venerdì, luglio 31, 2020

Il villino degli scheletri

Il villino degli scheletri

Firenze

Agosto 1944

Mi ha scritto una mail una signora di Firenze che mi ha raccontato una triste storia  i cui protagonisti furono dei partigiani comunisti che compirono le loro gesta criminali, il fatto è abbastanza noto in quel quartiere , Rifredi, ma certamente la memoria di quei crimini sta scomparendo e ben pochi dei giovani Fiorentini sanno di questo crimine.

Ad aprile del 1955, esattamente il 19, durante dei lavori di scavo in un villino situato in Via Corridoni 19 a Firenze, lavori commissionati dal proprietario Francesco Linari, venivano alla luce due teschi umani , i crani ad un attento esame del medico legale presentavano dei fori che vennero valutati come prodotti da arma da fuoco, oltre ai due teschi furono rinvenute e altre ossa sia lunghe, femori, omeri e corte come radio e ulna. Messi insieme le ossa andarono a formare due scheletri quasi completi, un uomo ed una donna, entrambi giovani

Veniva avvisata la Questura di Firenze che accertava che le ossa appartenevano a due persone sfollate nel villino nel mese di luglio 1944 e che in seguito non avevano più dato alcuna notizia di sé.

Si trattava del sergente dell'aviazione repubblicana Luigi Lavatorini di anni 26, nativo di Pontedera e della sua giovane fidanzata, Elisa Bitto di anni 23 nativa di Messina. Il sergente Lavatorini aveva aderito alla RSI e con la fidanzata abitava temporaneamente in quel villino in attesa di sistemazione.

Le indagini ovviamente si rivolsero nell'ambiente degli ex partigiani che nel periodo insurrezionale operavano in quel quartiere, fu fermato ed interrogato un ex partigiano, tale Walter Chiozzi il quale sotto interrogatorio affermò che l'esecutore materiale del duplice omicidio fu un suo compagno di distaccamento, tale Oliviero Grinzani.

Gli omicidi di Lavatorini e Bitto erano stata compiuta con una rivoltella.

Ci fu un confronto in questura ed emerse che Grinzani avevano partecipato alla soppressione della coppia e all'occultamento dei due corpi che erano stati gettati successivamente in un pozzo nero che si trovava nel giardino del villino, mentre il Chiozzi aveva assistito al duplice omicidio e dopo aveva collaborato all'occultamento.

Prima di nascondere i due cadaveri, Grinzani si sarebbe impossessato degli averi dei due. L'omicida non negò di aver soppresso la coppia ma si giustificò dicendo che era una esecuzione sommaria di due spie fasciste, ordinata dai capi del distaccamento partigiano a cui egli apparteneva.

Le indagini portarono anche all'arresto di due ex partigiani, l'operaio Artemino Lapini di anni 35 di Firezne e l'impiegato comunale Vasco Degli Innocenti anche lui di Firenze che a dire di Grinzani lo avrebbero incaricato di liquidare i due allo scopo di impossessarsi dei loro beni personali.

La povera Bitto lavorava presso l'ufficio annonario del comune di Firezne dove era impiegato anche Vasco Degli Innocenti e quest'ultimo sapeva che la ragazza possedeva trecentomila lire e diversi oggetti preziosi il che poteva essere un movente per l'uccisione della sventurata.

Nel procedimento penale si trovarono coinvolti anche tre ex capi partigiani, Sergio Pilati, Raffaello Romel e Mario Cavallini, tutti Fiorentini, i quali convocati dal Giudice Istruttore dichiararono di aver impartito loro l'ordine di “giustiziare” la coppia in quanto ritenuti pericolose spie nazifasciste. Di parere opposto erano gli inquirenti che ritenevano trattarsi non di un delitto politico ma bensì di un volgare delitto comune e che l'ordine era stato inventato al solo scopo di coprire i responsabili di un così grave reato.

In base a queste risultanze si dispose il rinvio a giudizio di Grinzani, Lapini e Degli Innocenti sotto l'accusa di duplice omicidio aggravato, rapina pluriaggravata e occultamento di cadaveri.

Chiozzi dovette rispondere di concorso di occultamento di cadaveri mentre i tre ex capi partigiani erano accusati di falsa testimonianza per coprire l'operato dei loro compagni.

Tutti gli imputati furono giudicati a piede libero in base alla legge 6 settenbre 1946, che vieta di emettere mandati di cattura verso partigiani per fatti da loro commessi durante l'occupazione Nazifascista salvo che non venga accertato che trattasi di un delitto comune.

Nel luglio del 1957, si tenne il processo alla C. d. A. di Firene che si concluse con la assoluzione dei quattro principali imputati, Grinzani , lLapini, Degli Innocenti, percè il fatto non costituisce reato, gli altri tre , Cavallini, Romei e Pilati assolti perchè il fatto non sussiste, Grinzani e Lapini condannati a 4 anni per malversazione e per il furto della valigia di una delle vittime, pena condonata. Notare bene che il Procuratore Generale aveva chiesta la pena dell'ergastolo per i tre imputati maggiori. Furono tutti salvati dalla amnistia Togliatti fatta apposta per salvare il culo a chi si era macchiato le mani di sangue innocente per scopi infami.


venerdì, luglio 24, 2020

Il Maresciallo Silvestro Cau


Il maresciallo dei Carabinieri
Silvestro Cau

A fronte dei recentissimi accadimenti criminosi di Piacenza in cui sono rimasti coinvolti alcuni appartenenti all'Arma, voglio trattare di un maresciallo dei Carabinieri, in servizio una settantina di anni fa che all'opposto dei soggetti di Piacenza fu un fedele ed onesto servitore dello Stato.
Silvestro Cau, nativo di Narcao, classe 1901, fu un Maresciallo dei Carabinieri che negli ultimi anni della sua vorticosa carriera, dal 1945 al 1951, comandò la stazione territoriale dell'Arma di Castelfranco Emilia, Modena, in un uno dei periodi più sanguinari della storia dell'Emilia, quello del triangolo rosso della morte , dove le bande di partigiani comunisti a colpi di mitra, riempivano fosse comuni di ex fascisti, possidenti, benestanti, preti o di chiunque semplicemente era non comunista, e non voleva assimilarsi agli ordini della scuderia rossa. C'era uno di questi soggetti che per la molte di esecuzioni sommarie eseguite era noto in paese come l'affossatore.
Mentre al sud c'era la mafia, in quella porzione dell'Emilia, giovani pallidi ed esaltati con una forte voglia di rivalsa, uccidevano impuniti ed è merito di uomini come Silvestro Cau se molti corpi nascosti in fosse comuni, sono state ritrovati e molti criminali sono stati trascinati alla sbarra e in giudizio.
Cau era nato nel 1901, in un paesino montuoso, del Sulcis, figlio di un assistente minerario e di famiglia povera , giovanissimo si arruolò nell'Arma dei Carabinieri, seguendo le orme di uno zio molto noto nell'Arma, Lussorio Cau, classe 1867, che ad uno ad uno saliva impetuosamente tutti i gradini della gerarchia dell'Arma, da appuntato sino ad arrivare a colonnello, dal primo encomio alla medaglia d'oro al V.M. Alle tre d'argento e alle quattro di bronzo, ogni anno il suo palma res aumentava , Lussorio era un vero sceriffo.
La medaglia d'oro la meritò come vicebrigadiere in Sardegna, quando per arrestare un feroce capo banda di briganti si infiltrò dentro questa banda e ci visse per circa un anno, in attesa del momento buon per agire. Un giorno che il capo era disteso a riposare, Lussorio Cau lo colpì alla gola, e poi tornò al suo comando a comunicare che la missione era stata portata a termine.
Partecipò con il suo reparto e gli ufficiali comandanti, al conflitto a fuoco di Morgogliai, nel 1899, in cui una banda di pericolosi banditi furono sterminati. Terminato il suo onorato servizio con onore, il colonnello Lussorio Cau andò in pensione a Palermo, dove condusse vita serena da pensionato con la moglie spegnendosi a 94 anni.
Silvestro Cau , maresciallo, prima ha prestato servizio a Torino, ha famiglia con due figli, ha un passato sportivo di judoka e fondista, con un fisico asciutto e forte, ha all'attivo operazioni di servizio contro bande di falsari, mafiosi a Marsala, briganti nel Nuorese, servizio bellico a Pantelleria e nella ex Jugoslavia, ma soprattutto lo scontro a fuoco con un pericoloso latitante, nel 1945 a Castellamare di Stabia, Rizzieri che girava sempre armato con una carabina a canne mozze, una lupara, nacque un violento scontro a fuoco tra Cau e Rizzieri della durata di circa un'ora in cui il bandito perse la vita.
Con questi trascorsi e perfettamente sconosciuto in Emilia, il maresciallo Cau viene trasferito in proprio a Castelfranco Emilia, nel 1946, gli abitanti della zona ogni notte, sentivano raffiche di mitra e badavano a farsi gli affari loro, e quando queste esecuzioni sommarie erano finite, i responsabili di queste mattanze giravano tranquilli e impuniti per i paesi dove avevano mietuto tante vittime, incontrando in modo spudorato i parenti di coloro che avevano ucciso e depredato, il loro senso di impunità si spingeva sino ad esibire il vestito, le scarpe, l'orologio o l'anello del morto. Tutti sapevano ma nessuno osava fiatare per ragioni facilmente intuibili.
Ad un tipo come Silvestro Cau, questa situazione appariva assurda prima ancora che scandalosa, lui vedeva la cosa come un tutore della legge il cui compito era quello di assicurare alla giustizia i criminali colpevoli di queste atrocità, iniziò ad annusare l'aria, decise di indagare prima in modo discreto, e poi in modo sempre più concreto per arrivare a chiarire decine di omicidi e di sparizioni. Sulla sua scrivania c'erano quarantuno fascicoli relativi ad altrettanti morti ammazzati solo nel suo territorio di competenza, da riaprire e da riesaminare, cosa che iniziò a fare assieme ai suoi carabinieri e in collegamento con la Procura di Modena.
Quindi iniziò il lavoro di ascolto del territorio e cominciò a trovare cadaveri occultati in fosse di cui nessuno sapeva nulla, trovò i parenti delle vittime e li convinse ad aprirsi con lui e con la procura. Oramai era noto come il disotterratore, ed è chiaro che si trattava di vittime dei partigiani comunisti .
La cosa cominciò a dare fastidio ai ras comunisti del posto, che cominciarono ad avere paura di quel carabiniere brusco e diretto ma soprattutto tenace ed intelligente che trovava ovunque fosse comuni e faceva domande molto scomode agli ex partigiani rossi un tempo intoccabili.
La prima mossa fu quella di inviargli alcuni parlamentari del PCI che lo invitano ad essere meno duro verso chi ha liberato l'Italia dai fascisti e ad avere riguardo per le povere madri dei partigiani che stava torchiando , ma Cau non si lascia intimidire e nel frattempo arriva ad arrestare una intera banda di una cinquantina di persone , detta la banda della trancia, che con uno di questi strumenti, appunto una trancia meccanica tagliava le inferriate , penetrava nei magazzini, nelle stalle e nelle officine e ruba bestiame, automezzi, merci pregiate di ogni tipo. La banda operò indisturbata per tre anni in tutta l'Emilia, compiendo più di cento furti, poi si imbatte nel Maresciallo Cau che la sbaragliò completamente, arrestando una cinquantina di persone.
La seconda mossa fu quella di accusarlo di aver estorto delle confessioni a degli ex partigiani usando metodi poco ortodossi, per queste accuse il Maresciallo Cau fu al centro di indagini ma di fronte ai giudici la sua onestà fu riconosciuta , anzi i cittadini del posto riconoscenti di tutto quello che egli aveva fatto nel triangolo della morte per riportare la legge nelle strade, inviò centinaia di lettere in procura a Modena in sua difesa, Cau fu prosciolto dalle accuse pretestuose e montate ad arte e continuò la sua attività investigativa portando alla luce solo nel suo territorio ben settantun corpi riconosciuti. In realtà Cau attento conoscitore dell'animo umano, nel corso dei sopralluoghi per riesumare le fosse, invitava i sospettati a prendere un badile per aiutare i militari nell'opera di scavo, erano presenti anche i parenti delle vittime che osservavano i presunti assassini dei loro cari senza l'aura di arroganza e minaccia che un tempo esibivano, e questo contribuiva a sgretolare il muro di omertà che i partigiani rossi avevano creato, con il badile tra le mani, disarmati, con i piedi nel fango della fossa, tutta la loro arroganza spariva per lasciare spazio allo sconcerto e al timore di finire in galera.

mercoledì, luglio 22, 2020

L'omicidio di Walter Marchio

Water Marchio

Cavezzo ( Modena)

Aprile 1945


Water Marchio era un eroe di guerra, grande invalido, aveva partecipato alla campagna d'Africa della seconda guerra mondiale perdendo entrambi gli arti inferiori in azione durante la battaglia di Tobruk, che vide contrapposte le truppe Italiane a quelle britanniche.

Marchio era tornato a Cavezzo, un piccolo centro della bassa Modenese, dopo un periodo di riabilitazione in un centro ortopedico, non poteva più camminare e quindi si spostava su una sedia a rotelle.

Era da poco passato il 25 aprile e le bande di partigiani comunisti imperversavano in quella zona.

Nonostante le sue condizioni fisiche, i rossi del luogo lo consideravano un pericoloso fascista, in particolar modo il sindaco comunista di Cavezzo, Veliardo Bonfatti, pensava che Marchio doveva essere interrogato e sottoposto ad un processo del popolo, cosa che infatti avvenne , una mattina di fine aprile del 1945, un gruppo di partigiani comunisti, una decina , tutti armati, fermarono la carrozzina dove viaggiava Water Marchio, lo portarono all'interno di un cortile lontano da chiunque potesse assistere al loro gesto infame, lo interrogarono e poi gli spararono il classico colpo alla nuca.

Il corpo dell'invalido venne sepolto a fior di terra e come ulteriore oltraggio i suoi assassini lo posizionarono a testa in giù nella fossa e gli incrociarono i moncherini a imitazione di una croce.

Il sindaco comunista di Cavezzo, interrogato a luglio del 45, dai Carabinieri ammise di aver impartito l'ordine di uccidere una “pericolosa spia fascista”.


sabato, luglio 11, 2020

L'omicidio della famiglia Peyretti di Pont San Martin


Dottor Alessandro Peyretti
17 giugno 1945
Pont San Martin

Il Dottor Alessandro Peyretti era il veterinario condotto di Pont San Martin, Valle D'Aosta, classe 1878, nativo di Aosta, aveva studiato presso la Facoltà di veterinaria a Torino laureandosi nel 1907, una brava persona, benestante, abitava con la famiglia, moglie e figlia, in una villetta a Pont San Martina, era stato a suo tempo tenente della GNR, quindi ricco e fascista, due caratteristiche ideali per essere nel mirino dei partigiani comunisti.
Il figlioccio e nipote, Arturo Montalbetti, in particolare, aveva progettato assieme ad alcuni partigiani rossi del posto, di agire nei confronti del veterinario.
Una sera il figlioccio, si reca presso l'abitazione di Alessandro Peyretti e gli dice che alcuni partigiani, conoscendo la sua precedente appartenenza alla RSI, vogliono processarlo, ma che egli è intervenuto a suo favore per evitare il plotone di esecuzione, deve solo recarsi ad un incontro chiarificatore con questi partigiani.
Il povero Peyretti che nutre una grande fiducia nel suo figlioccio, mal riposta, accompagnato dalla moglie, Ida Bocca e dalla figlia Fernanda, si reca all'incontro, che ha luogo presso il cimitero del paese.
Giunti sul posto trovano quattro partigiani armati che lo accusano di essere stato in accordo con i Fascisti. Il figlioccio , almeno a parole, ne prende le difese e si offre di tornare a casa del veterinario per cercare eventuale documentazione compromettente .
Lascia il Peyretti con moglie e figlia, in ostaggio dei quattro partigiani, raggiunge la villa dei sequestrati e dopo aver cercato frettolosamente nella casa, si appropria dei valori di famiglia, oro e denaro , che riesce a trovare, quindi torna al cimitero.
Gli ostaggi si sentono sollevati alla vista del ragazzo, ma è un sollievo solo temporaneo, infatti Montalbetti, assiste tranquillamente all'omicidio del povero veterinario compiuto da Soudaz, mentre un certo Marco Balagno assassinava la moglie e Feuillaz provvedeva a sopprimere giovane figlia.
Solo un anno dopo la strage della famiglia Peiretti gli assassini furono arrestati , ma dal carcere di Ivrea dove erano imprigionati, riuscivano ad evadere.
Nel giugno del 1948 ad Ivrea si tenne il processo per questa strage, in contumacia, perchè tutti gli imputati si erano resi irreperibili prima di essere fermati dai Carabinieri, tutti tranne lo scellerato nipote e l'assassino della moglie, Marco Balagna. Nel 1948, finalmente gli imputati furono trovati dai Carabinieri e si presentarono alla sbarra presso la Corte di Assise di Torino, in primo grado, Arturo Montalbetti, Marco Balagna, Armando Jarillaz e Raimondo Sondaz furono condannati a 13 anni e 4 mesi di reclusione, per furto e triplice omicidio, nel 1952 in appello presso la corte d'appello di Genova la pena è stata confermata negando l'amnistia “partigiana” e concedendo il condono di soli anni uno.

lunedì, luglio 06, 2020

l'omicidio di Mario Agazio


Mario Agazio
Milano
14 marzo 1947
Mario Agazio quella sera intorno alle 20, stava tornando a casa dalla moglie, in Via Romagna a Milano, quando veniva affrontato da un gruppo di fuoco , di almeno cinque persone, una delle quali lo colpiva con tre proiettili alla zona polmonare e due al collo e al capo, uccidendolo.
Chi era Agazio ? Un giornalista da inchiesta molto coraggioso, già presso LA STAMPA e che attualmente , scriveva su un periodico di cui era stato anche il co fondatore IL MERIDIANO D'ITALIA.
Il suo orientamento politico era di destra, aveva vissuto una opposizione politica moderata contro la RSI di cui non condivideva alcuni aspetti politici e culturali, arrestato dalle SS subì un duro interrogatorio con postumi e lesioni alla colonna vertebrale.
Dopo il 25 aprile 1945, venne giudicato dalla Corte di Assise di Milano con l'accusa di collaborazionismo ma ne uscì completamente scagionato. Egli comunque era e rimaneva un uomo di destra, convinto assertore della legalità e dell'anticomunismo.
Era sicuramente un giornalista che poteva dare fastidio ai soloni e ai caporioni della resistenza di matrice comunista, quelli duri e puri che non tolleravano i giornalisti contro corrente , di cui Agazio era l'elemento più determinato ed intelligente, che sapeva dove e come svolgere le sue inchieste.
Alcuni suoi reportage erano risultati terribilmente scomodi e sgraditi alla tifoseria comunista, per esempio, quella sulla esecuzione sommaria di Carlo Borsani, un galantuomo, cieco di guerra, decorato al valor militare e presidente della Associazione Mutilati di guerra durante la Repubblica di Salò.
Agazio rivendicava sulle colonne del MERIDIANO D'ITALIA l'onestà e la correttezza di Borsani, ne chiedeva le ragioni della morte che riteneva inutile e malvagia, inoltre in alcuni articoli aveva pubblicato i nomi degli esecutori materiali di questo vero e proprio omicidio avvenuto il 29 aprile del 1945, in particolare Agazio descrisse la morte dell'eroe e poeta, abbattuto con il classico colpo alla nuca e poi , portato in giro su una carretta per la raccolta dei rifiuti, con al collo un cartello su cui era scritto “ex medaglia d'oro.
Inoltre Agazio aveva anche aperto una colletta in favore dei due orfani di Borsani, Raffaella e Carlo.
In alcuni ambienti antifascisti, all'oscuro dei crimini commessi da moltissimi partigiani, iniziò a serpeggiare un diffuso disagio e molti notabili, non comunisti, sconfessarono l'esecuzione di Borsani che era un tipico esempio di odio ideologico. Agazio e il suo periodico iniziarono a ricevere minacce, e la redazione fu in qualche occasione invasa da ex partigiani che devastarono i locali .
Ma Agazio non si fermò per questi ostacoli, e iniziò dopo quella su Borsani, una inchiesta giornalistica ancora più scottante visti i tempi pericolosi in cui si svolgeva, sul cosiddetto oro di Dongo, diversi miliardi, di oggi, in valuta e metalli pregiati che erano sui mezzi della colonna Repubblicana e Tedesca che fu bloccata a Dongo dai partigiani.
La stragrande maggioranza di questi enormi valori, di proprietà legittima dello Stato Italiano, furono sequestrati e distratti da elementi partigiani comunisti in un centinaio di rivoli, la destinazione di questi ingenti valori non fu quasi mai resa nota, ma era facile capire dagli argomenti che scriveva Agazio sul suo periodico, dove fosse finito il tutto.
Sempre Agazio descrisse anche tutta la impressionante sequenza di omicidi che andò a falcidiare il gruppo di partigiani, uomini e donne, che avevano partecipato al sequestro dell'oro di Dongo, al loro inventario che non fu mai trovato. Agazio, molto bene informato, non lanciava accuse a vuoto ma circostanziava i suo scritti in modo freddo, asettico e preciso, tanto che in seguito la Magistratura mando a processo per i furti e gli omicidi, una quarantina di ex partigiani comunisti coinvolti in questo gigantesco letamaio a cielo aperto.
Agazio con i suoi articoli, aveva dato un fastidio enorme, mettendo in crisi il sistema mafiocomunista su cui si basava il regime del terrore rosso che era ben presente in nord Italia. Inoltre a Milano agiva la Volante Rossa che aveva il mitra facile.
Agazio era abitudinario, tutte le sere lasciava la redazione in Via Cerva per raggiungere casa sua, e quindi fu facile tendergli un agguato, secondo alcuni , il suo killer mascherato, indossava un impermeabile chiaro, aveva una mano nella tasca destra che impugnava una pistola, senza estrarre l'arma fece fuoco cinque volte su Agazio esprimendo un odio senza fine.
Le indagini portarono all'arresto, fra gli altri, di un certo Dionisio Gambaruti, ex partigiano, detto Nik, appartenente ad una brigata comunista della Valtellina, già al centro di indagini sulla collana di omicidi relativi all'oro di Dongo, il suo trench mostrava un vistoso foro brucciacchiato dal lato destro, purtroppo lo stesso PM al processo, ne chiese l'assoluzione per insufficienza di prove e la morte di Agazio rimase senza responsabili giudiziari anche se tutti a Milano sapevano chi fosse stato a uccidere il giornalista del Meridiano d'Italia.
Per la cronaca, Carlo, il figlio dell'eroe e poeta Carlo Borsani, nel 2000 diverrà assessore alla sanità della regione Lombardia.



giovedì, luglio 02, 2020

Il partigiano Trancia


Mario Grienti
detto il trancia
Mario Grienti detto il trancia è stato un partigiano che operava nel Canavese, a Montalenghe, un piccolo paesino a sud di Ivrea, perchè era denominato il trancia, dall'attrezzo che serve appunto a troncare a tranciare, beh, perchè egli era solito dire di aver tranciato al testa dal collo di alcuni fascisti.
Insomma un soprannome truculento che evocava immagini da gran guignol. L'unico omicidio che gli venne addebitato fu quello di un pover'uomo, un anziano pensionato, Emilio Gallo, ex commissario prefettizio o meglio Podestà, classe 1897, a Foglizzo, il Trancia e il suo compagno di brigata, Meo al secolo Guido Falco, andarono a prelevarlo il 7 luglio 1945, Gallo era anziano e debole, non fece alcuna resistenza ai due partigiani giovani e forti e pure armati, che lo portarono al cimitero e lo uccisero a colpi di mitra, una atto eroico degno dei liberatori.
Gli anziani se lo ricordano bene l'ex podestà, era una brava persona, innocua e gentile, fu assassinato inutilmente da Trancia e Meo. Il nipote della vittima, per qualche anno cercò di trovare l'assassino del nonno ma senza mai trovarlo, infatti era scappato in Indocina dove si era arruolato nella Legione, poi il nipote morì in un incidente aereo e il Trancia potè tornare in Italia, dove nel 1952 era stato condannato in contumacia a 9 anni e sei mesi di carcere.
Non fece un solo giorno di galera perchè la Corte gli condonò 9 anni e poi perchè era latitante all'estero a combattere contro i compagni viet minh.
Quando tornò fu famoso quello che disse “ io sono tornato senza un becco di un quattrino ma ho trovato altri miei compagni di lotta arricchiti e sistemati. Vi assicuro che se si dovesse sollevare il lenzuolo su tutte le porcherie accadute in quegli anni, altro che un giornale si riempirebbe, un libro di 5000 pagine, c'è da credergli detto da lui.