La
strage di Vigoponzo di Dernice , Alessandria
Poco
dopo le 22 del 13 settembre 1944, un camion militare con a bordo un
reparto misto repubblicano, si mosse con una missione da eseguire, da
lla Caserma di San Fruttuoso a Genova di Via Marina di Robilan,
Distaccamento della Marina. Sull’autocarro che viaggiò tutta la
notte, in direzione di Piacenza, c’era una trentina di giovani
armati, diciotto erano marinai della Decima MAS, tredici erano militi
della Guardia Nazionale Repubblicana a guidare il reparto scelto
erano un tenente della Guardia Nazionale, un guardiamarina e anche un
maresciallo delle forze armate Germaniche.
I
diciotto marinai della Decima Mas, appartenevano ad un battaglione
d’elitè, i “risoluti”, acquartierato a Genova e
inizialmente composto da personale della Marina che aveva perso
l’imbarco e che venivano utilizzati come presidio alle attrezzature
portuali del capoluogo Ligure. Il battaglione organizzato e
comandato dal Capo di prima classe Felice Bottero, alle dirette
dipendenze del Principe Junio Valerio Borghese, venne anche impiegato
come forza anti guerriglia di contrasto alle numerose formazioni
partigiane che erano localizzate sulle alture di Genova.
Quindi,
quella notte del 13 settembre, il gruppo operativo che viaggiava sul
mezzo verso la val Trebbia, era una unità con compiti estremamente
rischiosi. Quello che oggi viene identificato militarmente come
R.A.O., reparto acquisizione obiettivi. In pratica il gruppo doveva
attraversare le linee partigiane, infiltrarsi in territorio ostile,
infestato da formazioni partigiane, acquisire informazioni e poi ,
tornare alla base. Allo scopo di essere poco visibili, i militari non
indossavano alcuna uniforme ma vestivano come civili, l’armamento
era composto da mitra, mitragliatrici e bombe a mano. Il mezzo
telonato superò Serravalle Scrivia e arrivato alle Strette di
Pertuso, al confine della Valle Borbera, venne immediatamente
avvistato dalle vedette partigiane che controllavano le strade di
collegamento con la provincia di Alessandria e con l’Emilia
Romagna. In quel tratto di strada, il camion si arresta e scarica i
componenti del gruppo. Il piano dei Repubblicani era quello si farsi
passare per partigiani di una banda proveniente da Cuneo e diretti ad
una zona di lancio alleato a Varzi. Inizialmente la cosa va a buon
fine, infatti riesce a transitare oltre un primo posto di blocco,
esibendo all’occorrenza lasciapassare falsificati. Tuttavia alcuni
partigiani pedinano, da lontano, il gruppo e si rendono conto che è
diretto verso Dernice e non nella direzione dichiarata. A questo
punto scatta l’allarme e la situazione per i militari Repubblicani
si fa molto rischiosa. Entrare in una zona controllata da
preponderanti forze partigiane è decisamente un azzardo soprattutto
in un periodo in cui le azioni e le contro azioni erano molto
frequenti. In breve tempo, numerose formazioni partigiane circondano
l’unità nemica. Lo stop al gruppo repubblicano avviene presso la
locanda di Dernice, in direzione della frazione denominata Vigoponzo.
Qui circondati da ogni lato,vengono costretti a deporre le armi
e segregati nei locali della trattoria, i soldati separati dai loro
ufficiali e interrogati singolarmente. È facile intuire il
trattamento che viene riservato loro.
Il
comandante dei Repubblicani , il Tenente Croner , affiancato dagli
altri due responsabili,regge il gioco con freddezza, tentando di
impersonare la parte del partigiano, per trovare una scappatoia per
sé e i suoi uomini, ma accade l’imponderabile : un militare del
gruppo, sottoposto a forti pressioni, perde la testa, e inizia a
collaborare e se la canta: dalla identità degli ufficiali, sino ai
reparti di appartenenza dei componenti il gruppo ed al loro vero
obiettivo, la situazione diventa tragica. Questo personaggio Carlo
M., in seguito soprannominato in zona “lo scampato”, servì
praticamente al plotone di esecuzione , su di un piatto
d’argento la vita dei suoi commilitoni, sapendo benissimo che le
intenzioni dei partigiani erano quelle di liquidare la questione con
le armi . Nella notte una improbabile ma crudele corte di giustizia,
formata da partigiani rossi, viene convocata e riunita per giudica
a tamburo battente i prigionieri e darsi una minima parvenza di
legalità.
I
prigionieri prima del “giudizio” vengono legati ai polsi con del
fil di ferro dietro la schiena. Il militare ,che ha tradito i propri
compagni, verrà graziato e senza tante complicazioni potrà
allontanarsi prima che inizi la mattanza dei suoi compagni di
sventura.
Alla
mattina del 14 settembre 1944, i ventinove militari di bassa forza
della Decima e della Guardia Nazionale Repubblicana, esclusi
gli ufficiali e sottufficiali, vengono trascinati attraverso diversi
sentieri sino ad una fitta foresta, accanto all’abitato di
Vigoponzo, frazione di Denice. Trovata una radura i poveretti
liberati dal filo di ferro, costretti a scavarsi la buca. I
prigionieri, tra le lacrime e le botte, scavarono due grosse buche
rettangolari profonde poco più di un metro. Prima di sparare, il
comandante dei partigiani “Bruno”, fece convocare il prete di
Vigoponzo, che non poté fare altro che impartire la benedizione a
questi uomini che scavavano nudi, visto che erano anche stati
depredati dei vestiti e delle scarpe. In seguito queste prete,
testimone oculare della vicenda, scrisse una relazione alla Diocesi
in cui raccontò lo svolgersi degli eventi.
Mentre
i condannati a morte scavavano, uno di loro, in un impeto di
disperazione, tentò di fuggire balzando fuori dalla buca e
ingaggiando una violenta colluttazione con alcuni partigiani
armati. Giovane e forte il ragazzo mise in serie difficoltà i boia
ma alla fine fu sopraffatto dal numero sovrastante.
Per
punizione fu picchiato selvaggiamente dai partigiani che usarono
sadicamente le pale e le zappe, accanendosi con ferocia sul suo
povero corpo, fin quasi a staccargli gli arti e la testa dal tronco.
Pare che anche gli altri prigionieri, prima di essere passati per le
armi, abbiano subito orrende torture , infatti molti dei corpi quando
vennero riesumati, presentassero segni evidenti di profonde sevizie,
addirittura numerosi caduti avevano la lingua vistosamente fuori
dalla bocca come se qualcuno avesse voluto strappargliela. Appena il
prete si allontanò, i mitra dei boia iniziarono a falciare i giovani
militari, a gruppi di cinque venivano portati sul bordo delle fosse e
poi mitragliati. Dopo pochi minuti le fosse erano stracolme, poche
palate di terra sul groviglio di corpi insanguinati. Prima di
andarsene gli assassini rossi, spararono diverse raffiche sul sottile
strato di terriccio che ricopriva i
morti.
Nel
novembre del 45 i famigliari dei caduti, riuscirono a riesumare i
corpi e a trasportarli al cimitero di Vigoponzo, dove vennero
composti cristianamente. Infine negli anni 50, i loro resti vennero
trasportati al Sacrario della Repubblica Sociale Italiana, presso
Genova Staglieno, dove tuttora riposano in pace. Negli anni
successivi, fu posta nel Campo santo di Vigopozo una lapide a
ricordare i caduti, con un elenco dei nomi, per lo meno di quelli
riconosciuti, infatti nove di essi non furono identificati e a
tutt’oggi non hanno un nome. Un particolare agghiacciante : sulla
lapide anche un nome di un adolescente di 14 anni, Mario Storace ex
appartenente all’Opera Nazionale Balilla.