lunedì, giugno 29, 2020

Il Dottor Umberto Montanari


Il Dottor Umberto Montanari
19 maggio 1946
Piumazzo ( Castelfranco Emilia - Modena )
Il Dottor Umberto Montanari era il medico condotto di Piumazzo , una grossa frazione di cinquemila abitanti del comune di Castefranco Emilia, in provincia di Modena, una zona che fa parte del triangolo rosso della morte e del terrore.
Montanari nativo di Bologna, classe 1887, si laurea nel 1913 , partecipa alla prima guerra mondiale dove da prova della sua abilità medica, curando ferite terribili anche sotto il fuoco nemico, viene fatto prigioniero dagli Austroungarici e passa un periodo di prigionia in Ungheria, quando liberato torna in Italia riceve la Croce di Savoia.
E' un ottimo professionista che non si è mai sottratto al giuramento di Ippocrate, durante il periodo insurrezionale ha sempre curato i partigiani feriti negli scontri con i Fascisti, la gente di Castelfranco Emilia ha molta stima di lui.
Non lo stesso concetto che i militanti comunisti hanno del medico che giudicano come un antifascista tiepido ed opportunista, e a loro dire non si curava dei poveri. Al medico vengono rivolte diverse minacce ed è famosa la frase “ bandiera rossa al dottore la testa dobbiam tagliare”. C'è un fatto che la dice lunga sulla correttezza del medico e sul clima che giovani partigiani comunisti volevano imporre in quelle terre, una notte tre giovani partigiani esaltati, si recano dall'abitazione del macellaio di Piumazzo, Gioaccino Lodi, socialista che aveva protestato. pubblicamente contro i prelevamenti notturni di ex fascisti che poi sparivano senza lasciare traccia. Quella sera i partigiani comunisti gli fecero visita e sicuramente avevano in programma anche la sparizione del macellaio dissensiente dei loro metodi, e gli chiedono di scendere per andare con loro in quanto il CLN aveva bisogno di parlargli, era indubbiamente una scusa per farlo uscire e poi sparire.
Lodi non è stupido, si affaccia dal secondo piano e invita i tre giovinastri a tornare l'indomani di mattina. I tre insistono e il macellaio lancia una granata tedesca, avuta dai Tedeschi in cambio di carne, che scoppia e ferisce al basso ventre uno dei tre. Il ragazzo viene portato dal Dottor Montanari, che svegliato nel cuore della notte, tenta un disperato intervento in ambulatorio ma è troppo tardi e il giovane muore sotto i ferri.
I due superstiti però vogliono un certificato di morte naturale, cosa che visto lo stato del corpo non è possibile, vogliono che il medico scriva che è morto per indigestione altrimenti sono disposti a mandare il dottore da San Pietro. Montanari, vista la situazione, acconsente a parole, ma non redige alcun certificato ne lo firma, anzi in seguito fa una denuncia contro i due, forse fu per questo preciso motivo che egli era odiato dai partigiani comunisti, non obbediva agli ordini .
La sera del 18 maggio 1946, un gruppo di persone si riunì presso la Casa del Popolo di Piumazzo, all'ordine del giorno di questa ristretta e riservatissima riunione c'era la soppressione del dottor Montanari.
Alla seduta parteciparono Amedeo Golfieri segretario locale dell'ANPI; Giulio Mantovani militante del PCI, Bruno Graziosi segretario della cellula del PCI di Piumazzo, Dante Santi e Armando Bruni.
In pratica questa riunione fu un tribunale del popolo composto da militanti comunisti , tutti ex partigiani rossi, che emisero animati solo dall'odio e dalla insoddisfazione personale, una sentenza di morte nei confronti di una brava persona, assente e quindi non in grado di difendersi da delle accuse cervellotiche e basate sul nulla.
Inoltre il dottore oltre ad essere intelligente, colto e benestante era anche una bella persona dai bei modi, al cui fascino le donne erano molto sensibili, tutte qualità che mancavano ai suoi detrattori ed “odiatori”, tutti ignoranti, volgari e in più ideologizzati e brutali soggetti da osteria , inoltre non si piegava ai dicktat degli ex partigiani rossi.
L'occasione per assassinare Montanari fu colta la sera del 19 maggio, quando il medico stava attraversando in bicicletta via Ciro Menotti a Piumazzo, una via periferica che portava verso il centro della frazione. Tre uomini lo affrontarono di sorpresa, due immobilizzarono la bicicletta e il medico, il terzo estratta una pistola gli sparò a bruciapelo tre colpi, nella concitazione del momento la terza pallottola lo mancò di poco ma le altre due lo attinsero in organi vitali, infatti il povero medico cadde a terra e spirò quasi subito, i tre dopo una decina di metri , in base al piano predisposto alla casa del popolo, proseguirono ciascuno per proprio conto, separandosi.
Le indagini non portarono nell'immediato a nessun risultato vista l'omertà politica e la cappa del terrore presenti in zona, non gli fu sottratto il portafoglio, quindi non fu un omicidio per rapina.
La pratica venne archiviata per assenza di elementi, poi nel 1950 i Carabinieri , nella persona di un Maresciallo molto tenace, Silvestro Cau, riuscirono a trovare un testimone oculare, un bimbo di nove anni, che al momento del fatto era in cima ad un albero e che interrogato in proposito, avrebbe riconosciuto negli aggressori, alcuni insorti, abitanti nel paese, in base a tali indizi, fermarono Armando Bruni, interrogato si decise a confessare, accusando sé stesso, quale esecutore materiale del delitto indicando Bruno Graziosi e Dante Santi come correi dello stesso omicidio. Indicò inoltre Giulio Mantovani e Amedeo Golfieri come partecipanti alla riunione del giorno precedente alla casa del popolo per la preparazione minuziosa e fredda dell'agguato .
Tutti gli indagati furono rinviati a giudizio presso la Corte di Assise di Modena, da dove il processo poi fu trasferito per legittima suspicione alla Corte di Assise di Cuneo dove si svolse nell'ottobre del 1950, processo in cui la vedova del medico Signora Barbieri si presentò parte civile contro gli imputati dell'omicidio del marito. La sentenza di primo grado fu di condanna per tutti gli imputati a ventun anni di carcere, successivamente ridotti a quindici e condonati in base al decreto di amnistia per reati politici.
Su questo delitto venne scritto un libro, Morte di un medico condotto, che ripercorse tutta la vicenda in chiave giornalistica ed umana.

lunedì, giugno 22, 2020

L'omicidio di Ferdinando Mirotti e il tentato sequestro di Mario ariani


L'omicidio di Ferdinando Mirotti e il tentato sequestro di Mario ariani

Campagnola , agosto 1946

Fernidando Mirotti si era arruolato a suo tempo, nel Regio Esercito, e durante le attività belliche era stato fatto prigioniero dagli Americani, liberato aveva ripreso servizio nell'Esercito del Regno del Sud, con il grado di capitano, a guerra conclusa era stato destinato presso il Comando di Mestre. Il 20 agosto 1946 egli era venuto in licenza per pochi giorni in Emilia a Campagnola, a casa di parenti.
Alla sera, il capitano, trentaduenne, in compagnia di un suo cugino, aveva fatto una capatina al caffè del paese, e a mezzanotte circa, sempre assieme al suo parente, si era avviato verso casa, una villetta posta ai margini del paese.
Giunti al cancello i due si erano salutati ed il Mirotti superato il giardino antistante alla villa si accingeva ad aprire la porta di casa, allorchè veniva colpito da una raffica di arma automatica esplosa dal folto di un cespuglio. Il fratello della vittima che era in casa ad attenderlo, richiamato dagli spari uscì a precipizio e trovò la porta di ingresso sforacchiata dalle pallottole e sulla soglia il corpo del capitano Mirotti agonizzante.
Tutto intorno il buio e il solo il rumore del motore di una motocicletta che stentava a mettersi in moto per poi avviarsi ed allontanarsi. Secondo alcune testimonianze raccolte dai carabinieri, una motocicletta sarebbe stata notata giungere in paese per le 23, montata da due giovani in divisa cachi, qualcuno aggiunse con il viso coperto da un fazzolettone.
Il lavoro di indagine non portò a nulla in quanto si arenò davanti all'omertà di chi aveva visto ma era terrorizzato di fare la stessa fine e in quel triangolo della morte dell'Emilia, le bocche erano cucite.
Il particolare dei giovani armati in divisa cachi è il comune denominatore di altri delitti in quel lembo di terra , altri omicidi per esempio quello di Don Pessina e del Casaro Verderi, avevano visto la presenza di sicari sempre in divisa cachi che come è noto era la divisa dei partigiani comunisti in quel periodo.
La mattina successiva altri giovinastri, certamente simpatizzanti ed amici degli assassini, saputa la notizia della morte del Mirotti, festeggiarono in piazza con scene di entusiasmo che per la morte di una persona per bene erano davvero fuori luogo.
Quell'omicidio faceva parte del tentativo di disarticolare la società civile di quel periodo attraverso l'uso delle armi e del terrore.
Ma la cosa che impensierì molto di più i Carabinieri fu il fatto che i giovinastri urlavano con toni di sotto intesi e con gioia malvagia “ ce ne sono altri cinquantasei da fare fuori”, questo a detta degli inquirenti significava una sola cosa , c'erano delle liste di proscrizione e nel triangolo della morte dell'Emilia , gli squadroni della morte rossi erano ancora in movimento e molto attivi.
L'odio era infinito e tutti questi omicidi suggerivano a chi non condivideva l'ideologia comunista di stare in guardia, perchè il prossimo poteva essere chiunque di loro, ed è quello che accadde a Mario Ariani, proprietario del Molino San Felice, era notte da poco, quando egli sentì bussare in modo risoluto alla porta, fu egli stesso ad aprire e si trovò di fronte un giovane mai visto prima, Ariani gli chiese che cosa volesse ed il visitatore rispose, vieni fuori, tenendo la mano destra nella tasca come ad impugnare una pistola, Ariani ribattè, vieni tu dentro, e il giovane dopo essersi guardato attorno entrò.
Ariani che era un uomo dotato di grande forza fisica ed era coraggioso, afferrò per il collo il giovinastro e lo immobilizzò dopo avergli strappato la pistola, il suo aggressore era un giovane pallido di appena 18 anni, che ai carabinieri sopraggiunti rivelò il piano, che era quello di sequestrare un “fascista benestante” e poi “giustiziarlo”, nascosto a breve distanza c'era il suo complice di questa azione, armato di mitra, che attendeva il segnale convenuto per avvicinarsi e completare l'azione delittuosa.
Entrambi furono arrestati e confessarono di essere entrambi iscritti al PCI, i due ragazzi esaltati credevano fermamente, indottrinati da qualche cattivo maestro, che per l'attuazione della giustizia sociale, era necessaria l'indiscriminata soppressione fisica dei signori e dei borghesi ed era stata stilata da questi soggetti una lista di persone da liquidare.


sabato, giugno 20, 2020

L'omicidio di Giovanni Boaro


L'omicidio di Giovanni Boaro
Croce Mosso ( Biella )
2 giugno 1945
Giovanni Boaro era un ex milite della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, a guerra finita aveva ripreso il suo vecchio lavoro che era quello di operaio tessile , abitava con la moglie, e due figli, Gina e Benito a Croce Mosso una frazione in collina di Val di Lana ( Biella ).
Giovanni pensava che finita la guerra, poteva esserci un periodo di tranquillità dopo tanto sangue sparso , ma si sbagliava , alla mezzanotte del 2 giugno, si presentavano alla sua porta, due giovani apparentemente disarmati, che si qualificavano come agenti del polizia ausiliaria di Biella, i due sedicenti agenti lo invitavano a andare con loro per comunicazioni che lo riguardavano, era notte fonda e questo faceva presagire delle brutte cose.
Boaro visto inutile ogni tentativo di resistenza e per evitare problemi con i famigliari, si vestiva e seguiva i due agenti. Un quarto d'ora dopo, i suoi famigliari udivano provenire dalla strada delle urla e dei colpi d'arma da fuoco, usciti immediatamente non trovavano alcuna traccia ne del congiunto ne dei due sedicenti agenti.
Da quel momento il povero Boero sparì dalla circolazione e il suo cadavere fu ritrovato nell'agosto successivo in una località isolata prossima all'abitato di Croce Mosso.
La moglie sospettò che la responsabilità dell'omicidio del marito fosse da addebitarsi ai partigiani che erano venuti a prelevarlo quella sera, quindi coraggiosamente, si recò al comando SAP della vicina Vallemosso e qui riconobbe in uno dei militi presenti , uno di quelli che la notte del 2 giugno, erano andati a prelevare il marito.
Alle sue pressanti e reiterate richieste di chiarimenti , tuttavia il comandante della Sap non si mostrò interessato a far nascere un procedimento di identificazione e respinse qualsiasi tentativo della vedova di fare luce sull'omicidio e sui responsabili. La vedova non si convinse e decise di andare avanti, pertanto si recò al comando provinciale dei Carabinieri di Biella che era competente per zona.
Nel 1949 i Carabinieri di Biella su denuncia della donna, pervennero agevolmente alla identificazione dei soggetti coinvolti nella morte di Giovanni Boaro, denunciandoli all'autorità giudiziaria e cioè Ugo Ferrero, segretario della camera del lavoro di Vercelli, Pastore Bartolomeo e Alfonso fratelli residenti a Lessona, Bordone Antonio di Pettinengo, Mellograndi Sirio di Vallemosso, Agnani Gino di Vallemosso , tutti partigiani confluiti nella SAP ma secondo l'accusa, tutti convergenti allo stesso obiettivo e tutti partecipanti alla stessa spedizione, quindi tutti responsabili in ugual misura. In base alle indagini furono tutti rinviati a giudizio.
La vedova purtroppo escluse ogni carattere privato e personale, nell'omicidio del marito che peraltro era un convinto fascista ed era stato a suo tempo, milite della M.V.S.N. , quindi il Procuratore Generale chiese il proscioglimento degli imputati, essendo applicabile nei loro confronti l'amnistia del 30 giugno 1945, in parole povere, ammazzare un fascista non era reato in quanto egli era fascista.

venerdì, giugno 19, 2020

L'omicidio dell'operaio Alfredo Simoncini


L'omicidio dell'operaio Alfredo Simoncini
1944
San Damiano D'Asti

Alfredo Simoncini era ventenne un operaio della FIAT grandi motori di Torino, avendo avuto sentore della chiamata alla leva e non volendovi aderire, decide di raggiungere una formazione partigiana sui monti ed evitare così la chiamata alle armi. Su consiglio di un capo tecnico della Fiat suo amico, si mette in bicicletta per raggiungere Agliano D'Asti dove c'era un suo ex collega che lo avrebbe aiutato a contattare i partigiani ed entrare nella resistenza.
Simoncini riusciva a raggiungere San Damiano , qui veniva fermato presso un posto di blocco, da una pattuglia di partigiani e dopo l'esame dei suoi documenti personali era lasciato proseguire. Pochi chilometri dopo incappava in un secondo posto di blocco alla cui guardia c'erano Alessandro Castagno di anni 30 di San Giovanni di Luserna e Albino Capello di 56 anni di Torre Pellice, i due da questo posto di blocco il povero Simoncini ne usciva morto, colpito mortalmente da una raffica di mitra.
due partigiani responsabili della sua morte, interrogati in seguito, affermavano che Simoncini aveva con sé materiale di propaganda della RSI, cosa molto improbabile visto che il giovane voleva entrare a fare parte della resistenza, sempre a loro dire, una volta scoperto il materiale propagandistico Simoncini avrebbe tentato la fuga, costringendoli a colpirlo. La dinamica del fatto non era assolutamente convincente. .
Solo nel 1953 ci fu una fase istruttoria processuale, con il rinvio a giudizio di Castagno e Capello ed emerse che il povero giovane era stato ucciso senza alcun valido motivo, anzi fu lo stesso giovane a chiedere di essere accompagnato al comando partigiano per dimostrare che voleva solo aggregarsi la formazione di Agliano e che addosso non aveva alcun materiale di propaganda fascista, tesi avvalorata dalle testimonianze della prima pattuglia che fermò Simoncini prima del Castagno e del Cappello.
L'istruttoria inoltre rilevò che prima di essere ucciso Simoncini venne preso a pugni e calci e fatto spogliare. I due partigiani a questo punto vennero rinviati a giudizio presso la Corte di Assise di Asti.

martedì, giugno 16, 2020

L'uccisione del tenente della G.N.R. Armando Angeli


L'uccisione del tenente della G.N.R. Armando Angeli
Castellazzo Bormida
14 maggio del 1945
La sera del 14 maggio 1945, a guerra finita, verso le 19,30 veniva ucciso a colpi di arma da fuoco, sulla piazza di Castellazzo Bormida, il Geom. Armando Angeli, già tenente della G.N.R. Di anni 40, reduce della campagna di Russia, decorato di due medaglie d'argento e due di bronzo al V.M. Nel corso della ritirata il tenente aveva portato in spalla un suo soldato per una quindicina di chilometri portandolo in salvo, era un combattente e un uomo generoso.
L'uccisione del tenente era da ricercarsi in un fatto precedentemente accaduto, proprio a Castellazzo Bormida, a pochi chilometri da Alessandria, Il Tenente Angeli era stato inviato il 29 gennaio del 45 a Castellazzo per condurre una inchiesta giudiziaria , qui egli veniva attaccato da otto persone armate restava ferito al petto con perforazione di un polmone. In questa situazione, essendo rimasto privo di armi era costretto a lanciare una bomba a mano contro gli aggressori, la bomba esplodeva ed uccideva il capo della banda partigiana, Oscar Rapetti.
In seguito Angeli era ricoverato all'ospedale di Alessandria dove rimaneva ricoverato per due mesi. Dopo il 25 aprile 1945, Angeli si rifugiava presso un sacerdote, Don Urbano Viazzi, già capellano con lui in Russia, poi nella chiesa di San Rocco, nel frattempo i partigiani erano alla sua ricerca e due di essi , del comando SAP di Alessandria, lo prelevavano proprio in quella chiesa la mattina del 14 maggio. Appena a Castellazzo veniva ucciso per vendicare la morte di Rapetti, qualcuno ebbro di sangue, sparava altri colpi sul corpo esanime dell'ufficiale. Il giorno dopo si presentavano ad Alessandria, nella abitazione della vedova Margherita Mognotti, alcuni partigiani che con il pretesto di fare una perquisizione asportavano indumenti, preziosi e denaro per un notevole valore. Dopo una lunga istruttoria, venivano rinviati a giudizio alla C.A. Di Alessandria, l'ex capo partigiano Giuseppe Rapetti , Carlo Moscatelli falegname, Guerrino Goglino operaio, Armando Gasti che deve pure rispondere oltre che di omicidio anche del furto nella casa della vedova. Anche la vedova del tenente ebbe a subire delle pressioni, in apertura di udienza viene prodotta dal legale della vedova, Margherita Mogliotti, una lettera anonima ricevuta verso la fine del maggio 1945, cioè una quindicina di giorni dopo l'omicidio del marito, in cui era scritto che uguale sorte sarebbe toccata a lei se avesse sporto denuncia all'autorità. La lettera concludeva testualmente “silenzio sul fatto, se parlate farete una fine peggiore della sua”. Nel corso del processo, il principale imputato Giuseppe Rapetti ammette la propria responsabilità nell'omicidio del tenente, sceso in piazza richiamato della folla tumultuante scorto l'ufficiale che vacillava sotto i maltrattamenti e le percosse della piccola folla, già ferito, allo scopo di evitare che finisse linciato , dopo aver esploso due colpi di pistola in aria per allontanare quella ressa omicida, si decideva a colpire mortalmente la vittima per abbreviargli l'agonia. Alla fine dell'udienza il tribunale condanna Rapetti a 9 anni e 4 mesi, di cui 9 anni condonati, assolve gli altri imputati per non aver commesso il fatto, condanna il principale imputato a risarcire in sede civile la parte lesa.

mercoledì, giugno 10, 2020

Le Officine Servettaz di Corso Colombo a Savona,


Le Officine  Servettaz  di Corso Colombo a Savona,
un luogo ideale per le esecuzioni sommarie dei fascisti

Nel 1887, l'officina Servettaz - Basevi si trasferirà dall'area portuale, nel più grande stabilimento di Savona , in un’area compresa tra le spiagge e i palazzi che costeggiano Corso Cristoforo Colombo.
Dall'inizio di corso Colombo, nei pressi del prolungamento a mare, occupò una vasta area fin quasi al Letimbro, lo stabilimento della Servettaz, occupò dapprima anche l'area appartenente in precedenza dalla Migliardi & Venè.

Fatto che venne aspramente criticato e fece sorgere parecchie discussioni poichè molti savonesi avrebbero preferito l'ubicazione di questi impianti nella piana dell'immediato retroterra per poter adibire l'area lungo il mare alla creazione di giardini e di una passeggiata a mare.
Bisognerà attendere il 1964 per  poter assistere alla scomparsa di tutti i complessi industriali lungo corso Colombo e alla destinazione di queste aree a fini turistici con aree a verde pubblico
Lo stabilimento Servettaz contava circa mille fra operai ed impiegati amministrativi.

Per permettere ai cittadini Savonesi di raggiungere le spiagge, nel periodo estivo, l’azienda che gestiva le Officine Servettaz – Basevi, costruì due rampe di scale composte da circa un centinaio di gradini, che portavano ad un vialetto sopraelevato , largo circa cinque metri e lungo quasi duecento metri, il quale praticamente correva sopraelevato  sui tetti della fabbrica, la superava e raggiungeva altre due rampe di scalini  che si affacciavano direttamente sulle spiagge e sul mare.

Il vialetto era affiancato e protetto lateralmente da due alti muri sormontati da una porzione di rete metallica con il logo dell'azienda, che impedivano l’accesso e soprattutto  la vista sul tetto della fabbrica e naturalmente impedivano alle eventuali maestranze che si fossero trovate sui tetti di osservare quello che accadeva   sul vialetto.
In pratica chi percorreva il vialetto sopraelevato , era completamente nascosto alla vista di chiunque, sia dalla fabbrica che dalle spiagge e dalle case di Corso Colombo.
Con queste caratteristiche era logico che venisse scelto come luogo ideale per effettuare cose che non dovevano essere viste da testimoni, tipo esecuzioni sommarie. Molti fascisti repubblicani o presunti tali che dovevano essere liquidati dai plotoni di esecuzione dei partigiani comunisti Savonesi, raggiungevano questo sito.
La procedura era molto semplice e soprattutto riservata, ai boia interessava non essere visti da nessuno mentre sparavano sui “condannati”, anche perché la maggior parte delle uccisioni erano dettate vendette personali che con la lotta di liberazione non avevano nulla a che fare.
Infatti un conto era un combattimento contro forze armate Naziste o Fasciste un altro era fucilare persone inermi, senza processo e senza nessuna pietà, magari dopo averle depredate di ogni avere.
Le esecuzioni su questo sito avvennero da subito, dal 25 aprile 1945, il posto era comodo e raggiungibile con grande facilità, appena un gruppo di partigiani incontrava un fascista oppure un presunto fascista, lo portava immediatamente in Via Cristoforo .Colombo,  sotto la minaccia delle armi lo accompagnava su per rampe, appena sul vialetto, dopo averlo messo al muro lo passava per le armi. Non era neppure necessario che ci fosse un intero plotone di esecuzione, bastava anche un solo boia, armato di un mitra oppure di una pistola.
Il prigioniero veniva in genere fatto inginocchiare, e il boia lo colpiva alle spalle, senza neppure guardarlo in viso. Se il boia aveva fretta il cadavere crivellato di colpi veniva abbandonato proprio sul posto dell’esecuzione mentre i suoi assassini andavano a bere un bicchiere di vino in una osteria vicina, per festeggiare se invece c'era tempo il corpo era portato via.
Molti savonesi che si recavano a spiaggia ebbero la sorte di trovare dei corpi abbandonati sul vialetto nei peggiori dei casi o nei migliori chiazze di sangue sulla strada.
In genere i passanti che transitavano sulla strada, vedevano un gruppo di uomini armati che accompagnavano altri, legati per i polsi, salire le scale e scomparire alla vista, lasciando una sentinella a piantonare l'accesso dalla strada. Nessuno , ovviamente andava a curiosare. Si sentivano dei colpi di arma da fuoco e dopo qualche minuto gli uomini armati riscendevano le scale senza i loro prigionieri vivi.

Ho raccolto la testimonianza di un simpatico signore ultrasettantenne di Savona,  Diego C., che all’epoca della Liberazione, usava il vialetto per recarsi a pescare  sulla spiaggia con dei coetanei, una mattina sul presto, i ragazzini salirono sulle scale e imboccato il vialetto, si trovarono di fronte a tre cadaveri in una pozza di sangue.
I tre bimbi spaventati corsero via e per diversi giorni , ebbero paura a ripercorrere quella strada per timore di trovare altri morti ammazzati.

Anche alcuni rapporti dei carabinieri parlano di questo posto, come di luogo di esecuzioni sommarie di Repubblicani o di presunti tali.

Cito testualmente un rapporto datato 2 giugno 1945, indirizzato alla Procura del Regno di Savona : “..il giorno 27 c.m. sul sovrappasso della S.A. Servettaz Basevi, venivano rinvenute le salme di due individui, recatisi sul posto due agenti , identificavano un cadavere per certo Bianchi Umberto, mentre l’altro rimaneva sconosciuto per chè sprovvisto di documenti.
I predetti sono deceduti in seguito a ferita d’arma da fuoco, come da referto medico del dottor Ferro per la constastazione di morte. Le salme sono state rimosse e trasportate al cimitero di Zinola a disposizione dell’Autorità Giudiziaria”
Successivamente verrtà aperto un procedimento penale contro ignoti per omicidio in persona di Bianchi Umberto, appartenente alle Brigate Nere, di Francesco, nato a Mondovì di anni 36 e per l’altro morto, successivamente identificato per Francia Ferdinando di Giovanni nato a Rosignano Monferrato ( Al) , civile, di professione meccanico,di anni 40, residente a Casale Monferrato senza apparente collocazione politica.
Naturalmente gli assassini, come in tanti altri casi non vennero mai identificati e perseguiti. Rimasero semplicemente ignoti e liberi di proseguire nella loro azione omicida.

Roberto Nicolick


lunedì, giugno 08, 2020

L'omicidio del Sergente Marconista Oscar Oddera


L'omicidio del Sergente Marconista Oscar Oddera in forza alla San Marco
16 maggio 1945

Questa è una delle tantissime esecuzioni sommarie, compiute arbitrariamente dai partigiani comunisti ai danni di persone innocenti. Oscar Oddera è un giovane di 24, anni nativo di Mioglia, dopo varie vicissitudini nel novembre del 1944, viene aggregato ad un battaglione della San Marco presso la Cittadella di Alessandria, consegue la specializzazione di marconista.
Durante questo periodo riesce a defilarsi da ogni attività di rastrellamento e di contro banda, la vita militare non fa per lui. Il 25 aprile del 1945, con il crollo della RSI, riesce a rientrare indenne, a casa dai suoi a Mioglia nell'entroterra Savonese , se ne sta tranquillo in seno alla famiglia sino al 16 maggio, quando alla sera arrivano a casa sua due partigiani comunisti di Savona, che peraltro egli conosce, Valerio Canavero e Duilio Ferraro, all'epoca suoi coetanei ed amici, entrambi finiranno al centro di ulteriori indagini per esecuzioni sommarie e omicidi politici nel periodo insurrezionale.
Oddera si fa convincere a seguire i due partigiani comunisti con la scusa che devono recarsi ad Alessandria per regolarizzare la sua posizione militare. Oddera era tranquillo e convinto di non aver nulla da rimproverarsi e quindi segue fiducioso i due amici.
Purtroppo la sua fiducia era mal riposta, infatti pochi chilometri dopo, veniva ucciso da una raffica di mitra e alla sua famiglia veniva recapitato un biglietto in cui era scritto : “ecco quello che capita ai traditori”.
Ovviamente i Carabinieri svolgono delle indagini e constatano che il corpo di Oddera presenta diverse ferite a bruciapelo alla fronte, al viso e ad un occhio che era stato completamente asportato dal proiettile, inoltre i fori di uscita erano nella nuca, segno evidente che i colpi d'arma da fuoco erano stati sparati di fronte o di lato e non alle spalle come avevano affermato Canavero e Ferraro, i quali avevano sostenuto, durante gli interrogatori, che il camion su cui viaggiavano aveva avuto un guasto e tutti erano stati costretti scendere dal mezzo, sempre secondo la versione dei due partigiani comunisti, Oddera in quel frangente avrebbe tentato la fuga e loro, dopo aver intimato il fermo, gli avrebbero sparato alle spalle uccidendolo.
Dato che il corpo della vittima dava risultanze totalmente difformi dalla loro versione, venivano rinviati a giudizio e il processo si celebrava presso la Corte di Assise di Alessandria presso la quale i due venivano ritenuti colpevoli di omicidio volontario e condannati a 4 anni e 8 mesi di cui un anno condonato.
Quella di inscenare tentativi di fuga, che poi erano stroncati nel sangue era una prassi consolidata da parte dei partigiani comunisti che in questa maniera tentavano di giustificare degli omicidi veri e propri.

sabato, giugno 06, 2020

Ettore Gazza


Ettore Gazza
settembre 1946
Località Torchiano, comune di Montechiarugolo ( Parma)

Sul tramonto in località Torchiano, Ettore Gazza , un tranquillo signore di sessantasei anni, stava tornando a casa pregustando l'aria settembrina del Parmense, non si accorse della presenza di un uomo acquattato dietro ad un cespuglio che appena il viandante si avvicinò, si alza puntando il suo mitra e lo uccide senza pietà.
Gazza verrà cercato dai suoi famigliari che non lo vedono tornare e lo trovano in un lago di sangue oramai morto sul sentiero che lo avrebbe portato a casa. Ettore Gazza , non era un fascista, non aveva quindi nostalgia del ventennio, era una persona tranquilla, serena, che amava dialogare con la gente e bere un buon bicchiere di vino in compagnia in qualche osteria, mai una lite, mai un battibecco.
Era tornato di recente dall'America e aveva un solo programma, godersi con i suoi , nella terra natale la piccola fortuna che si era costruito, con il suo lavoro negli Stati Uniti.
Una aspirazione umana, onesta e legittima ma che ai partigiani comunisti doveva apparire come una cosa volgarmente borghese da reprimere prima a parole e poi nei fatti.
E per questo il vecchio e tranquillo emigrato tornato in patria, per concludere in armonia la sua vita è stato ferocemente assassinato e mai si saprà chi è stato il responsabile.
Le indagini arrivano tutte alle stesse conclusioni sul motivazioni del nuovo omicidio, nessun movente di natura politica legata ad una presunta adesione alla RSI, nessuna motivazione personale atta a far configurare l'ipotesi di una vendetta. Tutte le morti verificatesi a catena nelle provincie di Reggio e di Modena toccavano dei possidenti, dei benestanti, dei borghesi, che vivevano in modo agiato.
Era la futura società che ai partigiani comunisti non andava bene e che doveva essere cambiata non con la dialettica ma con il mitra.

giovedì, giugno 04, 2020

Virginio Chiappori, Severino Chiappori e Filippo Bussi Montegrosso D'Asti


Virginio Chiappori, Severino Chiappori e Filippo Bussi
Montegrosso D'Asti
14 maggio 1945



In provincia di Asti erano operative diverse unità partigiane, nella zona di Mombercelli c'era la 7° Divisione Garibaldi i cui capi erano Giovanni Battista Reggio, detto gatto, e Valentino Ghione già precedentemente in una formazione della RSI, accanto alla regione della 7° divisione Garibaldi in un territorio adiacente a Montegrosso D'Asti, c'era una unità dalla configurazione politica non definita, ma soprannominata Azzurra, il cui capo era Angelo Roasio, detto Poli.
La convivenza tra le due unità partigiane non era facile, ma si era creato un equilibrio anche se delicato e precario.
Il Podestà o meglio l'ex podestà di Montegrosso d'Asti, era un commerciante di vino, Virginio Chiappori che era bene accetto un po da tutti, in quanto evitava di fare scelte di natura politica molto precise, ma badava solo ad amministrare bene il centro, il suo lavoro amministrativo era stato talmente onesto e corretto che dopo il 25 aprile 1945 era stato riconfermato in carica.
Nelle prime settimane del maggio 1945, in frazione Valle di Montegrosso, vennero organizzati due balli il cui incasso doveva andare in beneficenza, nel primo andò tutto bene nel secondo nacquero dei tafferugli durante i quali un esponente della brigata Garibaldina fu preso a schiaffi per futili motivi dai partigiani azzurri.
Il capo della divisione comunista dopo aver aprreso i fatti, volle vendetta e identificò nell'ex podestà il responsabile di questa offesa in quanto a suo dire egli simpatizzava per i partigiani azzurri.
La notte del 15 maggio 1945, due macchine con a bordo Reggio e Ghione si fermò davanti alla casa dell'ex Podestà Chiappori, ne scesero alcuni uomini armati e attraverso un segnale conosciuto da pochi, si fecero aprire la porta, quindi sotto la minaccia delle armi prelevarono Virginio Chiappori e il figlio Severino, dicendo che dovevano essere trasportati a Mombercelli per essere interrogati, poi passarono dalla casa del barbiere del paese, Filippo Bussi, con la scusa che egli era amico dei due Chiappori.
Il giorno successivo, i tre sequestrati vennero trovati morti in località Rivellino di Montaldo Scarampi crivellati da colpi d'arma da fuoco. Il Gatto si assunse la responsabilità dei tre omicidi qualificandoli come azione di polizia, nei confronti di tre fascisti repubblicani, la solita scusa .
La tragedia non uscì dai confini del territorio per diversi anni, la famiglia di Chiappori si chiuse nel suo dolore per questo terribile gesto che non aveva giustificazioni .
Per molti anni la strage rimase quasi sconosciuto, ma emerse in tutta la sua tragicità quando uno degli assassini, Reggio detto gatto, fu proposto per il conferimento di una medaglia d'oro al V.M.
per le sue azioni partigiane, fu in questa occasione che i Carabinieri esaminarono anche tutta questa vicenda e quindi passarono il fascicolo alla Procura della Repubblica che rinviò a giudizio Reggio e Ghione presso la C.di A. di Padova.
Il processo si svolse in tale città lontano da condizionamenti, con l'accusa ai due imputati di : violazione di domicilio, triplice sequestro di persona e omicidio volontario ed aggravato. Durante il processo uno degli imputati raccontò a motivazione del triplice omicidio, che i tre tentarono la fuga ed egli e il suo sottoposto, Ghione, furono costretti ad ucciderli per fermarne la fuga.
Ebbero modo di testimoniare all'udienza anche la vedova di Chiappori, la figlia e il fratello, tutti affermarono che Virginio Chiappori dimostrò sempre di essere un bravo amministratore, non fazioso e di aver sempre beneficato i partigiani sia comunisti che azzurri.
Inoltre si appurò che il figlio Severino, ex allievo ufficiale alla scuola di Asti, volle seguire volontariamente il padre durante il sequestro perchè non si fidava dell'atteggiamento dei partigiani. Alla fine dei tre gradi di giudizio, anche la Corte di Cassazione respinse il ricorso dei due capi partigiani, condannandoli a trentanni ciascuno di reclusione, tuttavia grazie ai numerosi condoni essi scontarono solo due anni a testa. Anche se tornarono in libertà dopo una pena risibile per quello che avevano fatto, erano a tutti gli effetti due assassini riconosciuti.

Robert Nicolick

lunedì, giugno 01, 2020

Il poeta Edgardo Marani


Edgardo Marani
un poeta
Fabbrico , Reggio Emilia
27 aprile 1945

Ad aprile del 1945, scrisse in una breve poesia “sono solo, io guardo me stesso e mi vedo, senza specchio”, ed effettivamente era solo quando la sera del 27 aprile 1945, un gruppo di partigiani comunisti, bussarono alla porta di casa sua a Fabbrico, Reggio Emilia, nel il triangolo rosso della morte, e fu sequestrato, portato via nel buio della notte, la famiglia di lui non seppe più nulla come di tanti altri vittime della lupara rossa, che imperversava nella terra dei tortellini e del culatello.
I suoi resti vennero trovati, un anno dopo in una delle tante fosse comuni del'Emilia, orrendamente straziato da evidenti segni di tortura.
Marani fu una vittima eccellente, del rigurgito della violenza ideologica comunista che attraversava quelle terre dopo la caduta della repubblica e la cacciata dei Tedeschi, ma non venne eliminato fisicamente solo come notabile fascista ma anche dalla scena letteraria che egli aveva occupato, tutte le sue opere , in quanto prodotte da un Fascista , furono epurate selvaggiamente, eppure Marani non aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana, ma la violenza cieca che lo aveva assassinato non conosceva limiti.
Decorato nella prima guerra mondiale, era stato segretario del Fascio, vice podestà e commissario prefettizio sempre a Fabbrico, per poi lasciare tutte le cariche istituzionali per dedicarsi alla poesia e alla letteratura oltrechè alla vasta propietà terriera, ma agli occhi della piccola gente comune, egli rimaneva sempre un autorevole esponente del Fascio in quella piccola comunità agricola di 5000 anime.
Aveva il grado di capitano ma l'otto settembre mentre i Tedeschi occupavano militarmente l'Italia, lasciò la divisa, senza più certezze, e senza aderire alla repubblica, tuttavia non rinnegò il suo passato militante e non collaborò con i partigiani comunisti della zona in cui viveva, che erano sempre più presenti militarmente.
Aveva predisposto due appartamenti rifugio, in cui aveva accantonato delle provviste ma non volle mai usarli.
La sua fine ricorda molto quella di Garcia Lorca, a pochi giorni dal 25 aprile, i partigiani lo avevano già prelevato e trattenuto per alcune ore ore per poi rilasciarlo, in quanto contro di lui non c'erano accuse, poi a 24 ore di distanza, vennero a riprenderlo, l'uomo armato che lo portò via aveva una sciarpa sul viso , Marani capì immediatamente quello che sarebbe accaduto quando chiese al partigiano rosso a cosa serviva la sciarpa ed egli rispose , per non essere riconosciuto. Come a presagire il vento di odio e di follia che stava attraversando la sua terra e la sua vita, Marani in uno dei suoi ultimi componimenti aveva scritto : la guerra muove, le sue mascelle di teschio, teschio famelico che, chiede cibo carne umana, occupa il cielo lugubremente, ulula nella notte, empie il giorno di rantoli.