mercoledì, ottobre 26, 2016

Gli alpini di colle Tortagna

L’eccidio dei 17 Alpini a Colle Tortagna, Calizzano




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 Arrivati sulla spianata del Colle del Melogno, imbocchiamo sulla sinistra l'antica strada militare sterrata che, dopo alcune curve, attraverso un bosco ceduo, porta ad un bivio, svoltando a sinistra , dopo circa 200 metri, superando a piedi un recente cancello, si perviene alla sommità della collina, interamente occupata dalla pianta poligonale del  Forte Tortagna, attorniato da un fossato, protetto da terrapieni, il forte è ad una altezza s.l.m. di circa 1090 metri, da qui lo sguardo arriva sino al mare.
L’ingresso del forte, servito da un ponte levatoio insicuro, mostra un architrave con sopra inciso il nome della fortificazione , Forte Tortagna.
 All’interno, una caserma con gli alloggiamenti e in posizione leggermente sopraelevata si vedono le postazioni dei cannoni che vi erano collocati. L'esterno del forte e reca i segni di recenti vandalismi e incuria.
Qui avvenne una delle tante atrocità commesse nel corso della Guerra Civile, uno dei tanti episodi in cui Italiani che si consideravano “buoni”, scannavano altri Italiani che erano considerati “cattivi”:
A fine novembre del 1944, due plotoni di alpini , appartenenti alla 67° compagnia del Battaglione Cadore, Divisione Monterosa, entrano in contatto, sulla strada montana che porta a Bardineto, con preponderanti formazioni partigiane, la 5° brigata Partigiana Garibaldina composta da ben tre distaccamenti.
I combattimenti che seguono sono violentissimi , uno dei due plotoni riesce a sganciarsi e riesce a ritornare al proprio reparto acquartierato a Ceva, mentre l’altro viene circondato, continua a combattere in attesa di rinforzi che tuttavia non possono raggiungere nell’immediato, la zona impervia per sostenere il reparto accerchiato.
Il plotone perde nella mischia, l’ufficiale comandante, il tenente Armando Merati, che viene sostituito da un sottotenente medico, Mario Da Re, il quale con altrettanto valore, guida il reparto nella difesa della posizione. Lo scontro dura per otto lunghissime ore la brigata partigiana subisce forti predite, cade negli scontri anche l’alpino semplice Primo Durante armi in pugno .
Al termine dello scontro, gli alpini superstiti verranno disarmati e dichiarati prigionieri di guerra. In seguito saranno portati al forte Tortagna e rinchiusi in una cantina, nel livello più basso della fortificazione. La loro vita sta per finire in modo tragico infatti non era precisamente costume delle brigate partigiane rispettare lo status di prigioniero di guerra ai militari della R.S.I..
Dopo essere stati segregati all’interno di una cantina del forte Tortagna, gli alpini verranno passati per le armi in spregio a qualsiasi convenzione militare e soprattutto umana. Un giovanissimo alpino, poco più che diciassettenne, sopravvisse alla strage e ebbe la possibilità di riferire al proprio comando cosa accadde ai suoi camerati , il ragazzo si chiamava Albareti e potrà scampare alla morte grazie al sacrificio del suo comandante, il sottotenente Mario Del Re, che chiederà la grazia per il giovanissimo alpino, data l'età. Ecco i fatti in base al racconto dello scampato e anche di alcuni appartenenti alla formazione partigiana.
I prigionieri, dopo la loro cattura, vennero da subito privati delle armi e poi dell’abbigliamento personale, giacche, calzoni, maglioni e calzature. I poveretti trascorsero la gelida notte in condizioni terribili, all’interno di una umida segreta, a quota 1030, in un mese e soprattutto in una località nota per le temperature decisamente rigide e senza abbigliamento. Alla mattina erano quasi assiderati.
Era imminente un contrattacco dei militari della R.S.I., avvisati dal plotone sfuggito all’accerchiamento, per liberare i 17 prigionieri, a questo punto i partigiani decisero di eliminare i prigionieri per evitare che venissero liberati nel corso dell'attacco nemico.
All’alba del 27, iniziarono i prelevamenti dei prigionieri, per portarli davanti al plotone di esecuzione che li aspettava in uno spiazzo nella foresta a breve distanza dal forte.
Quando il comandante Del Re, comprese la sorte che attendeva i suoi soldati, li incitò ad avere coraggio e li invitò a cantare le più note canzoni degli alpini, corpo a cui essi appartenevano.
Sul colle Tortagna , in quella livida mattina, due suoni contrastavano e stridevano tra di loro: uno era dolce e continuo, prodotto dalle voci degli alpini che con coraggio, intonavano le loro caratteristiche e struggenti melodie della montagna e l’altro intermittente e assordante era il suono delle armi da fuoco con cui i boia partigiani fucilavano i loro inermi prigionieri.
Ecco i nomi degli alpini, uccisi senza un minimo di pietà e di giustizia : Calcinotti Edoardo, Canziani Giovanni, De Rin Tullio, De Battè Brunetto, De Biasi Mario, Fiorini, Garda Ivo, Meraviglia Antonio, Pietrobono Osvaldo, Ragazzoni Vittorio, Rorato Luigi Ermanno ,Saturio Antonio, Scola Alfredo, Tornabene Mario, Uliana Saverio, Vanele Mario, Viviani Zeldino. L’ultimo a cadere fu il sottotenente medico Mario Del Re che ebbe un comportamento onorevole sino all’ultimo istante della sua vita, cadde gridando in faccia ai suoi aguzzini “ Viva l’Italia”, in seguito, verrà decorato dal Governo della Repubblica Sociale Italiana di Medaglia D’oro al Valor Militare.
I corpi dei militari, saranno esumati e ricomposti solo quattordici anni dopo, nel 1958 presso il Cimitero di Vittorio Veneto, frazione Ceneda. Sul sito della strage a quota 1090, è stato posto un cippo in memoria delle vittime di questa ennesima ed assurda strage e annualmente viene celebrata una messa in memoria dei caduti.
Roberto NICOLICK
 


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Amalia 1945

L’omicidio di Amalia Desiglioli


una giovanissima ragazza, molto bella ed avvenente, alta e snella, capelli neri corvini, occhi marroni molto espressivi e profondi , muore assassinata nelle vie di Savona, durante la notte del 12 maggio 1945, a liberazione avvenuta. La giovane donna a nome Amalia Desiglioli ha da poco compiuti i 18 anni ed è piena di speranze per il futuro che vorrebbe poter migliorare, fra i suoi obiettivi c'è fare l’attrice entrando nel mondo dello spettacolo per sfuggire alle tristezze dell’immediato dopo guerra con le sue stragi e con la sua cupezza.
Nata a il 24 aprile 1927, abita in un quartiere antico di Savona, Villapiana, con la famiglia in cui è perfettamente integrata, viene assassinata con un colpo di pistola alla testa, poco dopo la mezzanotte, mentre tutti dormono o se sono svegli si guardano bene dal farsi gli affari degli altri .
Il 12 maggio 1945, a notte inoltrata, tre persone in uniforme da partigiani, si presentano presso l’abitazione dove , bussano alla porta con fare autoritario, dichiarando di essere inviati dal Prefetto della Liberazione che all'epoca era un capo partigiano, persona peraltro conosciuta dalla ragazza e dalla sua famiglia. La giovane Amalia, fiduciosa, nonostante i tempi oscuri, scende in strada con i tre uomini e viene ritrovata, dopo una mezzora , morta ammazzata in una via poco lontano dalla casa dove è uscita con fiducia nelle persone che sono venute a rilevarla, salita Aquileia, con una chiazza di sangue che si allarga sotto il capo , qualcuno le ha sparato un solo colpo e preciso alla nuca. Ovviamente i suoi assassini non saranno mai identificati e un opportuno documento stilato il 25 di maggio 1945, dal Comitato di Liberazione collegato alla Questura di polizia ausiliaria partigiana, la definirà come una appartenente alle famigerate Brigate Nere. Quindi nei confronti di una “fascista” tutto è permesso anche ucciderla senza essere puniti.
Questi i dati oggettivi di un’altra ennesima omicidio :
Amalia, lavorava come impiegata nell'ufficio addetto alla sistemazione degli sfollati e ai danneggiati dei bombardamenti alleati, presso l’attuale prefettura , che negli anni della seconda guerra mondiale era la sede del Fascio e della Federazione Provinciale Fascista Repubblicana . Amalia abitava con la famiglia , madre, padre , un fratellino tredicenne Angelo, una sorella Margherita e un fratello più grande Alessandro militare nella Marina Militare.
La famiglia di Amalia era di modestissime condizioni economiche e come tutti in quel periodo doveva fare i conti con pochi generi alimentari . Molti savonesi , per arricchire la misera dieta, si recavano presso la zona dell’angiporto , dove accanto ad un insediamento industriale, potevano usare dei contenitori di metallo, in cui veniva versata dell’acqua di mare. Il fondo di queste latte veniva scaldato con del fuoco di legna e l’acqua di mare evaporando lasciava sul fondo del sale. Era un metodo semplice ed alla portata di tutti per produrre sale, da poter scambiare con altri generi alimentari.
Amalia e una sua collega ed amica, Anna, in quella occasione decidono di recarsi con mezzi di fortuna nell’entroterra collinare e scambiare il sale con uova o farina ed arricchire i pasti delle rispettive famiglie. Ma le cose vanno male, le due ragazze vengono fermate dalla Polizia annonaria, perquisite e viene rinvenuto il sale . Le due poverette sono accusate di “borsa nera”, reato molto grave all’epoca. Come immediato provvedimento vengono licenziate e lasciate a casa dal lavoro di impiegate. Lavoro che permetteva loro di vivere.
Arriva l’aprile 1945 e si comincia a respirare aria di caduta per la Repubblica Sociale Italiana. Le due ragazze , il 24 aprile 1945 alla vigilia della grande fuga dei fascisti e delle loro famiglie verso il nord,accompagnate dai genitori e dal fratellino si recano in Prefettura – Casa del Fascio, dove lavoravano, per reclamare gli ultimi stipendi e la liquidazione, cosa che viene loro accordata.
Il fratellino di Amalia osserva incuriosito la confusione all’interno della casa del fascio, vede la smobilitazione degli uffici, i documenti bruciati all’interno di un bidone nel cortile, vede anche alcuni militi in camicia nera, irriducibili, che scrivono sui muri la fatidica parola :
“ RITORNEREMO”.
Purtroppo in quel clima di paura e arrabbiatura per le cose che precipitano, le due ragazze vengono costrette a unirsi alla colonna in fuga dei repubblichini, che va in direzione di Valenza Po dove è previsto l’attraversamento del grande fiume per raggiungere la Valtellina, nonostante le giovani, non abbiano posizioni di responsabilità all’interno del Regime in disfacimento. I genitori della Amalia quindi assistono impotenti alla partenza obbligata delle ragazze e rassegnati tornano con i soldi degli stipendi a casa, nella speranza di rivederle prima o poi.
La fuga dalla città, dura poco, la colonna repubblicana in fuga viene fermata a Valenza Po, i componenti arrestati ed internati nel carcere di Alessandria e le due ragazze, dopo un interrogatorio del Comitato di liberazione nazionale, rilasciate dai partigiani, libere di tornare a Savona visto che nulla era emerso a loro carico ed infatti fanno ritorno presso le rispettive famiglie.
Accade, tuttavia, un fatto particolare qualche mese prima del 25 aprile 1945, che forse potrebbe essere la chiave di lettura della morte della povera ragazza: il fratellino della Amalia, trova per strada una borsa piena di tabacco, nel cui interno, è nascosto un lasciapassare rilasciato dalle formazioni partigiane per un trasportatore di Savona. Il ragazzino porta a casa la borsa e mostra ad Amalia ed alla sua amica il lasciapassare. L’amica di Amalia affermando di conoscere l’intestatario del lasciapassare, si offre di andare a restituire il documento personalmente. Qualcuno, pare una donna, si reca dall’intestatario del salvacondotto, e forse tenta un ricatto , minacciando di rivelare i suoi contatti con i partigiani. A fronte del ricatto il personaggio paga , affermerà in seguito ai partigiani di aver versato una somma ad una donna che comunque non è la Amalia e neppure la sua amica. Si innesca una dinamica perversa che porterà a conseguenze terribili per la povera Amalia.
La notte del 12 maggio 1945, passata da circa mezzora la mezzanotte, tre persone che indossano l’uniforme dei partigiani, con al braccio un nastrino tricolore, si presentano presso la casa della Amalia e le chiedono di seguirli, motivando il fatto che il prefetto voleva conferire urgentemente con lei. Sia la Amalia che i suoi famigliari erano conoscenti del personaggio citato dai tre figuri, il cosiddetto prefetto della Liberazione, e quindi si fidano. La ragazza esce e firma così la sua condanna a morte.
I quattro si avviano verso il centro, la ragazza è serena, una signora residente sentirà delle risate e si affaccerà alla finestra incuriosita, vedrà una donna in compagnia di due uomini e un terzo che si attarda per legarsi il laccio di una scarpa. Quello è il trucco scelto dal boia per potersi collocare alle spalle della ragazza e colpirla alla nuca. Un solo sparo, nel silenzio della notte e la ragazza cade , assolutamente inconsapevole di quello che è successo. Verrà ritrovata, con il sorriso stampato sul viso, dopo poco, dalla madre in ansia, scesa a cercarla. Il corpo verrà trasportato al cimitero di Zinola e seppellito. Le indagini, solo formali e inconcludenti della Questura di Savona, all’epoca gestita dal comitato di liberazione non porteranno a un bel nulla.
Una povera anima innocente è stata assassinata per nulla e con le solite motivazioni assurde e dettate dalle barbarie. Dopo qualche anno la salma di Amalia viene esumata e traslata nel Sacrario dei caduti militari anche se lei non aveva mai indossato l’uniforme. Un dolore in più per il fratello che appena uscito dalla adolescenza decise di abbracciare la causa del P.C.I., e a tutt’oggi non riesce a spiegarsi il movente dell’uccisione della povera sorella, bella, intelligente, simpatica, un ragazza talmente bella da poter fare l’attrice e che a questo scopo inviò delle sue foto ad una rivista che si occupava di casting. La redazione artistica dopo aver visionato le foto della Amalia, la cercò per farle fare dei provini, ma era troppo tardi : Amalia era stata assassinata.


Roberto Nicolick


la sparatoria sul cellulare di Novi Ligure 24 gennaio 1971

La sparatoria sul vagone cellulare a Novi Ligure
24 gennaio 1971


Era un servizio di traduzione normale, quello del 24 gennaio 1971, un trasferimento dalle Carceri Le Nuove di Torino sino a varie destinazioni per processi oppure verso altri penitenziari del nord Italia, il furgone con la scorta carica 11 detenuti e 8 Carabinieri arriva alla Stazione di Porta nuova e li fa scendere tra la i pendolari infreddoliti che come tutte le mattine prendevano il treno per il lavoro o per la scuola e l'Università.
Sul binario 3, li aspetta il diretto per Alessandria, attaccato al convoglio, un vagone cellulare, occupato al centro da sei celle con le sbarre ai finestrini per i detenuti e un gabinetto.
Alle estremità ci sono due spazi per i militari di scorta. Il treno parte da Porta Nuova alle 6,41 per Alessandria, all'interno l'atmosfera è distesa e bonaria come al solito, i Carabinieri di scorta hanno un atteggiamento umano e comprensivo e gli 11 detenuti sembrano tranquilli, divisi a coppie per ogni celletta.
I carabinieri , espletate le operazioni di servizio, si dividono nelle due piattaforme alle estremità del vagone. Il treno farà una sosta ad Alessandria per lasciarvi tre detenuti destinati al carcere della città.
Alcuni detenuti chiedono al capo scorta se uno dei militari può acquistare dei piatti cucinati al ristorante della Stazione. E' una consuetudine che viene concessa e serve a creare empatia tra la scorta e i prigionieri.
Ad Alessandria il pasto è servito, il vagone cellulare è agganciato al diretto Alessandria - Genova Brignole e quando, poco dopo le 10, si avvicina a Novi Ligure, alla stazione di Frugarolo, accade l'imprevedibile : due detenuti che sono nella stessa cella, Paolo Brollo di 31 anni, di San Donà di Piave, e Luigi Calgiaco di 25 anni della Brianza, dopo aver consumato un piatto di lasagne e dopo aver fumato una sigaretta, si alzano uscendo dalla celletta e affrontano i Carabinieri Spera e Conti, i più giovani e i meno esperti, che sono anche più vicini alla celletta dei due.
Uno dei detenuti, il Brollo, impugna una pistola automatica con cui minaccia i due carabinieri e li disarma delle pistole di ordinanza. In realtà quella impugnata dal detenuto, è solo una perfetta imitazione, fatta con del sapone di Marsiglia e dei pezzi di bachelite, annerita con il nerofumo, talmente fedele all'originale da riportare addirittura anche il numero di matricola.
Probabilmente costruita da quello che in gergo è chiamato “l'artista”, cioè un detenuto particolarmente abile nel produrre oggetti verosimili, usando materiali poveri a disposizione come sapone, mollica, carta pressata e stoffa opportunamente trattati, non si riuscirà a capire dove l'hanno presa, visto che alle Nuove erano stati perquisiti all'uscita.
Ora però, i due sono armati di pistole vere che puntano contro gli altri sei carabinieri, facendosi scudo con i corpi dei primi due che hanno disarmato, sembrano decisi e pericolosi.
L'appuntato Leo con freddezza, cerca di dissuadere i due dal proseguire nella loro azione: “non fate gli stupidi avete scherzato abbastanza abbastanza, ora rientrate in cella e la cosa finisce qua”, ma i due sono determinati e non si lasciano convincere dalle parole pacate e uno dei due urla “dateci le armi o vi uccidiamo tutti” e azionano il segnale di frenata rapida, approfittando di ciò, qualcuno della scorta lancia con forza, in faccia al detenuto più vicino, una bandoliera con la giberna nel tentativo di creare un diversivo e agire.
Il detenuto colpito al viso, accusa il colpo e barcolla ma spara colpendo al cuore Conti che era sul sedile. Conti cade morto sul colpo in avanti. Il Carabiniere Spera tenta di estrarre l'arma dalla fondina ma viene ferito al pollice della mano e per il dolore cade a terra, in seguito gli dovrà essere amputato. Cade colpito in fronte anche il Carabiniere Giuseppe Garbarino. il Capo scorta Leo muore raggiunto da cinque colpi in rapida sequenza.
Gli altri militari rispondono al fuoco, mentre i due ostaggi si gettano a terra, Brollo muore dopo aver esaurito il caricatore, il suo compagno Calciago ferito a morte, crolla a terra, ma ha ancora la forza di alzare l'arma per colpire ancora, uno dei Carabinieri gli blocca il polso con la scarpa impedendogli di sparare. Intanto il treno si è bloccato a breve distanza dalla stazione.
Il manovratore all'oscuro dell'accaduto, scende dal treno, percorrendo la massicciata raggiunge il vagone cellulare da cui si affaccia uno dei carabinieri che lo invita a fare ripartire il treno il più rapidamente possibile perchè all'interno ci sono dei feriti gravi che necessitano di cure urgenti.
Quando il treno ferma a Novi Ligure, arriva il capo stazione che avvisa le ambulanze, sul pavimento nel sangue, tre bravi carabinieri morti e uno ferito, padri di famiglia, e i due delinquenti che hanno dato inizia alla mattanza, si conteranno 24 bossoli calibro 9, le pareti sono sforacchiate dalle pallottole, anche i finestrini sono in frantumi.
Gli altri detenuti, terrorizzati, durante la sparatoria, si sono rincantucciati nelle cellette cercando di sfuggire alle pallottole vaganti o di rimbalzo, sono un ladro pregiudicato, due protettori, due ladri alle prime armi e un ragazzo che doveva essere giudicato in appello.
In seguito, nel corso dell'inchiesta, diranno di non conoscere Brollo e Calciago, due rapinatori, estremamente pericolosi e in trasferimento verso altri penitenziari, Calciago verso il carcere di Velletri e Brollo addirittura a Porto Azzurro.
I due si erano conosciuti alle Nuove e progettavano una fuga, molto difficoltosa dalle Nuove e impossibile da Porto Azzurro. L'unica opportunità di evasione era durante la traduzione.
Inoltre i due banditi erano già fuggiti, proprio da Novi Ligure nel corso di un precedente trasferimento, bloccando il treno con il segnale d'allarme e immobilizzando la scorta, poi erano scappati per i campi per essere riacciuffati il giorno stesso.
Purtroppo, i Carabinieri di scorta non conoscevano la reale pericolosità dei due, qualsiasi prigioniero per loro era uguale: una mentalità da cambiare per avere un approccio diverso verso diverse tipologie di criminali ed evitare quindi sorprese.
Il Piemonte è scosso da questa tragedia e la nazione anche, il Presidente della Repubblica Saragat invia un messaggio di cordoglio alle famiglie dei caduti e all'Arma.
I tre caduti, su un autocarro militare, scortati dalle Giulie del Nucleo Radiomobile dell'Arma, raggiungono Torino e vengono esposte alla visita della cittadinanza presso il Comando di Legione, alla presenza dei massimi vertici militari, vegliati da un picchetto di Carabinieri in alta uniforme, da lì il giorno successivo vengono portati nella Chiesa di San Filippo.
I funerali di Stato sono imponenti tra il dolore immenso delle famiglie e dei loro colleghi. Sei figli, quasi tutti giovanissimi rimangono senza il padre, caduto nell'adempimento del dovere. Si aprirà una sottoscrizione da parte di alcuni giornali per dare un minimo sollievo ai parenti.


Roberto Nicolick

la cianciulli

Leonarda Cianciulli
i delitti della saponificatrice di Correggio ( Ferrara)

Dal 1939 al 1941 a Correggio una cittadina in provincia di Ferrrara, avvengono tre sparizioni di donne, non più giovani, sole, quasi senza parenti, i loro nomi sono Faustina Setti, Clementina Soavi e Virginia Cacioppo rispettivamente di 70 , 50 e 59 anni.
Le sparizioni non destano allarme sociale immediato, perchè si era nel periodo bellico e molte persone a causa dei bombardamenti e delle vicissitudini della guerra, erano scomparse e non se ne era trovata più traccia.
In realtà dietro a queste scomparse c'era una donna, Leonarda Cianciulli, una mente diabolica la quale, con scaltrezza, aveva elaborato un piano con la collaborazione parziale di suo figlio.
La donna mirava in prima istanza alle risorse economiche delle vittime, che lei circuiva grazie alla sua personalità seduttiva. Questa donna fu una delle prime serial killer, non maschio, della storia criminale e alcuni particolari delle sue gesta furono davvero spaventose.
A qualcuna delle sue vittime, prometteva di farle conoscere un probabile fidanzato, ad un'altra faceva balenare la possibilità un nuovo lavoro ad un'altra ancora un destino genericamente migliore.
Dopo un breve periodo di frequentazione le invitava in casa sua e provvedeva ad agire quando lo riteneva opportuno.
Potevano essere i classici delitti perfetti, anche perchè i resti delle vittime non vennero mai trovati in quanto l'assassina , dopo l'uccisione che avveniva con un fendente di accetta, dopo averli denudati ne smembrava i corpi poi immergeva il corpo a pezzi in un pentolone e faceva bollire lungamente il tutto a 300 gradi. Nel contenitore aggiungeva diversi litri di soda caustica con allume di rocca e pece greca, dopo questa lunga lavorazione, rimaneva sul fondo del pentolone una poltiglia molle e vischiosa che in parte veniva gettata nei tombini o nel canale sotto casa, il resto invece era seccato e serviva a confezionare dei pasticcini da offrire alle amiche in visita o allo stesso figlio dell'omicida.
Nel verbale di interrogatorio la donna dichiara che con una delle vittime, particolarmente grassa, aggiunse nel pentolone della cottura un flacone di colonia e alla fine della bollitura produsse delle saponette particolarmente cremose e profumate, anche i pasticcini risultarono morbidi e gustosi.
La vicenda acquisì dei toni particolarmente raccappriccianti perchè sia i pasticcini che le saponette, prodotti in questo modo macabro, erano regalati alle amicizie e usati dalle numerose conoscenti della serial killer oltre chè da lei stessa e dal figlio
La Cianciulli dopo ogni omicidio , inviava il figlio in città , a Piacenza, a spedire lettere e cartoline apocrife agli eventuali parenti per tranquillizzarli, in cui le vittime affermavano di stare bene di essersi volute allontanare da casa per iniziare una nuova vita, si trattava di depistaggi.
Intanto la parente di una delle donne scomparse, non si dà pace e intuisce che c'è qualcosa che non va nella partenza repentina della sua congiunta e presenta denuncia alla Questura di Reggio Emilia che incarica delle indagini un Commissario molto abile, il quale indagando trova nelle tre donne un denominatore comune : tutte frequentavano assiduamente la casa di Leonarda Cianciulli a Correggio, un piccolo e sonnacchioso comune della provincia e soprattutto ne subivano il fascino.
La donna viene interrogata e da subito mostra un carattere forte a dispetto della sua taglia minuta, 1,50 per 50 kg. Ma il funzionario di polizia rintraccia presso un prete della zona un buono del tesoro che era appartenuto ad una delle vittime, la Cacioppo Virginia. Il prete afferma che il buono gli è stato consegnato da un certo Spinarelli, amico della Cianciulli, che disse a sua volta di averlo ricevuto dalla stessa Cianciulli a saldo di un debito pregresso. La donna viene trattenuta in questura ed è sottoposta ad un interrogatorio stringente a cui inizialmente tiene testa per poi dopo lunghe ed estenuanti sedute, cedere alle domande degli inquirenti e fornire una confessione integrale, rivelando particolari terrificanti: oltre alla saponificazione delle vittime ed alla preparazione di pasticcini, ammise tranquillamente di aver divorato parti delle vittime in uno stufato, in un bollito e anche in un arrosto.
Dalle perquisizioni nella sua abitazione venne trovata una dentiera e del sangue appartenente ad una delle donne uccise. La dinamica era semplice, quando aveva completamente depredato la donna dei suoi averi passava alla eliminazione,il colpo di grazia veniva assestato con una accetta, poi il cadavere era trascinato in uno stanzino dove era “lavorato” successivamente.
L'omicida nativa dell'Irpinia ed in seguito trasferitasi in Emilia è una personalità complessa, sposatasi con un impiegato statale sopporta, nel corso degli anni, ben 13 gravidanze e ne porta a termine solo 4, crede in una sorta di magia nera e pensa con gli omicidi compiuti e con le pratiche successive di smembramento e cannibalismo, di esorcizzare il maleficio che una maga le predisse anni prima. Da adolescente subirà il fascino negativo della grande madre che la obbliga a condurre la vita secondo i suoi dettami, tenerà anche il suicidio in giovanissima età
Sotto interrogatorio, confesserà integralmente i tre omicidi e nel processo sosterrà con convinzione di averli compiuti come un sacrificio umano per rabbonire forze oscure, mentre secondo il Pubblico ministero avrebbe agito per avidità nei confronti delle risorse economiche delle sue vittime che in effetti, dopo la loro morte, provvedeva a depredare completamente.
Il processo inizierà nel 1946 a guerra terminata e il 20 luglio dello stesso anno, verrà condannata, per triplice omicidio e vilipendio di cadavere, a 3 anni di manicomio più 30 anni di carcere, in cui non entrerà mai perchè rimarrà nell'ospedale psichiatrico di Pozzuoli per ben 24 anni dove morirà nel 1970 per un malore.
Gli strumenti usati negli omicidi, accetta, mannaia, seghetto segaosse, coltelleria varia e ceppo sono conservati nel museo criminale di Roma a disposizione degli studiosi.
Presso la Corte di Assise di Reggio Emilia è conservato un memoriale difensivo di circa 700 pagine in cui lei spiegava cosa l'aveva costretta a compiere quei tre delitti e le pratiche successive, tuttavia secondo alcuni, non aveva gli strumenti culturali per creare una simile opera che venne accreditata ai suoi avvocati che tentarono di farle dare l'infermità totale di mente.
Secondo una leggenda metropolitana venne anche condotta segretamente presso il gabinetto di dissezione anatomica della facoltà di medicina per farle ripetere i gesti di smembramento dei corpi di cui lei parlava ma ciò non corrisponde a verità.

Roberto Nicolick

l'uccisione di Don Guido Salvi

L'uccisione di Don Guido Salvi
Bosco del Garau ( Calizzano )
1 marzo 1944


Don Guido Salvi, 51 anni, era il parroco di Castelvecchio di Rocca Barbena un piccolo centro, poco sopra Albenga. Don Guido era nativo di Camogli e svolgeva la sua missione in questo pugno di case a cavallo dell'Appennino Ligure.
Era un prete che prendeva sul serio la missione del sacerdozio, aperto e comunicativo, aveva legato molto con gli abitanti del paese, e soprattutto per cultura e voglia di fare molto vicino ai giovani con cui dialogava spesso, aprendo loro le porte della Chiesa, della Canonica e soprattutto dell'Oratorio della Chiesa di Nostra Signora dell'Assunta, una antica e splendida Chiesa con un affresco sulla facciata, un piccolo campanile una meridiana.
Don Salvi aveva educato alla fede diverse generazioni di ragazzi del paese, ma il suo lavoro non si fermava alla religiosità era sempre presente concretamente dove ci fosse bisogno di braccia per aiutare gli agricoltori della zona. Era quindi il contraltare alle bande di partigiani che giravano nel territorio, bande profondamente ideologizzate, logico che la sua figura fosse invisa a certi capi che lo vedevano come un personaggio ostile.
Una sera, il primo di marzo del 1944, un gruppo di persone armate arrivò, dalle alture circostanti, alla Canonica ma non era una visita di piacere, sotto la minaccia delle armi prelevò il sacerdote per portarlo fuori dal paese, arrancarono per diversi chilometri in direzione di Calizzano.
Gli uomini che lo sequestrarono, indossavano la divisa dei partigiani comunisti, sulle loro giubbe spiccava la stella rossa, quella che, decenni dopo leggermente modificata, sarebbe diventata il simbolo delle bierre.
Raggiunta una vasta area boschiva, il bosco del Garau, sotto la minaccia delle armi, lo costrinsero a scavarsi la fossa e lo assassinarono con una raffica di mitra, dopo avergli dato il tempo di recitare appena una breve preghiera, bontà loro.
Fu un omicidio, come tanti in quel periodo, senza spiegazioni, dettato dalla ferocia e dalla intolleranza dei partigiani comunisti che infestavano quelle zone e che imponevano con la violenza le loro regole.
Forse Don Guido Salvi non voleva piegarsi a queste regole, non assisteva senza protestare a furti travestiti da requisizioni che colpivano le già magre risorse dei contadini della zona. Inoltre questo prete per il suo atteggiamento onesto era rispettato dai militari Tedeschi e dai Repubblichini e aveva un largo seguito tra la gente del posto sottraendosi al potere delle bande che taglieggiavano i contadini usando lo scudo della resistenza.
Ancora oggi le associazioni reducistiche partigiane non danno alcuna spiegazione di questa esecuzione sommaria, un omicidio eccellente, inspiegabile per tutti ma non per qualcuno che sapeva benissimo quello che faceva.
La cosa triste è che nel gruppo di partigiani rossi che lo presero e che lo uccisero, c'erano anche dei giovani abitanti di Castelvecchio, persone che lo conoscevano bene e che lui conosceva allo stesso modo.
Don Salvi non fu l'unico sacerdote ammazzato dai partigiani comunisti, infatti un sacerdote molto scomodo perchè orientato politicamente a destra, Don Antonio Padoan, figlio di un ufficiale, noto per le sue omelie in cui invitava i giovani ad aderire alla R.S.I., per queste sue posizioni ricevette una visita in canonica da partigiani comunisti. Don Padoan che era armato fece resistenza e fu finito con un colpo di pistola in bocca, a evidenziare l'odio che i suoi assassini nutrivano per lui, poi nel luglio del 44, Don Virginio Icardi, parroco di Squaneto, fu assassinato a Pareto, fu liquidato perchè guidava una brigata di partigiani non comunisti che manteneva l'ordine e la legalità nel territorio attorno a Spigno Monferrato.
A maggio del 1945, presso Cesino, Genova, veniva assassinato Don Colombo Fasce, il quale era a conoscenza dei nomi di responsabili di molte esecuzioni sommarie nell'immediato dopoguerra e pertanto doveva essere messo a tacere. Stesso destino per Don Andrea Testa, parroco di Diano Borrello in provincia di Imperia, anch'egli ammazzato dai partigiani comunusti.

Roberto Nicolick

l'eccidio di Giustenice

Giuseppe Goso e Lorenzo Ricci, ovvero l'odio oltre la morte
3 settembre 1944
Giustenice

Il geometra Giuseppe Goso, segretario comunale di Giustenice è il corrispondente de Il lavoro di Borgio Verezzi ha 34 anni una persona per bene come d'altronde lo è Lorenzo Ricci , detto Bartolomeo, messo comunale nella stessa amministrazione , di anni 60, entrambi con famiglia. Questi due funzionari comunali avevano l'incarico di censire il bestiame , bovini e ovini, presso il territorio del piccolo comune.
Non dobbiamo dimenticare che in quel periodo e in quella zona avvenivano spesso delle macellazioni illegali, e quelle carni venivano vendute al di fuori di Giustenice, si trattava di violazioni annonarie che comunque erano sanzionate severamente.
Comunque Goso e Ricci non erano elementi violenti del Partito Fascista Repubblicano, non portavano neppure un'arma. La loro morte è stata una delle tante, che avvenivano durante la guerra civile che tanto sangue innocente sparse nel nord Italia, da una parte e dall'altra. I due sventurati furono prelevati da un gruppo di partigiani e ammazzati o come si usava dire allora “giustiziati”, anche se la Giustizia con tutti questi omicidi c'entrava ben poco. Chi li uccise non ebbe alcuna punizione di natura penale, anche perchè non si seppe mai, ufficialmente il suo nome, che secondo alcune voci poteva essere Volpi o Volpe, anzi qualcuno disse che vennero assassinati per aver consegnato gli elenchi del bestiame all'esercito Tedesco sotto la minaccia di essere deportati se non avessero ottemperato all'ordine Germanico.
Passano gli anni e i loro parenti, pur con il dolore nel cuore per questa ingiustizia patita, tentano di darsi una ragione. Queste due povere anime, avrebbero potuto riposare in pace quando il caso e soprattutto la malvagità umana ripropose i loro nomi in una occasione, esattamente nel dicembre del 1976.
In quei giorni il comune di Giustenice toglie dalle pareti esterne del palazzo comunale due lapidi, su cui erano incisi i nomi dei caduti della prima e seconda guerra mondiale. I nomi erano illeggibili per la esposizione alle intemperie.
Nessuno, forse ne è a conoscenza, ma sulla lapide che commemora i caduti del secondo conflitto, vi sono anche i nomi dei due “giustiziati sommariamente” . Tutti questi nomi andavano i trasferiti su di un cippo, eretto in piazza, con i contributi del comune, della Provincia di Savona,di alcune banche e anche di una pubblica raccolta di cittadini. Il blocco di pietra con i nomi dei caduti, compresi Goso e Ricci, viene scoperto in una pubblica e solenne cerimonia, alla presenza delle autorità, ma qualcuno in un rigurgito di odio vecchio e stantio, affigge per il paese una serie di manifesti, vergati a mano, in cui un Comitato Permanente antifascista di Giustenice, Pietra Ligure Tovo San Giacomo con termini duri e autoritari stigmatizzano il fatto che sul blocco di pietra ci siano i nomi di due “fascisti” accanto a dei nomi di partigiani.
Con questi fogli manoscritti , pure con una prosa vecchia e obsoleta, alcuni vecchi arnesi vogliono ricreare un clima di odio che doveva essere oramai lontano.
Le famiglie delle due vittime ricadono in una atmosfera di intolleranza e discriminazione che ha poco di umano e di civile.
La pietà l'è morta e invece l'odio di marca stalinista no, anzi rivive con violenza. Pare che a stilare , con poco rispetto della sintassi, i fogli siano stati due o tre aderenti al P.C.I., nel 1976 si chiamava ancora così. Il gesto di accanimento fu comunque sostenuto dalla associazione che raggruppa i partigiani, avvallando una azione che allora come sempre, va contro la convivenza civile e la volontà di pacificazione.
La pianta dell'odio è sempre annaffiata e potata da chi ha interesse a spargere questi veleni. Comunque questi soggetti che tanto hanno ululato per un presunto scandalo, forse non hanno memoria storica di quello che nel 1943 - 1945 accadde ad Altare : un Generale della R.S.I. Amilcare Farina, quindi uno che era dall'altra parte, creò un cimitero militare dove trovarono posto , uno accanto all'altro, fascisti e partigiani.
Questo Ufficiale Repubblichino dimostrò molta più pietà umana di questi sedicenti combattenti della libertà che comunque al momento della esecuzione sommaria di Goso e Ricci non vollero neppure prendersi la responsabilità dell'uccisione, infatti a tutt'oggi i responsabili sarebbero degli sbandati senza nome, una versione molto comoda per chi ha realmente ammazzato Goso e Ricci.


Roberto Nicolick

ho sposato un musulmano

Ho sposato un musulmano

La donna con cui parlo, è attraente, alta , mora ma con gli occhi velati da una tristezza infinita, fa un lavoro dirigenziale in un ente pubblico, ama o meglio amava la cultura mediorientale e in particolare i cibi etnici. Abita in un piccolo centro della Liguria, ma temo che molte donne Italiane si riconoscano in lei, ha voluto raccontarmi quello che le è successo, affinchè possa essere di monito ad altre Italiane affinchè non ripetano il suo stesso errore.
Un giorno di qualche anno fa, una amica la invita ad una cena, per gustare il mafè, un gustoso spezzatino condito con olio e pasta di arachidi, un piatto della cucina Senegalese, di cui la donna è ghiotta.
Durante la cena, di gruppo, la giovane donna incontra e conosce un uomo di colore, proveniente dal Senegal, alto, atletico, simpatico e con un bel sorriso, la affascina e tra loro nasce prima una amicizia e poi in seguito una relazione sentimentale.
L'uomo , lavora saltuariamente come operaio, parla e capisce l'Italiano in modo sufficiente e inizia a frequentare assiduamente la donna che ne è affascinata e lo ama in modo disinteressato.
Da subito egli manifesta una gelosia in modo sempre più crescente, gelosia che diventa ogni giorno sempre più insana nei confronti della donna che considera sua in modo esclusivo, esercitando su di lei un controllo ossessivo.
Quindi le chiede di sposarlo, secondo il rito Islamico, dopo giorni di continue insistenze, la povera donna cede e acconsente al matrimonio nella speranza, poi rivelatasi vana, che egli cambi atteggiamento e diventi più tollerante, inoltre lei sa che il matrimonio non ha una valenza legale se non ha un seguito presso il comune .
L'iman, convocato dall'uomo, arriva nella casa della donna e celebra il matrimonio tra i due. Da quel momento il giovanotto di colore afferma a pieno diritto, suo, che la donna che egli ha sposato è praticamente un suo possesso, quindi la speranza che la donna nutriva, di un ammorbidimento da parte sua è andata delusa già dall'inizio.
A questo punto l'uomo si installa stabilmente nella casa della “moglie”, e per un nonnulla, inizia a picchiarla.
Addirittura, alla mattina, quando si alza da letto la prende a schiaffi solo perchè egli ha fatto un sogno in cui lei, lo tradiva. E' un vero e proprio delirio, da cui la donna terrorizzata inizia prendere le distanze, dormendo in un'altra stanza, sul divano con un coltello da cucina sotto il cuscino. Lui continua a lavorare a momenti alterni, mentre lei si reca al lavoro come ad una liberazione anche se momentanea, dato che poi deve tornare a casa dove lui la aspetta.
La povera donna ha una amica, che è collega sul lavoro, con cui si frequenta per un caffè o per un semplice aperitivo, questa amica conoscendo la situazione infelice in cui vive, cerca di sostenerla. Anche di questa amicizia il nero Islamico è geloso e giunge al punto di accusare sua”moglie” di omosessualità ordinandole in modo categorico di troncare l'amicizia.
Visto che lei non ottempera ai suoi ordine, prosegue nelle percosse procurandogli un trauma cranico e diverse contusioni. La misura è colma per la poveretta che , dopo molte esitazioni, lo denuncia presentando dei certificati medici e lo estromette dalla sua abitazione e dalla sua vita. L'uomo è rinviato a giudizio e a breve ci sarà una prima udienza.
Le molestie non si fermano qui, purtroppo, spesso la donna lo trova davanti al palazzo dove ha sede il suo ufficio negli orari di uscita e ingresso, lo nota mentre gironzola sotto casa di lei, riceve moltissimi squilli sul suo cellulare, sa che chiede di lei in giro, tenta di conoscere i suoi spostamenti, spera di sorprenderla in giro con un uomo, insomma non è una vita facile.
Ora lei aspetta il processo e tenta di riappropriarsi della sua esistenza e di tornare alla normalità ma capisce che sarà molto difficile, lui, avendola sposata, la considera sempre di suo possesso e ad una cultura così bestiale non è facile sfuggire e qui subentra la paura di una donna che si sente in pericolo e che alla luce dei femminicidi che stanno insanguinando la nostra terra, ha paura di fare una brutta fine senza che nessuno intervenga in tempo.


Roberto Nicolick

il genocidio Ucraino



Il genocidio Ucraino
Holodomor

Dal 1925 Stalin preso il controllo totale dell'Unione Sovietica, iniziò una violenta campagna di collettivizzazione dell'agricoltura in modo da rendere omogeneo tutto il paese alle sue direttive, inizialmente su base volontaria e poi vista la impopolarità di questa proposta, su base coercitiva. Queste sue indicazioni si scontrarono in modo particolare con le tradizioni delle popolazioni rurali Ucraini, che detenevano la proprietà di piccole aziende agricole le quali producevano in modo efficiente piccole - medie quantità di derrate agricole con cui potevano provvedere ai propri fabbisogni e anche a commercializzarle.
Con la collettivizzazione forzata, voluta da Stalin si ebbero sui contadini Ucraini effetti particolarmente drammatici, in quanto si trattava di un esproprio di tutte le proprietà in modo coatto e senza appello. Questi espropri andavano contro un cultura locale secolare che aveva sempre dato ottimi risultati nonostante il clima duro e rigido.
Il termine Kulako fu coniato impropriamente dal Partito Comunista Sovietico, per definire una classe sociale privilegiata, i contadini riottosi ad allinearsi a norme aliene e suicide, e quindi creare un bersaglio sociale da additare agli altri sudditi dell'impero sovietico e successivamente da eliminare fisicamente.
Chi possedeva tre mucche era considerato un possidente e quindi un nemico da abbattere.
Gli agricoltori Ucraini piuttosto che farsi espropriare i loro animali da un governo centrale che perseguiva quel tipo di politiche economiche, iniziarono ad abbattere i loro animali per non farseli sequestrare e in molti casi si rifiutarono di seminare e raccogliere il grano per protesta contro la collettivizzazione forzata.
Stalin inviò in Ucraina moltissimi funzionari governativi, veri e propri poliziotti, per attivare un ferreo controllo sulla produzione agricola e creare delle fattorie collettive gestite da migliaia di devoti Comunisti, inviati apposta per sostituire i contadini Ucraini che non erano più giudicati affidabili dal potere centrale di Mosca.
La repressione iniziò a farsi sempre più dura, in alcune località i contadini esasperati reagirono con vere e proprie rivolte locali attaccando i funzionari del governo e dando alle fiamme le poche aziende collettive create artificiosamente dal governo Stalinista.
Nel 1929 – 30 la repressione comunista toccò il suo acme, con la militarizzazione dell'Ucraina, l'uso personale dei prodotti della terra fu giudicato un reato contro lo stato, condannando alla fame le popolazioni Ucraine.
Grano, barbabietole, patate e verdure di ogni tipo furono requisite dalle brigate di assalto della polizia politica del regime comunista e dalle forze di repressione, il territorio dell'Ucraina fu praticamente circondato da una cintura sanitaria armata che impediva il transito verso di esso di qualsiasi tipo di viveri. L'Ucraina divenne di fatto un enorme campo di prigionia.
Anche solo detenere quantità minime di grano o altre derrate equivaleva ad essere arrestati e deportati nei famigerati gulag in Siberia, destino che toccò a trentamila contadini e alle loro famiglie.
Il risultato di questa politica odiosa fu una carestia che colpì soprattutto le fasce più deboli, anziani, donne e bambini, una carestia che fu un atto voluto e deliberato per annientare una popolazione da tempo dedita all'agricoltura e per sostituire questo popolo con elementi più fidati e devoti al regime comunista ex bolscevico.
Grazie a questi atti, repressione militare, deportazioni, immigrazioni forzate, abbandono delle terre coltivate, e conseguente carestia si stima che l'Ucraina ebbe ben sette milioni di morti, soprattutto adolescenti e donne deceduti prevalentemente per fame e inedia.
Si trattò di un genocidio voluto da Stalin e dal suo gruppo dirigente.

Questa immane tragedia che i Sovietici tentarono di non far conoscere al mondo civile e che da noi è poco è nota, prende il nome dalla lingua Ucraina con il termine Holodomor che , tradotto, significa : “infliggere la morte attraverso la fame” ed è attualmente commemorata in Ucraina il quarto sabato di novembre.

la famiglia Navone di Albenga

Eccidi di famiglie intere
La famiglia Navone di Leca di Albenga

Era una prassi scellerata quella di eliminare completamente, giustiziandoli sommariamente, interi nuclei famigliari che a discrezione dei partigiani, fossero giudicati collaborazionisti dei Repubblichini, la stessa cosa se il nucleo avesse un orientamento politico fascista.
A Savona fu sterminata la famiglia Turchi in località Ciatti, a Natarella, sempre Savona, scomparve la famiglia Biamonti domestica compresa e ad Albenga, fu massacrata in modo plateale la famiglia Navone, formata da ben otto elementi, in Leca di Albenga una frazione di Albenga.
Fu un fatto orrendo di cui oggi , come allora, non si parla assolutamente, preferendo focalizzare l'attenzione sugli eccidi commessi dai Nazi fascisti alla foce del Centa, alle cui vittime deve essere portato rispetto e ne deve essere alimentato il ricordo, senza tuttavia dimenticare le altre vittime dell'odio e della intolleranza.
La famiglia Navone era composta dal capofamiglia Giovanni, nativo di Villanova ma residente a Leca, una frazione adiacente alla cittadina Ingauna. Egli era uno squadrista convinto, aveva partecipato alla nascita del fascismo in Liguria e in seguito aveva aderito alla Repubblica Sociale , sessantacinquenne, era un tipo deciso, aveva un curioso soprannome, “pipetta”, poi c'era la moglie Maria Danielli, una casalinga tutta dedita alle faccende domestiche, di 56 anni, c'erano ben quattro figlie, Rosa, Bice, Rita e Irene , rispettivamente di 36, 35, 28 e 20 anni, e un figlio sedicenne Leo, colpevole di non si sa cosa, forse solo del fatto di appartenere ad una famiglia con spiccate simpatie Repubblichine.
In quei giorni, era presente al momento dell'eccidio anche una nuora di Giovanni Navone, Gina Fanucci di 31 anni, anch'essa venne accomunata nella carneficina dei Navone, la sua colpa quella di aver sposato un figlio di Giovanni, Elso, deceduto qualche tempo prima in un incidente all'interno di una caserma di Albenga dove prestava servizio nella Guardia Nazionale Repubblicana.
Questa strage, che nulla aveva a che fare con la Liberazione, fu accreditata ufficialmente come opera di ignoti. Albenga dal 1943, era un crocevia di violenze, personaggi con la divisa della gendarmeria Tedesca, ma che Tedeschi non erano, imperversavano sulla popolazione civile che ne era terrorizzata.
All'indomani del 25 aprile 1945 iniziarono le vendette che secondo un teorema morale avrebbero dovuto riscattare da 20 anni di oppressione e violenze fasciste. In realtà ai vecchi dominatori si erano sostituiti, almeno temporaneamente, altri soggetti dal mitra facile che volevano lavare il sangue con altro sangue.
Qualcuno addebitava a Giovanni Navone una attività di delazione, nello specifico a danno della fidanzata di un noto capo partigiano. La povera ragazza, arrestata dai nazisti subì delle sevizie e morì in seguito a queste torture.
Il capo partigiano, colpito negli affetti, colmo di odio vendicativo, si presentò la sera del 26 aprile 1945 probabilmente non da solo, alla porta della famiglia Navone, imbracciava un pesante fucile mitragliatore, forse un MP40 tedesco, con cui spesso si faceva fotografare mentre lo imbracciava, oppure un Thompson di fabbricazione Americana e senza andare tanto per il sottile, iniziò a sparare nel mucchio, freddamente e metodicamente, passando implacabile, da un bersaglio all'altro e scavalcando i corpi dei morti, subito freddò la moglie di Pipetta che gli aprì l'uscio, poi inseguì le ragazze che urlando di terrore cercavano di sfuggire alle raffiche, qualcuna cercò di nascondersi sotto il tavolo ma fu colpita anche lei ugualmente. Inseguì le sue vittime nelle camere da letto e le abbatté, quindi si trovò di fronte il capofamiglia e il ragazzino, Leo e con una lunga raffica, pressoché ininterrotta ammazzò anch'essi e per ultima freddò la nuora di Giovanni che si era rincantucciata tremante in un angolo.
In quella casa c'era anche un piccolo animale domestico, che venne ucciso anch'esso, forse per qualche pallottola vagante, oppure perchè c'era la volontà di annullare tutto di quella famiglia, dimostrando l'odio assoluto e la totale mancanza di sentimenti umani sfogando il proprio rancore su delle donne e su un adolescente e persino su un gatto.
Presumo che le sue vittime, implorarono pietà, mentre le mitragliava, ma lui non la concesse, mettendosi sullo stesso piano dei boia che avevano torturato e ucciso la sua fidanzata. Voleva solo vendicarsi, ed era arrivato a compiere quella strage senza nessuna indagine, basandosi solo su voci di paese, senza contare che se effettivamente ci fosse stata una spia nella famiglia Navone, non tutta la famiglia comunque doveva essere sterminata ma solo il responsabile.
Quando l'assassino si allontanò dal teatro dell'eccidio, lasciò dietro di sé una scena da film dell'orrore : sangue ovunque, sui muri, sul pavimento e sui mobili, corpi quasi smembrati dal calibro da guerra del fucile mitragliatore, odore pungente di cordite e tanta devastazione.
Quell'uomo che senza esitazione, sparse tanto sangue, senza chiedersi se fosse innocente, in seguito, fu insignito della medaglia d'argento al Valore Militare, non credo e spero non per questo episodio che ha solo del criminale.
Intervistato in una trasmissione televisiva degli anni 90 , ammise con freddezza “ qualcuno l'ho tolto di mezzo” , chissà se faceva riferimento alla famiglia Navone che massacrò senza pietà ? Come tanti altri partigiani, egli aveva un soprannome, che era tutto un programma : cimitero, nomen omen.
In seguito sparì dalle cronache e non fu più argomento di conversazione, invece i cadaveri con cui lui riempì i cimiteri, si.


Roberto Nicolick

Il calesse del terrore Valle Tanaro

Il calesse del terrore
Valle Tanaro
1943 -1945

Non solo nei grandi centri abitati, imperversava il terrore, ma anche nelle zone alpine accadevano dei soprusi e degli omicidi. Le zone dove noi Liguri siamo abituati ad andare in ferie, il basso Piemonte, furono teatro dal 43 al 45 di azioni di vero e proprio brigantaggio.
Ezio Bovero, Carlo Camilla, Giuseppe Ruffino, Francesco Dante, Battaglieri, Cozzo, sedicenti partigiani operanti nella Valle Tanaro nel 1943 -45, erano infatti tristemente famosi nella zona del Cebano e della Valle Tanaro, giravano armati su di un calesse trainato da un cavallo. Il veicolo su cui viaggiavano era soprannominato dai contadini della zona, il calessino della morte, per dei motivi validissimi, connessi alle esecuzioni sommarie di tanta brava gente, che nulla avevano a che fare con il Fascismo, e i principali esecutori, Bovero, Camilla e Dante erano noti come il terzetto del terrore.
Mentre le formazioni partigiane Mauri erano in montagna per sfuggire ai rastrellamenti dei Nazi fascisti, questi dormivano nei loro letti, al caldo delle loro case, da cui partivano per effettuare ruberie, spoliazioni ed esecuzioni sommarie a Bagnasco, Ceva, Mombasiglio. Era una vera e propria banda armata, senza scrupoli che ben poco aveva a che fare con la resistenza .
Secondo il Maresciallo dei Carabinieri di Bagnasco, Ascione che indagò sulla banda autodenominatasi della stella rossa, questi soggetti, erano stati un tempo alle dipendenze e soprattutto alla scuola di un sedicente ufficiale partigiano, Dino Mora, il quale forniva le indicazioni strategiche su come agire nel territorio.
Mora , come i suoi compagni di violenze, provenivano da una formazione Mauri, quindi da un gruppo non comunista, in seguito compresa la situazione di impunità in cui si trovavano ad agire e la assoluta mancanza di leggi, decisero di mettersi in proprio e si staccarono dalle formazioni Mauri.
Dino Mora, accusato di aver compiuto diversi omicidi ingiustificati, per esempio quello di un ingegnere civile Fulvio Albesano, di un militare Tedesco che si era arreso anche e di violenza carnale ai danni di una povera contadina, fu arrestato e condannato alla pena capitale, poi eseguita mediante fucilazione.
Morto Mora, i suoi compagni, non si fermarono anzi continuarono ad imperversare nella Valle Tanaro imponendo la loro legge.
Per meglio marcare la loro diversità dai Mauri e per darsi una identificazione politica, si erano cuciti una stella rossa sulle uniformi.
Un'altra vittima della banda fu il Segretario Comunale di Bagnasco, Berruti, in tale occasione gli assassini affermarono che le esecuzioni erano decise da loro in piena autonomia e che quando c'era da eseguirle non era necessario alcun ordine da nessuno.
In tale occasione il povero Oreste Berruti fu ucciso mentre era in ginocchio, terrorizzato, che pregava con un rosario tra le mani giunte. Dopo che fu ucciso qualcuno dei tre assassini gli tolse il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, il tutto davanti alla moglie della vittima che dovette assistere alla morte del marito.
Berruti non era assolutamente un fascista anzi, aveva sempre aiutato i patrioti, quelli veri, e per questa sua esposizione era anche stato arrestato dai Tedeschi, ma nonostante questo non ci fu nulla da fare, fu assassinato dal terzetto del terrore.
Un'altro episodio efferato di questi briganti con la stella rossa, fu l'omicidio della Maestra Cristina Barberis e del tentato omicidio del figlio di lei, Attilio che riuscì a fuggire benchè ferito dalle pallottole che Bovero e Camilla gli spararono addosso.
Il 27 aprile del 1945, ancora la squadra capitanata dai tre, arrestò e ammazzò senza pietà Carlo Boschetti, unicamente perchè indossava la divisa da marinaio. Quando fu preso egli affermò che si stava recando da una formazione partigiana a consegnarsi.
Anche un Carabiniere, certo Del Buono, non sfuggì alla morte, perchè secondo i tre, egli manifestava odio per i partigiani ed aveva simpatie per i fascisti, in realtà il povero carabiniere si era congedato dall'arma per non essere inglobato nelle Brigate Nere. Dopo le esecuzioni sommarie i banditi dicevano ai parenti delle vittime, che loro applicavano “la legge del mitra”.
Questo gruppo aveva potere di vita o di morte su tutti in quella zona. Si erano anche procurati una lista di proscrizione in cui c'erano i notabili e i benestanti della zona da taglieggiare. Nel marzo del 49, la giustizia fece il suo corso e i criminali furono rinviati a giudizio e processati presso la Corte di Assise di Novara.
Durante il processo fu ascoltato lo stesso Comandante Mauri il quale espresse l'opinione della esistenza di una regia esterna, che indirizzasse le azioni degli imputati. Anche i parenti delle numerose vittime accertate si presentarono come parte civile per fare valere le loro ragioni.
Il Pubblico Ministero chiese per i principali imputati trenta anni a testa , più diverse somme alle parti civili. Il 30 marzo 1949, dopo sei ore di camera di consiglio, il Tribunale di Novara riconobbe Ezio Bovero e Carlo Camilla colpevoli di omicidio continuato aggravato, con le attenuanti generiche, e li condannò a venticinque anni di reclusione, Dante per concorso in omicidio a nove anni e sei mesi, Giuseppe Ruffino a cinque anni per rapina, Fortunato Cozzo e Francesco Battaglieri a due anni per furto. Condannava inoltre gli imputati a versare alle parti lese delle somma da ottanta mila a duecentoquarantamila lire.
Purtroppo le sentenze di condanna parvero sin troppo lievi di fronte al clima di terrore che essi avevano imposto e mantenuto oltre a tutte le vite che erano state ingiustamente spezzate da questa banda che aveva agito troppo tempo indisturbata.


Roberto Nicolick

Katyn

Katyn, una verità insabbiata per lunghi anni

Fra l'aprile e il maggio del 1940, Stalin uno dei dittatori più sanguinari della storia, attuò la parte finale di uno degli orrendi esperimento di ingegneria sociale per cui i Comunisti Sovietici erano famosi: la eliminazione fisica e l'occultamento di circa 22 mila ufficiali di tutti i gradi dell'Esercito Polacco.
Non tutti erano militari di carriera, molti di essi erano allievi ufficiali di complemento, appena usciti dalla vita civile, insegnanti, impiegati, medici, ingegneri, quindi non solo i Sovietici eliminarono i quadri dirigenti dell'esercito Polacco ma disarticolarono anche gran parte della intellighenzia della Nazione e arrivarono anche a deportare le mogli e i figli di questi uomini nell'arcipelago gulag dove la quasi totalità morirono di stenti.
La strage per la maggior parte avvenne tra gli alberi secolari di una foresta, a Katyn, dove vennero scavate otto grandi fosse comuni, 16 per 28 metri, che dovevano accogliere le vittime, ma moltissimi altri ufficiali furono assassinati nei locali di prigioni gestite dall'NKVD.
L'idea di questa pulizia etnica fu di Laurenti Beria, un burocrate comunista, una mente organizzativa e malvagia, molto simile ad Eichman, il quale era a capo del NKVD ( commissariato del popolo per gli affari interni), una potente polizia politica operativa sino al 1953.
Le vittime dopo essere state concentrate per alcuni giorni in campi di prigionia, venivano caricati su automezzi pesanti Mercedes, senza finestrini, e trasportati sino al bordo delle fosse comuni, tutti con le mani legate dietro la schiena e in quel posto assassinati con un colpo alla nuca e fatti cadere nella fossa, in cui erano disposti a strati, uno sull'altro, sino a raggiungere la dozzina di strati.
Tutti questi movimenti di camion non passarono inosservati agli abitanti del luogo che, in diverse occasioni, vennero non visti, a curiosare e poterono assistere da lontano ad alcune esecuzioni, saranno loro che indicheranno in seguito alle truppe Tedesche la dislocazione di queste fosse comuni.
Le armi usate erano di fabbricazione Tedesca e anche le munizioni, per far ricadere la colpa sui Nazisti con cui Stalin si era spartito la Polonia.
Il massacro fu coperto da una cortina di segretezza per non alienarsi gli aiuti degli alleati Anglo Americani.
Nel 1943, la Wermarch invase la Russia e arrivando a Katyn scoprì, grazie alle indicazioni degli abitanti, le fosse comuni e rinvenne migliaia di corpi tutti in divisa da ufficiale polacco, con le mani legate, uccisi con un colpo alla nuca e soprattutto con addosso i loro documenti militari di riconoscimento.
I Sovietici negarono sempre con forza un loro coinvolgimento che comunque era chiaro ed evidente.
In Italia, dopo la caduta del Regime Fascista , ex partigiani nonchè dirigenti del P.C.I. Minacciarono fisicamente chiunque volesse addebitare l'eccidio ai loro compagni sovietici, mentre in Russia tutta la documentazione che avrebbe provato la responsabilità dei Sovietici venne sepolta negli immensi archivi segreti del KGB
Negli anni 90, Gorbaciov ammise la strage e porse le scuse del Popolo Russo alla Polonia, nel 2010 anche se tardivamente gli archivi sovietici desecretarono e misero a disposizione del Governo Polacco tutti i documenti relativi all'eccidio.
Nel 2007, il regista Polacco Andrzey Wajda girò un film “Katyn”, in cui narrava la vicenda senza censure, egli era figlio di uno degli ufficiali massacrati dai Sovietici, il film concorse anche all'Oscar ma non trovò in Italia una grande catena di distribuzione che lo volesse pubblicizzare degnamente e non potè essere proiettato che in pochissime sale cinematografiche.
Ci fu una vera e propria censura strisciante, indegna di un paese civile, come se si avesse vergogna o paura ad ammettere che i Sovietici avessero compiuto un eccidio di quella portata.
Il film dovette affrontare un muro di gomma che gli impedì di essere visto soprattutto nelle scuole o in tutti quei luoghi idonei ad una divulgazione della verità storica, senza i filtri e i freni dei burocrati di partito. Già da anni, subito dopo il 1945, i comunisti si erano impadroniti dei gangli di potere e il cinema come tanti altri era stato monopolizzato dalle sinistre che concedevano o no il nulla osta a film molto peggiori di Katyn ma allineati con il conformismo di sinistra.


Roberto Nicolick

La grande fuga dal carcere del Piazzo , Biella

La grande fuga del carcere di Biella, il Piazzo

Biella, la ridente città del Piemonte, si divide in Biella Piano e Biella Piazzo. Biella Piazzo è la zona più antica di Biella, il borgo medioevale e rispetto alla parte nuova leggermente sopraelevata, sede da tempo immemorabile della casa Circondariale divenuta poi Carcere Giudiziario.
Il carcere è una vecchia struttura, tuttora esistente che verrà ristrutturata per ospitare dei locali ad uso civile, con un grande cortile centrale, ai tempi del carcere giudiziario, era chiamato famigliarmente da chi vi abitava, sia dai galeotti che dalle guardie e dai Biellesi “il Piazzo”.
Questa struttura carceraria, antiquata anche per quei tempi, fu nel settembre del 1946, il teatro di una gigantesca evasione , esattamente il giorno 17, sabato alle 10 del mattino poco dopo la colazione, avvenne una grande fuga per molti versi inspiegabile, in cui 39 prigionieri su 92, controllati da soli 6 agenti, presero il volo, uscendo tranquillamente in corteo dal portone principale, addirittura cantandosela allegramente, mentre a poche decine di metri c'era una importante caserma dell'Esercito Italiano, sede del 22° reggimento Cremona, con una sentinella armata nella guardiola che non intervenne minimamente.
I reclusi del Piazzo, erano di diverse tipologie, divisi tra loro, tranne un gruppo molto omogeneo di una trentina , tutti ex partigiani , in attesa di giudizio per reati per cui, se giudicati colpevoli, avrebbero dovuto scontare condanne da 10 a 20 anni di carcere. Erano tutti esperti di guerriglia con alle spalle attività di natura bellica condotta contro le truppe Tedesche e Repubblichine.
Nella prima fase dell'evasione, un detenuto finse di avere un malore e convinse la guardia ad aprirgli la porta della cella dove erano reclusi altri 5 suoi compagni, lo immobilizzò e dopo averlo disarmato, con le chiavi trovate nel posto di comando, liberò gli altri reclusi, comprese le donne.
Poi i detenuti sempre più numerosi, immobilizzarono le altre guardie costringendole ad aprire i pesanti cancelli che isolavano il primo piano dal secondo.
Nel frattempo un personaggio con una divisa approssimativa : una giacca color caki, bussò alla portone del carcere per distrarre gli agenti a piano terra e per immobilizzarli successivamente all'arrivo dei detenuti dai piani superiori.
Mentre si avvicinavo al cancello principale i reclusi avrebbero prelevato altre pistole alle guardie poi sarebbero usciti, come in corteo, imboccando la stradina in discesa, il vicolo del Bellone.
E sempre cantando si sarebbero sparsi per i campi dove avrebbero raccolto delle mele da degli alberi lungo il loro cammino. Prima di uscire qualcuno avrebbe tagliato i fili del telefono per impedire qualsiasi comunicazione. Dal portone uscirono 38 detenuti e l'ultimo della fila , si chiuse il portone alle spalle, impedendo di fatto agli altri di guadagnare la libertà. Una signora affacciata da casa sua, vide in diretta l'evasione e telefonò al Commissariato avvisandoli dell'evasione.
Alcuni agenti si Pubblica Sicurezza corsero sul posto e constatarono la fuga, avvisando immediatamente i Carabinieri. Da Vercelli, la piazza militare più importante, partirono immediatamente alcuni automezzi carichi di militari che giunti sul posto iniziarono delle battute per riprendere gli evasi.
Il che avvenne non senza fatica, 8 furono arrestati dopo una furibonda colluttazione nelle immediate vicinanze del carcere, un altro, con precedenti per rapina, fu ferito dopo una sparatoria con i Carabinieri, gli altri ancora latitanti avrebbero progettato di attraversare i valichi per fuggire in Francia e in Svizzera, a tale scopo starebbero per raggiungere alcuni depositi clandestini di armi, accantonati da loro durante la guerra partigiana per potersi armare e aprirsi la strada verso le loro destinazioni di fuga.
Nel pomeriggio altri 3 evasi venivano tratti in arresto, ne rimanevano ancora in libertà 26, tutti con precedenti pesanti come rapina a mano armata e omicidio, quindi soggetti altamente pericolosi. I carabinieri dei comandi provinciali di Vercelli, Alessandria e Aosta convergevano con rastrellamenti a tappeto e con numerosi posti di blocco, attorno a Biella.

Ad aggravare la situazione c'era che questi evasi ancora in libertà erano sicuramente organizzati in quanto, quasi tutti provenienti dalla guerra partigiana e anche armati, avendo attinto ai depositi clandestini di armi alla cui costituzione hanno partecipato durante il periodo insurrezionale. La maggior parte di essi non verranno mai ripresi.

la strage dei 121 carabinieri reali a Fushe Gura


La strage dei 121 Carabinieri Reali a Fusche Gurra ( Albania )
16 /18 novembre 1943


Fusche Gurra in lingua Albanese significa Altopiano o pianura con l'acqua, in effetti è una grande radura, il cui terreno è impregnato di acqua, a circa 1000 metri di altezza, circondata da boschi fitti e selvaggi e attraversata da un torrente che impetuosamente scende a valle, in questo luogo, a novembre 1943, si consumò un orrendo crimine di massa, assurdo e senza ragioni. Fusche Gurra si trova sull'altipiano di Cermenike,
Più di cento Carabinieri, 121 o secondo alcune versioni 129 , compresi i loro ufficiali e il loro comandante, vennero massacrati da partigiani comunisti Albanesi in questo sito, dopo un calvario di brutalità e di sevizie, probabilmente in due momenti diversi.
L'ufficiale in comando dei carabinieri era il Colonnello Giulio Gamucci, di Firenze che morì dopo immani sofferenze, con i suoi soldati. Chi guidò praticamente e concretamente questa sporca azione partecipandovi armi in pugno, fatto che non ha nulla di militare, ma che fu solo una carneficina, fu tale Xhelal Staravecka di nazionalità Albanese, che ricopriva il grado di capitano del 2° battaglione della 1° Brigata d'assalto, il quale dipendeva dal comandante di Brigata Kadir Hoxha.
E' una storia quasi sconosciuta in Italia, se non in certi ambienti, soprattutto storici o militari, ancora oggi non se ne parla. Il fatto è noto in tutta la sua completezza per la testimonianza di un militare del Corpo degli autieri che assistette personalmente all'eccidio e che testimoniò nonostante le minacce da parte Albanese : “il piombo Albanese ti raggiungerà anche a Napoli”.
Il reparto di Carabinieri, noto come colonna Gamucci faceva parte della Legione Carabinieri Reali di Tirana.
Durante la seconda guerra mondiale, l'Albania era stata occupata dalle forze dell'Asse, per gli Italiani era dispiegata la IX armata, denominata Comando superiore forze armate Albania con l'incarico della difesa del territorio albanese, della Dalmazia meridionale, fino al corso del Narenta, del Kossovano e del Dibrano per proteggere il confine Albanese in direzione sud est e operare dei rastrellamenti contro la guerriglia delle formazioni partigiane albanesi e Jugoslave.
L'8 settembre 1943, con l'armistizio tra l'Italia e gli alleati i reparti della IX armata al comando del Generale Dalmazzo cessarono di avere efficacia militare, mentre le truppe Germaniche senza colpo ferire occupavano le posizioni nevralgiche in Albania. Le truppe Italiane che scelgono di non collaborare con gli ex alleati vengono fatte prigioniere.
Il reparto del colonnello Gamucci in custodia ai Tedeschi viene trasportato, a fine settembre, su un treno verso Bitola in Bulgaria, nel corso di alcuni attacchi di formazioni partigiane fu preso da partigiani che si professavano comunisti che odiavano i Carabinieri in quanto tali e in quanto Italiani.
La sopravvivenza dei prigionieri andò avanti per qualche mese, poi in base ad un ordine segreto del capo di stato maggiore Albanese, Memet Shehu, tutti i Carabinieri vennero disarmati ed internati nel più orrendo dei lager Albanesi, Tepelene. In più erano stati anche condannati a morte su decisione inappellabile e inspiegabile, dal Partito Comunista e avrebbero dovuto essere, testuale, “uccisi come cani”, come disposto dal comando generale.
L'odio dei partigiani comunisti Albanesi verso i Carabinieri, era evidente e non dissimulato. La strage era stata programmata dai vertici della Brigata e come tante atrocità, compiute sugli Italiani doveva rimanere segreta per non creare conflitti con gli Alleati, molto sensibili a questi argomenti, i quali non dovevano interrompere gli aviolanci con viveri ed armi destinati ai partigiani rossi.
La mattina del 16 novembre 1943, iniziò un orrore senza fine, tutti i Carabinieri, più qualche ufficiale compreso il comandante, Gamucci furono costretti a marciare, con i polsi legati dietro la schiena dal lager partigiano, percorrendo una distanza incredibile, 250 km senza scarpe, su e giiù per sentieri impervi, da colline e montagne tra bastonate, calci e pugni e umiliazioni pesantissime. I prigionieri nella parte finale del percorso percepirono la loro imminente fine.
Raggiunto l'altipiano, mentre i loro carnefici posavano a terra lo zaino per avere le mani libere, i prigionieri divisi in piccoli, gruppi furono portati nelle vicinanze del canalone dove scorreva il torrente, gli furono prese le uniformi, e gli effetti personali, quindi completamente nudi, furono assassinati con il classico colpo alla nuca.
Le esecuzioni sommarie avvennero a breve distanza gli uni dagli altri, per cui i poveretti poterono sentire quello che accadeva ai loro commilitoni al di là della cortina di vegetazione: spari e gemiti umani. Il bosco divenne un luogo dell'orrore con corpi sanguinanti, materia celebrale a terra e sui tronchi degli alberi.
Il cosiddetto “ capitano “ Xhelal Staravecka, menò vanto in quella occasione, di aver ucciso , solo lui, ben 17 militari , salvo a tenere un atteggiamento vile sotto il fuoco nemico.
Poi i boia Albanesi ispezionarono la bocca dei cadaveri e a corpo ancora caldo, strapparono i denti d'oro per portarli come prova dell'avvenuto massacro e diligentemente fecero l'inventario delle uniformi, scarpe, anelli, penne, orologi sottratte prima della mattanza, tutto materiale che doveva essere accantonato nei magazzini dell'intendenza, tranne qualche divisa che indossarono subito.
Il battaglione Albanese dormì tranquillamente sul posto accanto ai cadaveri che non furono seppelliti anzi abbandonati alla azione delle intemperie, dopo qualche giorno, finirono nel corso d'acqua che li trascinò a valle contribuendo alla loro quasi completa distruzione. In seguito la Gazzetta Ufficiale Albanese pubblicò i nomi dei “giustiziati” indicandoli come nemici del comunismo. Nelle settimane successive, nello stesso luogo furono sterminati anche i rimanenti ufficiali dei Carabinieri tanto per fare l'en plein.
C'è una voce non confermata, secondo cui a ordinare materialmente la morte dei 121 Carabinieri fosse stato anche un Italiano rinnegato, ex sergente della Divisione Arezzo, divenuto poi capo di una brigata partigiana, tale Terzilio C. a cui in seguito la Repubblica Italiana concesse la Medaglia D'Oro al V.M. Di più, su un monte in Albania, sorge un monumento celebrativo di questo bel personaggio.
Attualmente il suo cadavere è sepolto in Italia, mentre i corpi dei Carabinieri , ufficialmente dispersi, nonostante numerose missioni di ricerca, non hanno ancora una tomba, bisognerebbe scavare il letto del torrente che li trascinò a valle, per una profondità di alcune decine di metri, per trovare almeno le piastrine di riconoscimento di questi poveri ragazzi.
Nessuno dei ex militari Italiani che combatterono nelle file della resistenza Albanese fiatò mai di questa strage una volta tornati in patria, e questa non fu l'unico sterminio di militari Italiani prigionieri da parte di partigiani comunisti Albanesi, infatti in alcune zone montagnose non si poteva andare per il fetore di decomposizione. Su queste stragi, i media Italiani non pubblicarono quasi nulla e l'opinione pubblica non venne informata in modo adeguato.
Su questo crimine contro l'umanità un carabiniere in congedo, pochi anni fa, scrisse un libro che racconta in modo dettagliato ed esaustivo i fatti. Per la cronaca uno dei protagonisti della strage , un importante comandante Albanese fu processato durante la dittatura comunista e condannato all'ergastolo per tappargli la bocca su questo e molti altri eccidi di Italiani sul suolo di Albania.
Roberto Nicolick