, freneticamente  verso la barca oramai coricata sul fondo, per riportare in superficie i piccoli. Anche le ambulanze della Croce Bianca e gli automezzi dei Vigili del fuoco confluirono sulla riva più vicina al punto del naufragio per portare il loro contributo.
Un testimone raccontò che il fondo sabbioso  era tappezzato di corpicini inanimati, disseminati ovunque , alcuni erano avvinghiati disperatamente ai pochi adulti presenti sulla barca, che ovviamente erano stati trascinati anche loro sul fondale senza poter fare nulla per i piccini.
Fu una gara di solidarietà . Sembrava una gara di nuoto, solo che la posta era le vite di decine di bimbi, dalla città si vedevano  uomini nuotare velocemente giunti in un posto, unico per tutti, si immergevano per cercare di trovare i piccoli , ne afferravano uno o due per volta in una gara disperata contro la morte, riemergevano e li trascinavano a riva dove altri afferravano i corpicini e praticavano loro la respirazione artificiale e la compressione toracica, il tutto avveniva freneticamente come in una catena di montaggio.


Alle 19 i soccorsi erano terminati con un bilancio terribile, ben 44 bimbi , su 81, erano annegati, oltre a 3 adulti.

La tragedia, segui’ la solita scansione: i corpicini furono composti nella sede della Croce Bianca di Albenga, arrivarono il giorno dopo i genitori per il riconoscimento: gli abitanti di Albenga, fecero a gara per la  vestizione delle piccole salme, molti di loro vennero vestiti con gli abiti della prima comunione destinati ai loro figli. Dopo le esequie, le piccole bare bianche, accompagnate dai congiunti, partirono per le loro citta’ di origine, Milano e Verona, dove vennero officiati riti religiosi solenni
L’Italia fu scossa da questo disastro che per l’alto numero di bimbi morti che non ebbe uguali . Vi fu una inchiesta per stabilire le eventuali responsabilità e il 15 gennaio 1951 iniziò un processo che fu definito delle “madri disperate”. Nel corso di una udienza si appurò che l’imbarcazione non era abilitata per il trasporto di persone ma solo per la pesca. Undici persone furono rinviate a giudizio per naufragio e omicidio plurimo colposo furono presenti  22 avvocati tra parte civile e difesa, 60 testi resero la loro testimonianza, in seguito la parte civile non si presentò alle udienze sucessive perché tacitata con alcune decine di milioni di lire dell’epoca.
 I nomi di tutti coloro che persero la vita in quella catastrofe, sono stati scolpiti nel monumento funebre, di Giacomo Manzù, al Cimitero Maggiore a Milano: un bassorilievo in bronzo che raffigura Gesù circondato dai bimbi, con una  frase significativa del Vangelo di Matteo “Lasciate che i piccoli vengano a me, perché di essi è il regno dei cieli”, mentre ad Albenga nel 2012, fu eretta una edicola con i nomi delle vittime e una madonnina che guarda verso il punto dove ci fu il naufragio.


Roberto Nicolick

martedì, dicembre 08, 2015

La confessione

La confessione
L’uomo davanti a me, avrà novant’anni, anche se non mi dice la vera età, io lo reputo per  la classe 1925,  il corpo è incurvato, i capelli radi e bianchi, le rughe hanno invaso il viso e le mani  che tremano, gli occhi sono stanchi e velati, siamo seduti in un piccolo e triste bar in un quartiere popolare di Savona, un tempo il quartiere aveva una cattiva nomina, si diceva che fosse la fucina dei giovani delinquenti che imperversavano a Savona, Piazzale Moroni.  Il vecchio, anzi il grande vecchio, a suo dire,ha vissuto da protagonista alcuni fatti a cavallo tra il 43 e il 47, fatti, dove tanta gente , uomini , donne e ragazze per lo più innocenti, ci hanno lasciato la pelle, ammazzati per un nonnulla. Era partigiano, e non un partigiano qualunque, ma un capo, comandava un distaccamento di una brigata d’assalto comunista che combatteva i repubblichini nel territorio del Savonese. Il suo nome compare nelle pubblicazioni di un “ente morale” che ha distanza di 70 anni, esalta con accanimento mediatico le attività del partigiani. Concretamente con i suoi uomini si dava parecchio da fare nel liquidare fascisti o presunti tali. Ha letto, oppure qualcuno molto più probabilmente, gli ha segnalato, un mio articolo su un quotidiano di Genova in cui descrivevo l’incontro con la figlia di un partigiano rosso , a questa donna facevo un resoconto delle attività, scarsamente etiche, del babbo di cui lei era all’insaputa. In quel frangente notavo la sorpresa della donna. A fronte di ciò, il vecchio si è procurato il mio numero di cellulare e mi ha chiesto un incontro. Voleva conoscermi e forse a mio parere voleva raccontarmi delle cose. Ci vado volentieri. Mi offre un caffè e poi dice di aver partecipato a tutto il periodo insurrezionale in Savona e dintorni. Ne è fiero almeno alla’apparenza, afferma di aver “giustiziato sommariamente” molti fascisti senza distinzione di sesso o età, anzi dice che quelli giovani, anche i ragazzini, erano ancora più pericolosi di quelli vecchi. Smentisce gli stupri sulle donne fasciste, e se sono avvenuti , si tratta di pochissime occasioni e infauste.
Poi inizia a parlare del noto caso della strage di Cadibona, in cui il 13 maggio 1945, 39 prigionieri Repubblichini furono passati per le armi, lui c’era. Le sue parole , pur se strascicate dagli effetti dell’età, sono comprensibili e interessanti, afferma che fu una mattanza premeditata da giorni e fortemente voluta, decisa sul momento, e soprattutto frenetica.
C’era nell’aria, non solo la primavera, ma una voglia pazza di ammazzare, di sparare su dei fascisti anche se inermi come quelli. Il tam tam aveva segnalato l’arrivo ad Altare del bus con sopra i prigionieri quindi i più agitati erano belli che pronti . La scorta da Alessandria era tornata verso nord lasciando in consegna ai poliziotti ausiliari partigiani il gruppo di repubblichini. Ridendo il mio ospite, mi racconta che il primo trattamento fu incruento, sputi e ingiurie, pugni e calci, il tutto in clima di ilarità di chi agiva e non di chi li riceveva , ovviamente. Poi il gruppo di armati a Cadibona, si ingrossò con tutti quelli che arrivavano da Savona con ogni mezzo.
Tutti volevano  vedere da vicino “le bestie”, tutti volevano mollargli almeno uno schiaffo e poter dire c’ero anche io, erano presenti i principali killer di fascisti di Savona, pronti a sparare. I poveri prigionieri , alle 13, vennero trasferiti dal pulman ad un camion, fatti salire a calci sul cassone e trasferiti fuori dall’abitato di Altare, accanto ad una curva al chilometro 154, e lì fu chiaro cosa sarebbe successo.  
In quel momento la frenesia di morte toccò l’apice. Il vecchio mi racconta che i boia si spintonavano per poter essere sulla linea di tiro e poter sparare su quella “carne fascista”. La sparatoria , a senso unico, durò quasi una mezzora. Non sa dirmi quante pallottole vennero sparate ma alla fine nella valletta tra gli alberi a terra c’erano 39 corpi crivellati e una nube acre causata dalle armi. Sono un po’ scosso dal racconto, ma maschero la mia emozione e la mia riprovazione.
Lo ringrazio del racconto e faccio per andare via da quell’uomo per cui provo un po di fastidio, ma lui mi afferra ad un braccio, ha una stretta ancora vigorosa e una mano nodosa, e continua a parlare ma in modo diverso, la voce tradisce sofferenza: “ non sono mai riuscito a scordare quelle urla e quelle invocazioni di pietà, ancora oggi la notte risuonano nei miei incubi, cercavo di non passare da quel punto dove anche io ammazzai perché provo un gelo che mi assale. Non sono Cristiano e non ho il pentimento ma ricordo perfettamente le grida dei feriti mentre li finivamo, il sangue sulla terra, i mitra che sparavano, i bossoli che saltavano, era davvero una cosa infernale che non potrò mai dimenticare e dopo, la cosa più pesante, il silenzio che era come una cappa di piombo che pesava sulla scena del macello, non si sentiva più neppure il vento tra gli alberi o il canto degli uccelli, era come se tutto il mondo  , con la mattanza, fosse finito e    non ho mai più parlato di quel lontano giorno di maggio del 1945.”  Poi si alza e si allontana appoggiandosi ad un bastone, anche io me ne vado con un sapore amaro in bocca, dopo aver conosciuto di persona un assassino.

Roberto Nicolick