domenica, gennaio 29, 2017

Il lager di Bogli ( Piacenza )

Il lager di Bogli ( Piacenza)

Il nome di Bogli non dice proprio nulla a nessuno, almeno in questi ultimi anni. E’ una piccolissima frazione del Comune di Ottone, in provincia di Piacenza, in un punto strategico, ad una altezza di circa mille metri di altezza, alla confluenza di ben quattro regioni , Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia.
La strada che lo raggiunge sale stretta e tortuosa, piena di buche che fanno sobbalzare le ruote dell’auto. In inverno il clima è gelido con frequenti nevicate, la popolazione nel freddo, anzi nel gelo, viene indicata in sole quattro unità, mentre in estate il paese cambia aspetto e molti nativi ritornano e amano trascorrere le serate nell’unica osteria del paese che è sempre piena di avventori.
L’abitato appare come un pugno di case dall’aspetto antico, sito in una valle chiusa a mò di catino, con una Chiesa posta in posizione sopraelevata ornata di un campanile con il tetto a cipolla.
Il paesello è formato da circa una trentina di costruzioni, quasi tutte disabitate, più un complesso di tre costruzioni ad un solo piano con annessi grandi lavatoi , posizionati ad una certa distanza dal borgo, circondati da un canneto, questo ultimo nucleo di fabbricati, bassi e cupi è o meglio era il campo di concentramento per prigionieri fascisti gestito dai partigiani comunisti.
Queste case diroccate a qualcuno degli abitanti o dei pochissimi reclusi sopravvissuti, ricordano orrori che si pensava sopiti nei decenni : Bogli, infatti, ha ospitato per tutto il 1944, un lager gestito da un gruppo di partigiani della brigata Chicero, che operava nella Valle Scrivia alle spalle di Genova.
In esso venivano internati militari della R.S.I., soldati Tedeschi, presunti collaborazionisti, e anche donne, grazie a Dio, poche. Era in buona sostanza un campo di eliminazione fisica.
Non era l’unico campo dove si era sicuri di entrare ma non di uscirne, un altro gulag famigerato, era situato a Rovegno, in un grande e articolato fabbricato, nel mezzo di una foresta che un tempo ospitava una grande colonia, voluta dal Regime Fascista, nell’alta Valle Trebbia. Rovegno ospitava centinaia di prigionieri mentre Broglio era una piccola nicchia di ferocia e malvagità.
I poveretti che venivano catturati dai partigiani, a cui venivano sottratte le scarpe per impedirgli di fuggire, dovevano affrontare lunghe marce di avvicinamento al campo di Bogli, lungo sentieri pieni di sassi e spesso nella neve, spronati da legnate che i loro guardiani gli assestavano con malcelato sadismo
Ai militari repubblichini reclusi veniva tolta la divisa, in cambio di stracci sporchi e laceri, anche le scarpe oltre agli effetti personali, erano requisite dai partigiani rossi , quindi nessuno poteva neppure lontanamente pensare di scappare. I pestaggi erano giornalieri e senza alcuna ragione
Le poche donne che erano a Brogli, dopo essere state rapate, subivano violenze di gruppo e dopo queste lunghe violenze venivano ammazzate senza pietà.
Infatti Brogli non era solo un capo di prigionia ma anche un campo di eliminazione, quindi chi vi veniva portato era sicuro che sarebbe stato picchiato e torturato e in quel posto avrebbe concluso la propria esistenza dopo inaudite sofferenze.
Visto che tutti i prigionieri erano destinati ad essere eliminati, il cibo era scarsissimo, solo qualche pezzo di pane raffermo e qualche cucchiaio di riso andato a male, condito da vermi.
Le guardie del campo non erano solo Italiani, c’erano anche dei partigiani Russi, che facevano a gara a manifestare crudeltà, ma chi veramente era uno psicopatico senza freni, era il “comandante” un giovane capo distaccamento di cui si conosce solo il nome di battesimo : Walter, nativo di Genova, che , evidentemente, odiava ferocemente i prigionieri e faceva di tutto per accrescere le loro ultime sofferenze.
Questo soggetto prediligeva immergerli a testa in giù nei lavatoi, colmi di acqua gelata sino a provocarne l’annegamento. Quando era stanco di torturarli, li trascinava in una costruzione che fungeva da caserma per i partigiani e lì c’era un processo farsa che durava pochi minuti poi il condannato era scortato in un bosco di castagni al di là di un corso d’acqua che era il luogo deputato alle esecuzioni sommarie, in quel posto avvenivano le sepolture. Questo è stato Brogli, un piccolo ma efficiente e tormentato gulag con il biglietto di sola andata.
Il campo funzionò per circa un anno e nel dicembre del 44, poi in seguito ad una grande offensiva Tedesca, venne evacuato in fretta e furia dal distaccamento partigiano che si ritirò portandosi dietro una dozzina di prigionieri superstiti per non lasciare testimoni delle atrocità compiute.
Fu un' altra marcia spaventosa per i prigionieri, in mezzo alla neve, senza capi di vestiario adeguati e senza scarpe, qualcuno di loro morì assiderato.
Il capo del campo, oltre ad essere un sadico assassino, era anche un ladro perché si portò via i soldi del distaccamento e dei suoi compagni di efferatezze.
Finalmente, per una specie di contrappasso, dopo tante malvagità compiute ed impunite, Walter fu arrestato nientemeno che dalla Gestapo, la famigerata Geheime Staatspolizei , la quale lo liquidò a sua volta. Pochissimi prigionieri repubblichini si salvarono dal Campo di Brogli e ancora oggi, quelli che hanno raggiunto la novantina, ricordano i ghigni dei criminali che agirono a Brogli e che popolano ancora i loro incubi.


Roberto Nicolick  

lunedì, gennaio 23, 2017

I banditi del Passo del Bracco

I Banditi del passo del Bracco
Anni 40 - 50

Il passo del Bracco si confermava nell'immediato dopo guerra, come une delle zone più pericolose da attraversare, a causa della presenza lungo il tragitto di numerosi banditi, armati di tutto punto, che non esitavano a fermare le auto o le corriere che transitavano su quella strada, da e per il levante Genovese e rapinarne i passeggeri di ogni avere, denari, preziosi, vestiti e persino scarpe.
Il valico del Bracco, alto 615 metri, era purtroppo un tratto molto importante per le comunicazioni tra Genova e lo Spezzino.
A causa di queste bande, molti bus o auto private erano costretti a formare dei convogli con all'inizio e alla fine colonna, un automezzo di Carabinieri o polizia che fungevano da scorta per impedire che i banditi attaccassero e rapinassero i mezzi privati. Una volta accompagnato il convoglio in una direzione, si attendeva il successivo e lo si scortava nella direzione opposta.
Neppure i Carabinieri furono esenti da attacchi banditeschi, infatti a fine settembre del 1945, una pattuglia di militari dell'Arma, in perlustrazione sulla strada del Bracco, venne sorpresa da un ingente numero di banditi e messi nell'impossibilità di reagire, disarmati e privati pure delle scarpe dovettero tornare a piedi nudi in caserma.
In particolare in queste attività banditesche emergeva, fra gli altri, Ferrante Madone, diciannovenne, il quale aveva eletto a teatro di operazioni il passo del Bracco.
Famosa fu la sua rapina al contabile di Italstrade, che stava consegnando le buste paga destinate a una quarantina di operai, fu un vero colpo gobbo, che fruttò al bandito e al suo complice , Osvaldo Rolla anch'esso giovane di appena 18 anni, un vero capitale, ben 300 mila lire dell'epoca.
Dopo ogni colpo, i due avevano l'abitudine di andare a festeggiare in qualche osteria, neppure troppo lontana dal posto della rapina. I Carabinieri avvisati della rapina, erano al corrente di questa sua usanza, che gli risultò fatale.
I militari arrivati sul passo,si appostarono nei pressi della trattoria più vicina, appunto l'osteria Paradiso, e lo agguantarono. Nelle cronache di quei giorni, c'è una auto targata Milano, in viaggio da Roma verso Genova, con a bordo un uomo e tre donne, tutti fermati, rapinati di ogni cosa abiti compresi e costretti a proseguire il viaggio in mutande.
Da un vecchio verbale dei Carabinieri, datato 30 maggio 1946, salta fuori un nominativo di un rapinato molto noto: il verbale dice testualmente “Pertini Sandro di Alberto, consigliere Nazionale a Roma, Deputato, di anni 50, mentre a bordo della sua Aprilia fuori serie, VE 9414, stava percorrendo la S.S. N.1 Aurelia di ritorno da Genova , in località Bocca di Pignone costretto ad arrestare l'auto sotto la minaccia di un mitra, , aggredito e derubato da tre individui armati e mascherati, dei seguenti effetti personali : orologio da polso in oro, una valigia con biancheria di ricambio pigiama compreso, di lire venti mila e di una rivoltella”.
Pertini, nonostante il suo carattere non certo remissivo, dovette subire senza poter reagire e consegnò tutto ai banditi. Quindi ripartì in auto e andò dai Carabinieri a denunciare il fatto.
Ora i tempi sono cambiati, sul Bracco la percorrenza è limitata e le bande di briganti hanno abbandonato le vecchie attività.


Roberto Nicolick

mercoledì, gennaio 18, 2017

L'uomo in fuga

Savona, 13 maggio 1945, ore 17 circa.


Colle del Cadibona, chilometro 142,


un gruppo di partigiani comunisti sta compiendo uno degli eccidi più feroci della guerra civile noto come la strage della corriera della morte.
Nel corso di questa strage 39 uomini inermi furono ammazzati, questo episodio racconta di un giovanissimo ufficiale della G.N.R. Che tentò la fuga, inseguito da un poliziotto partigiano.
Verrà raggiunto, farà la stessa fine dei suoi compagni di sventura.
Ecco la cronaca, basata su testimonianze di alcuni ragazzini oggi settantenni, di questo disperato tentativo di fuga.

Sporco di sangue, non suo ma dei suoi compagni, con addosso solo una camicia aperta e svolazzante, scalzo, privo di pantaloni, il giovane uomo correva trafelato, come una lepre… l’aria gli bruciava nei polmoni, gli occhi gli uscivano dalle orbite tanto correva, con una fortissima dose di adrenalina in corpo, che poi, era quella che lo sosteneva in questa sua fuga disperata.
Lo stomaco vuoto, le contusioni sul corpo, il dolore per le percosse impietose prese dai partigiani erano cose lontane, rimosse, dimenticate… ora aveva un solo imperativo categorico: correre, correre e soltanto correre, lontano da quegli assassini, da quello che stavano facendo ai suoi camerati, in quel piccolo vallone, sulla curva della strada del Cadibona, sopra alla galleria del treno della linea Savona – Fossano – Torino.
Mario Molinari, dal cognome famoso, per una bevanda alcolica, prodotta dalla sua famiglia, di appena 20 anni, con la fortissima volonta’ di viverne molti altri, correva, come mai aveva corso in vita sua… non per conquistare una medaglia, ma per salvarsi la vita.
Mario Molinari, tenente della G.N.R (Guardia Nazionale Repubblicana), doveva morire ammazzato come gli altri, innaffiato dal piombo, perchè “repubblichino”, così lo definivano con disprezzo i suoi guardiani, poliziotti ausiliari partigiani.
Il ragazzo aveva colto l’attimo fuggente, era riuscito ad approfittare di un momento di distrazione dei suoi carnefici, aveva dato una spallata al più vicino, uno strattone a quell’altro che lo tratteneva e poi … come un dannato che sbucava dall’inferno, aveva risalito il vallone, percorso il prato erboso in leggera salita, imboccato la strada asfaltata verso il centro di Cadibona…
Poi da li’ chissà, avrebbe chiesto aiuto, avrebbe fatto perdere le tracce, si sarebbe imboscato tra gli alberi o in qualche legnaia..
Importante era togliersi dalla linea del fuoco del mitra STEN, che stava massacrando il gruppo di prigionieri repubblicani, a gruppi di due a due, i quali venivano spinti a calci nel vallone in basso, mentre più in alto, in posizione sopraelevata, altri due partigiani sparavano sulla coppia di uomini che cadevano come fantocci nell’avvallamento.
Mario Molinari, correva, senza fermarsi, senza voltarsi indietro, con i capelli dritti dal terrore, con la speranza di riavere la liberta’ e poter vivere ancora… mentre alle sue orecchie arrivavano da dietro, sempre piu’ lontano, il rumore ritmico delle armi automatiche.
Una, per essere esatti, era terribilmente riconoscibile : lo STEN, la classica arma automatica di fabbricazione britannica, usatissima dai partigiani, fornita alle formazioni partigiane attraverso i lanci paracadutati alleati.
Mentre Molinari correva come un pazzo giù verso Cadibona, lo STEN maneggiato da un certo B.D.,  stava facendo “pulizia” nel vallone, riempiendolo di corpi, crivellati dalle pallottole, 9 mm. Parabellum. Nel caricatore del mitra c'erano 32 pallottole, il che gli assicurava una discreta autonomia.

Il boia , non si fermava mai, tranne che per cambiare il caricatore dell’arma o per aspettare che si raffreddasse guardando i suoi compagni, mentre a calci e pugni, posizionavano sulla linea di tiro, i bersagli umani, sempre a coppie, per economia e per dimezzare i tempi di lavorazione.
Intanto Molinari correva e ogni metro che copriva aumentava la sua speranza. Egli non poteva sapere che uno dei piu’ zelanti e feroci dei carnefici, stava per mettersi sulle sue tracce.

Per meglio raggiungerlo, il poliziotto partigiano smise a malincuore di sparare e inforco’ una bicicletta, pedalando con forza, arrivò in vista del fuggiasco e pigiando  sui pedali lo raggiunse.
Il giovane fuggitivo sentì uno rumore alle sue spalle, come di un corpo metallico che cade (era la bicicletta che il B.D. aveva abbandonato in corsa) non si voltò e continuò a correre… poi percepì dei passi veloci e un respiro affannoso, sempre dietro di lui…
Continuo’ a non voltarsi, fintanto che a sorpresa, un corpo pesante di un uomo, non gli volo’ addosso e lo schiaccio’ letteralmente sul selciato.
L`impatto che subi’ fu forte… e molto doloroso, ma assai piu’ dolorosa fu la sorpresa…
Molinari era convinto di essere sfuggito ai suoi inseguitori, anzi pensava che non avrebbero provato neppure ad inseguirlo visto che erano troppo impegnati a scannare i suoi compagni di sventura.
Il  naso e il mento, a causa di quel placcaggio violentissimo, sbatterono sul selciato, producendogli una forte emorragia, il sangue gli colava vistosamente sul petto nudo…
“ti ho preso bastardo, ora devi morire, come gli altri… vieni con me….”
Ansimava e schiumava odio B.D., mentre urlava queste parole nelle orecchie del ragazzo.
Il suo alito puzzava come quello di un avvinazzato. Evidentemente aveva abbondantemente bevuto, per darsi piu’ coraggio nell’espletare le sue funzioni di boia. Per non perderlo, lo aveva afferrato per i capelli, e lo strattonava, piegandogli il capo verso terra.
Il poveretto, cosi’ piegato in due, con indosso un camicia sporca di sangue, tentava disperatamente, con le mani strette sul polso del criminale, di attenuare la stretta e gli strattoni, ma era cosa vana, per la sua debolezza che per lo choc subito nella rovinosa caduta, sia per la posizione svantaggiosa che il suo corpo aveva assunto in quell’istante…inoltre il partigiano che lo aveva inseguito, raggiunto ed afferrato rudemente, era di grossa corporatura, di modi estremamente violenti ed era crudelmente determinato a non lasciarsi scappare piu’ la sua preda… farsi buggerare cosi’….incredibile, da un ragazzino, inoltre.
Mentre Molinari veniva trascinato, letteralmente per i capelli, per la strada, nella direzione opposta a quella in cui stava cercando di fuggire, perdeva dal naso e dalle labbra spaccate un rivolo di sangue scuro, che cadeva gocciolando sulla strada del Cadibona, lasciando una traccia, di un rosso scuro, interminabile, come interminabile era il dolore che lo torturava per non essere riuscito a fuggire da quegli assassini, per essere solo e completamente abbandonato, per non aver avuto nessun aiuto. La disperazione piu’ nera lo aggredi’ e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi….
Arrivò di corsa dal luogo del massacro un altro partigiano, che era venuto a dare manforte al B.D., ma la sua presenza era inutile, oramai il povero Molinari era in “dirittura di arrivo“ verso il luogo dell'eccidio…
I due partigiani, con la loro povera vittima, stretta sempre per i capelli, spinta a calci nel sedere dal secondo partigiano appena arrivato, continuarono a camminare, per quanto lo permettesse la situazione, per raggiungere lo scannatoio, dove intanto, proseguiva con cura meticolosa e maniacale la strage.
L’arresto del Molinari, non passo’ inosservato.
Nelle prime case di Cadibona, che il giovane cercava disperatamente di raggiungere, alcuni abitanti avevano assistito alla scena e provarono anche ad avvicinarsi, ma furono sconsigliati dai mitra puntati dei due sgherri.
Anche un ufficiale partigiano, non garibaldino e quindi non comunista, vide la scena inumana.
Si avvicino’ per chiedere spiegazioni, ma anche in questo caso, il B.D. sollevo’ la canna del mitra in modo significativo, verso lo stomaco dell’intruso che dovette desistere da qualsiasi azione e vide i due che trascinavano il prigioniero nudo e crudo sin dopo la curva…
Provvide poi a protestare con il locale CLN, per quel gesto, ma urto’ contro un muro di gomma.
Tuttavia appuro’ che il comando partigiano era perfettamente al corrente dell’accaduto. Anche due ragazzini, nascosti dietro ad un cespuglio assistettero alla scena, ma terrorizzati rimasero impietriti e conservarono il film del massacro nelle loro menti per tutti gli anni a venire. Ora hanno poco più di 70 anni e non hanno dimenticato ciò che videro, e me lo hanno raccontato ancora scossi.
Roberto Nicolick



domenica, gennaio 15, 2017

lo strano caso dell'oro di Savona

I lingotti della Banca d'Italia di Savona

24 aprile 1945 in tarda serata, un camion della divisione San Marco, si presenta all'ingresso posteriore della Banca d'Italia di Via Astengo, nella cabina di guida ci stanno due marò armati, quello accanto al guidatore, scende e suona il campanello al civico 22 rosso, mentre il mezzo con il motore acceso staziona in attesa che qualcuno apra il pesante cancello.
Dopo pochissimi minuti il pesante cancello grigio, viene aperto e il camion con il cassone telonato, un Lancia 2 Ro, con i colori militari, entra rapidamente all'interno del cortile. Non si sa cosa accade realmente nello spiazzo, lo si può solo immaginare.
Il giorno successivo, il 25 aprile 1945 con il collasso della Repubblica Sociale, le brigate partigiane sarebbero entrate in città , si presume che i due San Marco abbiano ricevuto l'incarico di prelevare una o forse due cassette contenenti lingotti d'oro di piccola pezzatura e di portarli al comando della divisione ad Altare per iniziare la grande fuga verso la Valtellina.
Quindi su quel mezzo pesante, con assi rinforzati, furono caricate due cassette con i lingotti. Senza scorta, il camion esce dal cortile e percorre le strade deserte sino a imboccare la strada provinciale in direzione Altare sede del comando divisionale.
Quello che accade dopo è solo opinabile e frutto sicuramente di fantasia: a pochi chilometri da Savona, il camion si arresta, in prossimità di un piccolo ponte in muratura, che attraversa l'affluente del Letimbro, a sinistra della provinciale del Cadibona, a destra passa la linea ferrata con due gallerie che un tempo erano presidiate da due postazioni con nidi di mitragliatrici e che vista la situazione non ci sono più, i militari che le presidiavano o sono stati ritirati o sono scappati.
I due marò, sono a conoscenza del fatto, quindi soli e senza testimoni, scaricano le due cassette e attraversando il ponte, raggiungono la riva opposta , entrano nel fitto del bosco e si presume che le sotterrino.
Fatto ciò risalgono sul camion e ripartono in direzione di Altare. Qualcuno afferma che i due militari spariscano e le versioni sono decisamente diverse: cadono in una imboscata lungo la strada fatta dai partigiani che cercavano proprio le cassette, oppure arrivati ad Altare sono fucilati dai loro stessi camerati che li accusano di aver trafugato l'oro della Repubblica, oppure ancora, fanno perdere le loro tracce gettando l'uniforme alle ortiche aspettando il momento propizio per riprendersi il tesoro nascosto.
Nel frattempo il piccolo ponte sotto l'urto delle piene che avvengono nel tempo, crolla e ne rimangono solo le spallette sulle sponde opposte, visibili a tutt'oggi, dalla strada.
Passano i mesi del 1945, tra vendette, ruberie, stupri, esecuzioni sommarie, omicidi politici, atrocità compiute dai nuovi vincitori e dei due fanti di marina e dell'oro di Savona, nessuno parla ma la leggenda continua e la fantasia prosegue il suo lavoro instancabile.
Poi accade un fatto strano, negli anni cinquanta, un gruppo di persone con attrezzi da scavo e una piccola escavatrice, apre un piccolo cantiere e inizia alcuni strani lavori di sbancamento, proprio nel punto in cui esisteva il piccolo ponte in muratura che ora non c'è più.
Qualcuno avvisa i Carabinieri che vanno a fare un controllo in loco, trovando una trentina di persone che in effetti stavano scavando lungo il corso del torrente e sotto la massicciata.
I lavori non risultano autorizzati e vengono bloccati ma la cosa curiosa è che , una volta identificati, gli operai risultano essere stati tutti ex partigiani o ex repubblichini. Cosa cercavano con tanto accanimento ? Non lo dicono ma lo si potrebbe immaginare.
Sono passati molti anni da quel 25 aprile 1945 e nessuno ha mai trovato i lingotti o se li ha trovati si è ben guardato dal dirlo. Quindi il mistero rimane e comunque è proprio vero che a volte l'oro riesce ad unire tipologie molto diverse di uomini tra di loro in un abbraccio fraterno che va al di là delle ideologie e della guerra.
Esiste un precedente analogo, accaduto all'oro della Banca d'Italia, sede centrale di Roma, l'8 settembre del 1943, i cari alleati Tedeschi portano via da Roma un bel mucchio d'oro, 120 tonnellate, a mezzo treno blindato e scortato, prima a Milano e dopo a Fortezza , Alto Adige, pronto ad essere inviato a Berlino. Si sparge in diversi rivoli, quasi tutti recuperati dagli Alleati negli anni successivi e restituito al Governo Italiano.
La cosa strana è questa, nella prima fase, il tragitto tra l'Istituto Centrale Italiano e il treno Tedesco, una tonnellata d'oro scomparve, oppure chi doveva consegnarlo se lo tenne, e gli stessi Tedeschi non protestarono per questa differenza, forse erano un pochino distratti, strano per tipi precisi e puntuali come loro.
Ecco da chi impararono i due poveri marò della San Marco, ma questo è solo un esercizio di fantasia


Roberto Nicolick

venerdì, gennaio 13, 2017

Marcello Nizzola

Marcello Nizzola

Marcello Nizzola, classe 1900 era un atleta di altissimo livello , abitava a Genova, la sua città natale a cui era molto affezionato, praticava la lotta greco romana e libera collezionando successi a livello nazionale e internazionale, e per ben sedici volte era stato campione Italiano di lotta, insomma un vero asso.
Aveva aderito per sua scelta libera, nel 1920, sin dai primi tempi, al fascismo, diventandone un punto di riferimento nello sport e a Genova.
Nel 1932 partecipò alle Olimpiadi di Los Angeles, conquistando nella categoria peso gallo una medaglia di argento, vinse anche i Campionati Europei nel 1935, si classificò terzo agli Europei del 1931, vinse 10 incontri internazionali su 13 nella sua specialità. Fu insignito della medaglia d'oro al merito sportivo. Nizzola era un uomo di una grande forza, amplificata con allenamenti intensissimi, che gli avevano donato un fisico eccezionale abbinato ad una grande coordinazione ed a un bel cervello, cosa non molto comune tra gli atleti dell'epoca.
Questa sua potenza muscolare lo aveva messo al sicuro da molti prepotenti con il fazzoletto rosso al collo, che dopo il 25 aprile 1945, avrebbero voluto fargli pagare il suo essere fascista ma lo temevano, non era facile infatti abbattere un uomo forte e nerboruto come Marcello Nizzola che era pure svelto di mano e molto coraggioso, queste sue caratteristiche gli avevano fatto attraversare indenne la Liberazione inoltre, egli non nascondeva il suo orientamento politico per il Fascismo. Terminata la guerra aveva iniziato a commerciare in mobili. Molti che lo avevano sfidato in strada erano finiti al pronto soccorso.
Una sera, intorno alle 19, qualcuno armato di una pistola automatica, lo attese all'uscita del suo negozio, e a tradimento, alle spalle, gli sparò un colpo di pistola calibro 12. Nizzola colpito mortalmente, cadde, grazie alla sua fortissima fibra non morì subito, continuò ad emettere flebili lamenti finchè alcuni operai di una autorimessa, attratti dai suoi gemiti, lo trovarono e chiamarono i soccorsi.
Nizzola in coma, fu trasportato al San Martino. Morì senza riprendere conoscenza a pochi minuti dal ricovero senza poter dire una parola e senza poter dire il nome dell'assassino anche perchè fu colpito alle spalle.
Il suo omicida non fu mai identificato, ma era chiarissimo l'ambiente dove era maturato il delitto e chi erano i mandanti: i personaggi che gravitavano negli ambienti legati ai partigiani comunisti, i quali avevano continuato ad odiare l'atleta senza tregua, ma che non avevano il coraggio di affrontarlo faccia a faccia, da veri uomini.
Il colpo fu esploso con un'arma di fabbricazione americana, a bruciapelo, la pallottola entrò dalla scapola sinistra, dal basso, ed uscì dalla gola, perforando un polmone. Chi lo assassinò non ebbe mai modo rivendicare questo inutile omicidio, che avvenne nel febbraio del 1947, addirittura a due anni dalla fine della guerra, ma dovette comunque sparargli alle spalle e di sera, senza dubbio il killer provò la paura che Marcello si accorgesse di lui o che sopravvivesse al colpo, nel qual caso, Nizzola lo avrebbe afferrato e fatto volare, ma purtroppo non andò così.
Il figlio di Marcello, Garibaldo detto Baldo classe 1927 , seguì le stesse orme del padre sia a livello di fede politica che di sport e praticò lungamente la lotta, accumulando medaglie e fama olimpionica, anch'egli dotato di una forza e di un fisico eccezionale.
Ma negli occhi conservava sempre un velo di tristezza per il ricordo del suo grande padre, ucciso così vigliaccamente da uomini senza cuore e senza fegato.


Roberto Nicolick

domenica, gennaio 01, 2017

Era mio padre

Era mio padre

Stefano mio padre, nasce nel settembre del 1922 da una famiglia di umili origini, genitori e due fratelli maschi e una sorella, Antonio detto Ninno, Nicolò detto Culin, lui detto Stefanin e Renata detta Momò.
Culin diventerà in futuro, negli anni 60 e 70, un boss del contrabbando di sigarette, citato anche in alcuni libri di storia locale con il nomignolo di Pippo, Momò farà l'ausiliaria presso una RSA mentre Ninno e mio padre, Stefano, faranno i camalli nel porto di Savona guadagnandosi da vivere con il sudore della fronte, caricando e scaricando navi, una dietro l'altra.
Una famiglia molto unita, guidata da una donna, rimasta vedova a cinquant'anni , Anita, detta Nita, che riusciva a mantenere la famiglia portando in giro il carretto con i pesci, per le vie di Savona. Era una persona caratteristica, il suo grido era famoso “ Donne, pesci freschi !”.
Il pesce era davvero fresco e buono e la Nita, vestita sempre di nero, con una crocchia di capelli sulla testa e le mani nodose e piene di calli, guadagnava quello che serviva per vivere. Ovviamente nessuno dei suoi figli andò oltre la quinta elementare, non c'era tempo per studiare ma solo per lavorare.
Scoppia la guerra e mio padre viene richiamato dalla Regia Marina, imbarcato come cannoniere “armarolo”, su alcune navi da battaglia, affonda al largo della Sardegna, sul Regio Incrociatore Trieste, viene recuperato, più morto che vivo, dopo alcune ore di galleggiamento fra i corpi smembrati dei suoi commilitoni.
Termina la guerra in campo inglese di prigionia a Malta, vita dura, bastonature e fame tanta fame. Ma Stefano è un tipo duro, sopravvive e nel 1945, smobilitato, torna in Patria a Savona, dove trova tanti opportunisti che hanno scelto, al momento opportuno di cambiare bandiera e di diventare “patrioti” e soprattutto di rimanere sulla cresta dell'onda per continuare a fare quello che facevano prima: vivere a spese degli altri. Lui non si è mai interessato di politica e tale vuole continuare a fare.
A Savona non c'è lavoro a meno che non hai la tessera del PCI, Stefano per qualche mese fa quello che fanno un po tutti, traffica in sigarette di contrabbando, poi fa qualche giornata al porto di Savona come avventizio e, finalmente nel 1948, entra nei ruoli e diventa socio, assieme a suo fratello Ninno.
Riesce a non farsi intruppare dai comunisti, ma riceve minacce e intimidazioni, che gli arrivavano alle spalle e mai davanti, visto che non era un tipo con cui scherzare senza beccarsi qualche cazzotto nei denti.
Intanto Culin rimane nel giro del traffico di sigarette, sale di livello, organizza sbarchi di “casse” sulla costa ligure e quando gli va bene, realizza guadagni enormi frodando lo Stato, va da sé che la Guardia di Finanza gli dia una caccia spietata con l'intento di agguantarlo, cosa che qualche volta accade, fra una cosa è l'altra sconterà 9 anni di “collegio”..
Mio padre continua a lavorare al porto, si da da fare con mia madre e nel gennaio del 1950, nasco io. La sua vita è fatta solo di casa e lavoro oppure lavoro e casa, un uomo non acculturato ma lesto e sveglio, Andava a lavorare, sapendo quando iniziava ma senza sapere quando avrebbe finito. Essendo gagliardo e bello, piaceva molto alle donne, ma non aveva il tempo o la voglia per rincorrerle.
Mi ricordo le sue uscite di casa, in estate con una canottiera, un paio di “dongari” e un mandillo sulla testa, saliva sulla sua bicicletta e pedalava verso il cancello del porto, come lui centinaia di camalli. Raramente l'ho visto sorridere, aveva fama di essere uomo duro e forte, ma disponibile ad ascoltare, tra i suoi compagni di lavoro godeva di rispetto e considerazione, visto che non si era mai venduto ai comunisti, infatti i suoi colleghi con tessera della falce e martello, divenivano capisquadra e lui era sempre un camallo e basta.
Faceva ore su ore, anche con la febbre andava a lavorare perchè la sua fibra fortissima glie lo permetteva. Avevo 13 anni, nel 1963, quando ebbe un incidente sul lavoro, cadde in una stiva che avevano appena svuotato, fece un volo di una dozzina di metri. Femori, tibie, peroni fratturati in modo scomposto. Andò incontro a una decina di interventi chirurgici che negli anni lo rimisero insieme. Camminava ancora, ma zoppicando, non era quello di prima.
Ricordo la sua sofferenza nel letto d'ospedale e il suo modo calmo di affrontarla, con tranquilla forza. Stefano era mio padre, ma forse era qualcosa di più, un modello da guardare e seguire pur con qualche miglioria, un amico forte che ti guardava senza parlare quando affrontavo i miei esami, uno che aveva superato già le sue prove e ti osserva a mentre io facevo i miei esami.
Se ne andò a 80 anni, mentre gli facevo fare dei movimenti passivi per combattere l'atrofia degli arti inferiori, mi guardava mentre mi affacendavo attorno a lui, vidi il suo sguardo allontanarsi, come se volesse uscire e perdersi nella camera a cercare una più ampia libertà, l'aveva trovata.


Roberto Nicolick