lunedì, settembre 24, 2018

Giuseppina Ghersi


Questa foto prestatami dalla sua compagna di scuola rappresenta Giuseppina Ghersi mentre scherzosamente si atteggia con una sigaretta, spenta, seduta ad un tavolino. Dopo qualche mese sarebbe stata sequestrata e assassinata da tre partigiani comunisti.

giovedì, settembre 20, 2018

L'eccidio del cimitero di Mosso Santa Maria





L'eccidio del cimitero di Mosso Santa Maria


Nel febbraio del 1944 il sostegno delle popolazioni del Biellese e del Vercellese nei confronti delle bande partigiane non era quello che i commissari politici si attendevano, vuoi per timore, vuoi per evitare noie e anche perchè i soggetti che si imbrancavano nelle bande non erano personaggi adamantini ma al contrario noti per scarse qualità etiche. I commissari politici incolparono di questo scarsissimo supporto i “capitalisti” e i “fascisti” del posto e decisero di dare un esempio che fosse di esemplare spietatezza.
La notte del 17 febbraio alcune bande comuniste del quarto distaccamento “Piave”della Brigata Garibaldi Biella, si infiltrarono negli abitati di Cossato, Strona e Lessona a est di Biella con una lista di proscrizione di trenta nomi.
Nei piani dei partigiani comunisti c'era il prelevamento di queste trenta personalità della zona e la loro fucilazione.
Chi guidava il primo gruppo erano Ermanno Angiono e Edis Valle, inizialmente riuscirono a prelevare una dozzina di persone, gente che nella stragrande maggioranza non avevano nulla a che fare con la RSI, sette uomini e donne, agricoltori e commercianti, innocenti, gente che non voleva essere coinvolta nella guerra civile e che ambivano solo a stare tranquilli con i loro cari.
Il tredicesimo sequestro a Cossato, andò in vacca, forse per la smania di fare i duri e per la scarsa pratica delle armi che questi “patrioti” avevano,quando bussarono aprì la porta Enrico Carta che in quel momento aveva il figlio più piccolo in braccio gli spararono con i mitra, l'uomo morì sul colpo e il bimbo nonostante quella ferocia, protetto da qualche divinità, si salvò.
Con tutto il casino in notturna, che avevano fatto, si allarmò il presidio repubblichino e tedesco che iniziò a perlustrare la zona, dopo qualche minuto i valorosi “patrioti” che volevano sequestrare civili inermi e disarmati, finirono direttamente in bocca ai Tedeschi. Lo scontro breve e violentissimo finì malissimo per i sequestratori, due furono impiombati per bene mentre uno di loro scappò come una lepre. Nelle tasche dei morti fu trovata la lista di proscrizione con i trenta nomi.
Purtroppo in mano partigiana erano rimasti 12 ostaggi che trascinati al cimitero di Mosso Santa Maria, furono ammazzati senza alcuna giustificazione, senza processo, e senza i conforti religiosi che essi avevano richiesto a gran voce, trattandosi di gente semplice, onesta e timorata di Dio.
I nomi di queste persone, erano : Carlo Botta e le figlie Gemma e Duilia, l'agricoltore Francesco Repole, l'impiegato Raffaele Veronese, l'operaio Giuseppina Goi, il negoziante Ernesto Ottina e la moglie Tecla, il commerciante Leo Negro, l'agricoltore Giovanni Maffei, il commerciante Sandro Tallia, e Palmira Graziola casalinga.
Ottina, uno degli assassinati, aveva un negozio di alimentari, spesso forniva , a credito, viveri ai partigiani, gli stessi che poi lo rapirono e lo assassinarono, in questo caso i suoi assassini uccidendolo azzerarono opportunamente ogni debito nei suoi confronti, che strano vero ?
I corpi delle 12 povere vittime furono allineate in duplice fila e fotografate, quindi una copia della macabra istantanea venne fatta recapitare alle famiglie dei morti. Anche di questa pratica sadica non c'era bisogna ma si inseriva perfettamente in una logica del terrore che nei decenni successivi i brigatisti rossi avrebbero preso ad esempio.
L'indomani il maresciallo dei CC della stazione di Mosso decise di togliersi la vita sparandosi alla tempia, si chiamava Alfonso Taverna e aveva 39 anni, era schiacciato dal rimorso di non aver potuto impedire una strage di questo genere, in realtà nessuno avrebbe potuto impedire una cosa simile che era già da giorni pianificata con attenzione, il suo fu un gesto di estremo onore degno di un samurai.

mercoledì, settembre 12, 2018

La strage di Andorno di Tollegno






La strage di Andorno di Tollegno
Valle del Cervo
Biella
22 marzo 1944
Questa zona del Biellese era all'epoca dei fatti provincia di Vercelli, ora non non più, dipende da Biella, sede già allora di industrie tessili di grande importanza e dal 43, era una zona dove operavano alcune formazioni partigiane comuniste, molto ligie ed ortodosse al dogma, non era un caso che proprio a Tollegno lavorasse come operaio tessile Francesco Moranino, detto “Gemisto” futuro “onorevole”, termine poco appropriato nel suo caso, del PCI e al centro di numerose inchieste su atrocità compiute su civili e militari della RSI. Moranino dovette pure fuggire oltre cortina a Praga, dove si prodigò con grande entusiasmo, attraverso Radio Praga a diffondere propaganda anti Italiana
In zona, non 'cera solo Moranino ma anche un certo Moscatelli, entrambi comunisti duri e puri, talmente duri da non tollerare la presenza di altre formazioni partigiane legate alla Monarchia infatti appena seppero che ad Oropa si era formato un distaccamento di resistenti non comunisti, piombarono in zona e li costrinsero alla fuga. Ma questa è un'altra storia.
Caterina Tiboldo, 48 anni operaia e le sue graziose figlie, Angiolina, 20, Mariuccia , 18 anch'esse operaie e Carmen 16 , che faceva la sartina , ricevettero la notte del 22 marzo 1944, nel casale isolato alla periferia di Andorno, dove abitavano, la visita sgraditissima di un gruppo di partigiani armati, guidati da tale Isidoro Zanchi, “Gaio” , di soprannome ma non di fatto.
Zanchi affermò di aver fatto irruzione nel casale alla ricerca di un gruppo di militari della RSI ma trovò solo quattro donne indifese , appunto Caterina, Angioina, Mariuccia e Carmen e due bimbi, Italo di 4 anni e Mirella di 3, i due uomini di casa in quella circostanza erano assenti per lavoro, dopo aver sfondato la porta non trovarono armi o armati, e le povere donne non erano Fasciste, ma evidentemente questo eroe di sta cippa, non volle sciupare la nottata.
Quello che accade nel casale non si sa con precisione, ma è immaginabile, i partigiani rossi erano usi a stuprare in branco, le femmine, vecchie e meglio se giovani e giovanissime.
Gli abitanti del luogo udirono urla e invocazioni di aiuto per diverse ore della notte e dopo tutto ciò, raffiche di mitra provenire dal cimitero e poi il silenzio, Ovviamente non osarono mettere il becco fuori da casa, erano noto che la peggior feccia facesse parte di questi gruppi armati che giravano con il foulard e la stella rossi cucita sulla giacca.
All'alba del giorno dopo, i Carabinieri recatisi alla casa dei Tiboldo la trovarono con la porta sfondata, l'interno era devastato e saccheggiato, dopo aver attraversato il ponte che passa sul torrente Cervo i militi raggiunsero il cimitero di Tollegno e trovarono accanto al muro di cinta quattro corpi di donne crivellati di colpi e abbracciati a loro due bimbi che piangevano disperati, Italo e Mirella.
La ferocia di questo eccidio compiuto di fronte a due bimbi che rimasero segnati per tutta ala vita colpì tutta la popolazione del Biellese che intervenne in massa alle esequie delle povere vittime, poi si seppe che la causa scatenante era il fatto che la povera Carmen facendo la sarta, aveva tra i suoi clienti alcuni militi repubblichini.
Grazie a questa indegna azione, due giorni dopo , cinque partigiani prigionieri della Guardia Nazionale Repubblicana furono passati per le armi nello stesso luogo dove era avvenuto la strage delle quattro donne.
In quel sito c'è una lapide che ricorda giustamente i cinque prigionieri fucilati, ma nulla di nulla che ricordi che in quel luogo quattro donne dopo inumane sofferenze furono assassinate da criminali feroci e politicizzati.

Roberto Nicolick
( manovalanza della libertà )

lunedì, settembre 10, 2018

Don Giuseppe Amateis



Don Giuseppe Amateis

Don Giuseppe Amateis era il parroco di un paese delle Valli Dio Lanzo, in questo territorio le bande partigiane, in particolare quelle di stretta obbedienza al PCI, non erano molto ben viste dalla popolazione locale per via delle ruberie che compivano a danni dei contadini e per il fatto che con la loro guerra per bande attizzavano i rastrellamenti e le rappresaglie dei Tedeschi e dei Repubblichini che comunque e sempre andavano a danneggiare i civili. Don Amateis che era un ex cappellano militare, decorato per il suo comportamento durante precedenti attività militari, non mancava dal pulpito di prendere una posizione ferma contro le attività sei partigiani che egli accusava con grande chiarezza e coraggio di taglieggiare la popolazione e di compiere imboscate contro i Tedeschi, inoltre questa guerriglia non portava alcun vantaggio alla avanzata degli Angloamericani, in effetti le parole di Don Amateis erano corrette, non solo moralmente ma anche dal punto di vista militare ma non potevano essere lasciate passare impunite dai partigiani comunisti. E così la notte del 15 marzo 1944, un gruppo di partigiani comunisti i cui nomi non sono mai resi noti presero il parroco, lo trascinarono sul greto del torrente Tesso e lo massacrarono a colpi di ascia.

sabato, settembre 08, 2018

La strage di Torriglia 5 maggio 1945



La strage di Torriglia

Torriglia è un piccolo centro abitato a poca distanza dalla grande Genova, dopo il 25 aprile 1945 in una data imprecisata, i partigiani comunisti della zona avevano fermato e imprigionato cinque giovani, che secondo loro avevano collaborato con i Tedeschi, in realtà questi ragazzi non avevano mai partecipato a rastrellamenti contro partigiani o a rappresaglie nei confronti di popolazioni civili, i loro nomi erano : Giovanni Battista Coceancing, Mario Rosset entrambi ufficiali dei bersaglieri della Divisione Italia, consegnatisi in base alle leggi di guerra ai partigiani del comando San Gottardo, Baldassarre Zappulla sergente di artiglieria , malato di pleurite e impossibilitato a fuggire, Giovanni De Sena ufficiale responsabile del magazzino di Alessandria, sito presso la cittadella, che non aveva mai partecipato ad alcuna azione di fuoco e Umberto Castelli ex partigiano già prigioniero dei repubblicani e obbligato a fare parte delle formazioni militari della RSI.
Mario Rosset si era anche prestato a fare opera di convincimento verso un gruppo di militari Tedeschi di presidio ad una fortificazione a cedere le armi, con questo suo gesto aveva evitato ad un ulteriore spargimento di sangue e aveva guadagnato un salvacondotto dalle forze partigiane.
Nonostante la guerra fosse finita, nonostante la volontà di collaborare, dei cinque giovani i partigiani comunisti locali li associarono alle carceri mandamentali di Torriglia e dopo pochi giorni, la sera del 5 maggio 1945, cinque partigiani rossi si presentarono in quel posto, per prelevarli e per “farli interrogare dal CNL di Genova” .
I prigionieri avevano da subito capito quale sarebbe stata la loro sorte e chiesero i conforti religiosi dal Parroco di Torriglia a cui consegnarono delle lettere per i loro parenti in cui fecero i nomi dei partigiani che di lì a poco li avrebbero assassinati, dopo averli spogliati di ogni effetto personale. I poveri ragazzi furono portati in località Cà Bianca e in quel luogo assassinati a raffiche di mitra in quello che fu una strage ingiustificata e illegale oltrechè inumana. Dalle lettere delle vittime di questa feroce esecuzione si poterono apprendere i nomi dei boia : Guido Galiano Petrini “Serpente” di Acqui Terme, Ermanno Forte di Avellino “Acquila”, Angelo Giovanni Cimbrico di Genova “Gratta”, degli altri due boia si potè conoscere solo il soprannome di battaglia “ Leone “ e “studente” ma la loro identità non fu mai chiarita nonostante le indagini che i Carabinieri e il procuratore portando avanti in quanto essi avevano posto in essere nell'eccidio agendo di loro completa iniziativa né in fatto di guerra, né su ordine superiore e soprattutto fuori dei limiti della amnistia.

Roberto Nicolick
( manovalanza della libertà )

domenica, settembre 02, 2018

Lorenzo Cotugno


Lorenzo Cotugno
11 aprile 1978
Torino


Sono le 7,30 dell’11 aprile 1978 a Torino imperversano i terroristi della colonna armata intitolata a Mara Cagol uccisa poco tempo rima in un conflitto a fuoco con i Carabinieri presso la Cascina Spiotta ad Acqui Terme, l’agente di custodia Lorenzo Cotugno, finisce il caffè con la moglie e poi scende in strada, in Lungo Dora Napoli, per raggiungere le carceri Le Nuove, quando esce dal portone è affrontato da una terrorista, Nadia Ponti, che gli punta contro una pistola , Cotugno  intuisce e ingaggia un corpo a corpo con  la donna che si trova in difficoltà, gli altri due terroristi, che poi risulteranno essere Piancone e Acella, intervengo contro l’agente di custodia, in particolare Vincenzo Acella con la 38 special colpisce alle spalle Cotugno e poi mentre la vittima è a terra lo finisce con un colpo alla testa, tuttavia prima di soccombere l’agente  colpito con quattro proiettili Piancone e Nadia Ponti, i quali sanguinanti riescono a risalire in auto, una 124 verde e fuggono dal luogo dell’agguato.
Intanto la moglie di Cotugno sta lavando le tazzine quando sente una serie di detonazioni , sei in tutto che provengono dalla strada, corre al balcone e vede suo marito barcollare e cadere  , scende le scale di corsa e fa appena in tempo ad abbracciarlo che lui guardandola negli occhi , muore.
Cotugno sopravvive pochissimi minuti ma nonostante fosse ferito, ha potuto rispondere al fuoco e raggiungere con due colpi uno dei terroristi, gli frattura il femore e lo ferisce al fianco inoltre ferisce la Ponti al braccio destro e alla coscia sinistra, l’agguato è finito male. Acella in questo frangente ha manifestato tutta la sua ferocia uccidendo un uomo a terra ferito ed inerme, un uomo che loro stessi sono andati  a cercare con intenzioni malvagie.
La 124 verde raggiunge l’Astanteria Martini, in quel sposto scende la donna che appare agitatissima e chiama il personale infermieristico dicendo che sull’auto c’un ferito, poi una volta fattolo caricare in barella, l’auto riparte di scatto. Il medico di guardia visto che il ferito è stato attinto da colpi di arma da fuoco e che ha al fianco una fondina vuota, avverte il poliziotto di servizio che chiama subito la Digos.
Giungono subito agenti e carabinieri in forze, per la prima volta la polizia ha in mano un terrorista che tace e solo in seguito declina le sue generalità, si chiama Cristoforo Piancone, nato a Grenoble nel 1950, e soprattutto dichiara di considerarsi prigioniero di guerra, altro non aggiunge. Appena lasciata l’astanteria Martini la Ponti e Acella, raggiungono un bar dove li attende Peci e con lui vanno in un’altra struttura ospedaliera il Maria Vittoria, dove lavora come infermiere il suo ex marito, da cui si è separata perché non condivideva la sua scelta della lotta armata. L’uomo la medica alla meglio e poi lei fa perdere le sue tracce prima dell’arrivo della polizia.
Le  condizioni di Piancone sono gravi, oltre al femore fratturato ha una pallottola nel fegato e viene trasferito sotto scorta alle Molinette per essere operato. Intanto la polizia compie le sue ricerche, il suo viso coincide con un identikit e pare essere responsabile di altre aggressioni a mano armata sempre a Torino, vengo rintracciati i suoi aprenti e si apprende che il terrorista lavorava alla Fiat come collaudatore e che dopo aver fatto volantinaggio ai cancelli si licenziò ed entrò in clandestinità.   
Lorenzo Cotugno nato Barcellona Pozzo di Gotto a gennaio del 1947, agente di custodia, in servizio alle Nuove in Corso Vittorio Emanuele II, aveva iniziato il servizio nella PP a Palermo poi era stato trasferito a TO, sposato con la moglie Franca e con una bimba di tre anni Daniela, l’anno prima era addetto al casellario, l’ufficio dove i detenuti lasciano in custodia i propri effetti personali, sempre molto corretto con i detenuti e i loro famigliari e con i suoi colleghi, in seguito era stato incaricato della gestione dei colloqui, dei controlli dei permessi e dei documenti dei parenti dei detenuti, un incarico molto delicato per cui aveva ricevuto numerose minacce anonime e addirittura un’auto aveva tentato di investirlo.
Il lavoro dell’agente di custodia, già di per sé pericoloso, a maggiore ragione negli anni di piombo, può comportare ulteriori rischi decisamente mortali. Pochi mesi prima dell’agguato che gli costerà la vita, l’auto dell’agente, posteggiata davanti alle Nuove era stata data alle fiamme e un delirante volantino di rivendicazione del nucleo proletari comunisti era stato divulgato “abbiamo colpito un picchiatore facente parte della squadra dei Sardi”, solo che a testimoniare l’ignoranza dei brigatisti,  Cotugno non era assolutamente ne’ un picchiatore e neppure Sardo.
A questo punto per tutelare la famiglia e sé stesso, aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento all’OPG di Barcellona di Pozzo di Gotto, vicino a Milazzo, praticamente a casa sua, ma aveva rimandato il trasferimento per facilitare il passaggio delle consegne con il collega che avrebbe preso il suo posto, purtroppo i brigatisti, forse al corrente della sua partenza hanno deciso di agire prima. Cotugno cadendo eroicamente armi in pugno contro terroristi armati fu riconosciuto come Vittima del dovere ed ebbe la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria.
Cotugno fu uno dei tanti servitori dello Stato che cadde vittima di un odio feroce e ideologico delle Bierre che funestarono la nostra nazione. Grazie anche alla reazione di uomini come Cotugno che caddero combattendo la libertà non fu soffocata.
( articolo scritto con il contributo del quotidiano LA STAMPA )
Robert Nicolick
(Manovalanza della libertà)