domenica, gennaio 31, 2010

UNA STORIA DI UN GRANDISSIMO AMORE; PRATICAMENTE SENZA FINE


Questa che ho pubblicato, attraverso un mio articolo su IL GIORNALE, e' la Storia di un Amore senza fine, che mi ha profondamente commosso e toccato nei miei sentimenti che pensavo quasi assenti su queste storie.

giovedì, gennaio 21, 2010

I CINESI E I CANI

I Cinesi pensano che ci son troppi randagi e così li uccidono...bene,io penso che ci sian troppi Cinesi,come la mettiamo?

martedì, gennaio 12, 2010

ALCUNE IMMAGINI SU CHAVEZ DA PARTE DI AMICI SUDAMERICANI







Amazing Grace - Remembrance

NON DIMENTICHIAMO

DUE NUOVI INDAGATI SULLA STRAGE DI CEFALONIA

Strage di Cefalonia, dopo 67 anni spuntano due nuovi indagati
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Due nuovi indagati per la strage di Cefalonia, il peggior eccidio di militari italiani compiuto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale
Sono - secondo quanto appreso dall'ANSA - due ex soldati della Wehrmacht, entrambi di 86 anni, sospettati di aver ucciso un numero imprecisato di uomini della Divisione Acqui. Gregor Steffens e Peter Werner - questi i loro nomi - sono stati rintracciati dai carabinieri, quasi 67 anni dopo i fatti, nell'ambito dell'inchiesta a carico di Otmar Muhlhauser, l'ex ufficiale tedesco morto lo scorso mese di luglio mentre era in corso l'udienza preliminare nei suoi confronti. L'identificazione dei due ex soldati e la loro iscrizione nel registro degli indagati da parte della procura militare di Roma riapre l'inchiesta su una strage che, con la morte dell'ultimo imputato e una serie di assoluzioni e archiviazioni, è rimasta finora impunita.

MASSIMO RISERBO SULLE INDAGINI - Massimo riserbo viene mantenuto dalla procura militare di Roma sugli sviluppi giudiziari relativi alla strage di Cefalonia: il procuratore capo, Antonino Intelisano, si è limitato a confermare all'ANSA che vi sono due nuovi indagati, ma non ha fornito altri particolari. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, tuttavia, i carabinieri delegati a svolgere indagini sull'eccidio di Cefalonia nell'ambito del procedimento a carico di Muhlhauser, si sarebbero messi sulla nuova pista dopo essersi imbattuti in due nomi, citati in una relazione del cappellano militare don Luigi Ghilardini, redatta poco dopo la strage, avvenuta nel settembre '43. Nel documento, proveniente dall'Ufficio storico dell'Esercito, si parla dei "soldati Steffens Gregor e Werner Peter, che precedentemente erano stati nostri prigionieri", i quali "si vantavano di aver ucciso tramite fucilazione - lungo la strada tra Lakhitra e Faraò - 170 soldati disarmati che si erano arresi". I militari dell'Arma si sono subito attivati e, grazie anche alla collaborazione della polizia criminale tedesca, sono riusciti a individuare i due ex militari della Wehrmacht, scoprendo che sono entrambi vivi e qual è il loro attuale domicilio in Germania.

GLI INDAGATI - Steffens e Werner appartenevano alla 1/a divisione Alpenjager (da montagna): uno faceva parte della prima compagnia del 910/o battaglione granatieri da fortezza e l'altro della prima compagnia del 909/o battaglione. I due, si è scoperto, erano già stati sentiti a "sommarie informazioni" nel 1965 e nel 1966 dalla procura di Dortmund, che sui crimini compiuti dalla Wehrmacht a Cefalonia aveva aperto un'inchiesta, conclusasi con l'archiviazione. Entrambi avevano negato ogni responsabilità. Sempre dalle indagini è emerso che dei due presunti assassini si era probabilmente occupata molti anni fa anche la magistratura militare italiana, che nel 1957 e nel 1960 emise due sentenze istruttorie nei confronti di 30 militari tedeschi accusati di "violenza con omicidio continuato commessa da militari nemici in danno di militari italiani prigionieri di guerra" in relazione all'uccisione, "tra il 15 e il 28 settembre 1943, in Cefalonia e Corfù", di "450 ufficiali e 5.500 uomini di truppa italiani". Per tutti gli imputati la vicenda processuale si concluse con un nulla di fatto, tra archiviazioni e proscioglimenti, e in particolare per 17 di loro la sentenza del '57 stabilì di "non doversi procedere" per essere rimasti ignoti gli autori del reato. Tra questi "militari ignoti" anche tali 'Wermer' e 'Stefans Gregor', all'epoca non meglio identificati ed ora improvvisamente riemersi da un lontanissimo passato. La procura militare di Roma, secondo quanto si è appreso, avrebbe già sentito per rogatoria i due indagati, che avrebbero nuovamente confermato la loro estraneità ai fatti. Sentiti anche numerosi ex militari tedeschi in qualità di testimoni, ma ulteriori accertamenti sono in corso

BOMBE FASCISTE DI SAVONA : FURONO VERAMENTE TALI ?? E A CHI GIOVARONO ??


Circa 39 anni fa, nell'arco di nove mesi, a Savona , in diversi punti della città e in zone limitrofe avvengono tredici attentati dinamitardi in cui esplodono altrettanti ordigni, in genere tritolo o analoghi esplosivi con miccia :Il primo attentato avviene alle 21 del 30 aprile 1974, in pieno centro, Via Paleocapa, la main street di Savona, tutta portici e vetrine.Al cinema accanto stavano proiettando " Mussolini ultimo atto" del Regista Carlo Lizzani, la bomba viene posizionata nel portone , accanto alla sala , dove abitava un Senatore della D.C. , nessun ferito.Subito , pur non esistendo nessuna rivendicazione di alcun tipo, le "forze politiche democratiche ed antifasciste " si "indignano e protestano" , la definizione di "democratiche ed antifasciste " è autoreferenziale ed è il termine con cui i partiti di sinistra si autodefiniscono, in opposizione a tutti gli altri , che per sillogismo, devono essere forzatamente fasciste e antidemocratiche.IL LAVORO, testata di partito del 24 maggio 1974, afferma che l'autore dell'attentato sarebbe un certo Zani Daniele , 21 anni, accusatosi nel corso di un processo a Varese a "Ordine nero", tuttavia le indagini non confermano questa tesiIl 9 agosto 1974, altra bomba, presso la Centrale ENEL di Vado Ligure, città fortemente comunistizzata all'epoca, nessun ferito e nessuna rivendicazione ;Il 9 novembre 1974 , esplode una bomba, di ben dieci chili, presso il Palazzo dell'Amministrazione Provinciale, Palazzo Nervi, danni ingenti ma nessun ferito, anche in questo caso nessuna rivendicazione. Le cosiddette forze "democratiche ed antifasciste " affermano incontestabilmente e senza tema di smentita, visto che nessuno si azzarda a contrariare il coro, che la bomba va messa in relazione allo scoprimento recentissimo, di un cippo commemorativo dei sei partigiani savonesi fucilati dai nazifascisti . In una città dove i partigiani si sono moltiplicati in modo esponenziale nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1945, anche la vittima di un banale incidente stradale può assurgere all'empireo degli eroi della Resistenza.12 novembre 1974, bomba al tritolo nell'atrio di una Scuola Media, alle ore 18, era da poco terminata una riunione di insegnanti, nessun ferito e nessuna rivendicazione. Ma, visto che la bomba di 5 chili, esplode a pochi metri dalla Camera del lavoro, si decide , anche in questo caso, di attribuire una precisa matrice politica agli autori degli attentati e cioè, il verbo è : fascisti, e soprattutto anti operai.16 novembre 1974, questa volta, la bomba esplode a circa 7 km. da Savona, sulla ferrovia che porta ad Altare, in concomitanza con il prossimo arrivo di un treno da Alessandria, che viene tempestivamente fermato. Nessun ferito e nessuna rivendicazione.Ma nonostante l'assenza di comunicati deliranti di organizzazioni più o meno eversive, le forze "democratiche ed antifasciste " decidono di proclamare la mobilitazione generale popolare, con l'appoggio dei Partiti, di sinistra , e dei sindacati, ovviamente.Le Istituzioni abbozzano preoccupate , manifestando impotenza, i partiti per tradizione non comunisti, come D.C. e P.S.D.I. per non rimanere fuori dal gioco, entrano anche loro in una specie di "arco costituzionale" e si formano delle specie di "ronde", che dovrebbero vigilare sui quartieri in funzione "anti - attentato ", molti ex partigiani che hanno molta nostalgia dei "bei tempi" andati, gongolano e offrono il loro "notevole" contributo di esperienza con entusiasmo giovanile nonostante gli acciacchi della terza età.16 novembre 1974, altra bomba che esplode, nello specifico, al primo piano di uno stabile in collina, nel quartiere della Villetta. Nessun ferito e nessuna rivendicazione . Le "ronde" e i " comitati", continuano la loro vigilanza "antifascista" , nonostante la loro acclarata inefficienza, visto che le bombe continuano ad esplodere.Ed infatti il 20 novembre 1974, alle 17,25 in Via Giacchero, di fronte ad una area a verde pubblico, nel civico 22, esplode un ordigno molto potente, che causa danni imponenti e ferisce 12 abitanti dello stabile e 2 soccorritori.Nello scoppio rimane ferita una donna di 82 anni che muore il giorno successivo per avvenute complicazioni. Del tragico decesso di questa persona, le sinistre si impadroniranno, cinicamente, per farne un mito dell'antifascismo militante , salvo a dimenticarsene appena trascorsa la necessitàAnche in questo caso nessuna rivendicazione. Le successive bombe esplodono a Varazze, il 23 novembre, accanto ai piloni autostradali della Savona - Genova; A Cadibona sulla Autostrada per Torino il 23 novembre ; il 26 febbraio 1975, alle 18,40 nella stradina dietro il Palazzo del Governo, con qualche ferito leggero;il 27 febbraio alle 17,56 salta un traliccio ENEL presso Madonna degli Angeli, un messaggio verbale captato su un canale di una radio citizen band, un baracchino accessibile a chiunque, dice testualmente " Qui Ordine Nero vi faremo a pezzi", tutti lo sanno ma nessuno lo dice : chiunque dotato di una radio ricevente - trasmittente , poteva aver lanciato nell'etere le stesse idiote parole , subito dopo aver sentito il boato dell'esplosione, inoltre il testo della rivendicazione è talmente grottesco e infantile da suscitare molti dubbi e perplessità, tranne che in chi è già fermamente convinto della tesi delle bombe fasciste.Ora, però, le forze " democratiche ed antifasciste " hanno la loro brava rivendicazione e la possono usare come prova del complotto "fascista".Il 31 maggio esplode, l'ultima bomba, lontano dai centri abitati, in un vecchio forte abbandonato sulle alture savonesi. Con questa esplosione si conclude un periodo terribile per i savonesi. I professionisti dell'antifascismo ad oltranza diranno che i dinamitardi neri , sconfitti dalla mobilitazione popolare, hanno scelto altri obiettivi più facili.Al di là del più che naturale cordoglio, per l'unica vittima , ultraottantenne , in ben tredici attentati, non tutti simili tra loro e con scarsissime e poco controllabili rivendicazioni, appare chiaro che le forze politiche "democratiche ed antifasciste " , anche in questo caso, hanno effettuato una magnifica , ma molto ben congegnata , strumentalizzazione , delle bombe , note, grazie a questa strumentalizzazione, come le "bombe fasciste di Savona", anche se la matrice politica non è stata assolutamente dimostrata. Ma va da sé che tutto quanto sia contro i comunisti e i loro sodali è per definizione fascista.I partiti della sinistra di allora, hanno agito con maestria e con grande abilità , giocando sul fatto che le indagini partirono tardivamente e pertanto allo stato attuale delle cose, non sono mai stati scoperti i responsabili di queste bombe "fasciste" che successivamente, scemando l'egemonia mediatica dei notabili comunisti di stampo staliniano , hanno assunto la denominazione, molto più corretta di "bombe senza nome".I soliti opinionisti , sempre appartenenti alle forze "democratiche ed antifasciste " hanno affermato che Savona fu una cavia da esperimento, per la attuazione della strategia della tensione, tesi molto suggestiva e dietrologica, che però accredita una eccessiva importanza ad una cittadina pur sempre di provincia come Savona.I fatti però, tanto per attenersi alla realtà, sono questi : non fu arrestato e processato nessun terrorista di alcun colore politico !nessuna sentenza di condanna emessa! L'inchiesta fu archiviata! Venne anche ripresa ,anni dopo, dalla Commissione Parlamentare Stragi che anch'essa non cavò un ragno da un buco.Vi fu una operazione molto abile e sapiente di strumentalizzazione, da parte dei soliti columnist di sinistra che riuscirono a ottenere il massimo rendimento dalle bombe, qualificandole, vox populi, fasciste !Il P.C.I. riuscì a compattare, con questa situazione di acclamata emergenza, per un breve periodo, subordinandole a sè, molte forze di sinistra sul territorio, nei comitati di vigilanza di quartiere , sorti allo scopo di impedire altri attentati "fascisti", evocando lo spauracchio degli attentatori di "ordine nero". In seguito , verranno manifestate le tesi più diverse : servizi segreti deviati oppure no, servizi nazionali oppure stranieri, massoneria deviata, eversione di varie tonalità dal grigio scuro al nero più profondo, il tutto comunque e sempre, per colpire " Savona, fiera città antifascista ".Ma per dirle tutte , Savona non è solo una città "fieramente antifascista" ma anche la città delle stragi gratuite e per motivi abbietti , compiute a guerra abbondantemente terminata, dai partigiani comunisti.Città dove intere famiglie nel 45 sparivano e i loro beni cambiavano proprietario.Città dove in alcuni quartieri imperavano bande di ex partigiani , con ancora con il mitra sotto il letto. Una città dove si ammazzava a pistolettate , nel 1946, un commissario di polizia venuto apposta , per indagare su una catena di delitti molto poco politici .Una città con ingenti depositi di armi accantonate e nascoste dagli ex partigiani , ancora perfettamente lubrificate e pronte all'uso e magari dove c'erano anche esplosivi. Una città dove i pochi processi per gli omicidi "politici" agli assassini , iniziavano e si svolgevano tra le minacce e si concludevano con le pene estinte dalla amnistia Togliatti.Inoltre, nessuno, ragionò sul vecchio detto latino : cui prodest ? A chi realmente giovò il polverone sollevato dalle bombe di Savona ? Nessuno fece questa riflessione per paura di essere linciato.Facciamo anche noi un gioco complottistico : tanto per fare una ipotesi fantasiosa , se a piazzare o a fare piazzare queste bombe, fosse stato qualcuno del Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti ( KGB ) per creare il pericolo fascista e sfruttare il momento , chi potrebbe negare questa teoria ? basata sul nulla come tutte le altre? Oppure no ?Ciò che rimane, a distanza di tanti anni, è ben poco: un cippo consunto di marmo bianchiccio posto ad un incrocio ,persino lontano dai siti dove esplosero le bombe , con una scritta stinta e semicancellata dal tempo e dalle intemperie, intitolato alla povera signora di 82 anni, morta a seguito delle ferite riportate nel crollo, per la bomba di via Giacchero , in questa scritta poco comprensibile, che lascia molto spazio alla immaginazione , si afferma che "Savona, medaglia d'oro della resistenza, ricorda Fanny Dallari, caduta in uno degli attentati fascisti che nel 1974 - 75 colpirono la città etc etc etc.I passanti frettolosi, non guardano neppure la piccolissima stele, e se gli si chiede chi era la persona con il nome scolpito nel marmo, non sanno rispondereNegli anni a seguire, il nome della povera vittima, finì nel dimenticatoio, dopo essere entrata nella mitologia anti - fascista, senza neppure saperlo. Le "bombe fasciste" di Savona potrebbero essere una delle tante menzogne che , ripetute per anni dai soliti pappagalli obbedienti, diventarono un dogma di fede.
Roberto NICOLICK

CONCORSO CONFEZIONATO APPOSTA PER FIGLIO DELL'EX RETTORE

Padova: quel concorso confezionato "su misura" per il figlio dell’ex rettore


Una mail anonima è arrivata al Giornale il 1° dicembre scorso.

"Vi comunico che il vincitore della selezione 20009N35 sarà il figlio dell'ex rettore". Un posto a tempo indeterminato. E così è stato 10 giorni dopo, grazie a un concorso dall'esito annunciato



Padova - La mail anonima ma ben informata era datata 1 dicembre. «Vi comunico che il vincitore della selezione 2009N35 dell’università di Padova sarà Federico Milanesi».
Cioè il figlio dell’ex rettore Vincenzo. Il quale aveva già ottenuto un contratto a termine nello stesso ateneo che scatenò un pandemonio. Adesso invece l’augusto genitore ha passato la mano (si parla di lui come un possibile candidato del centrosinistra a governatore veneto contro Luca Zaia): momento giusto perché il rampollo fosse assunto in pianta stabile. E così fu, grazie a un concorso dall’esito annunciato.
Il risultato della selezione è appeso nella bacheca del Bo, sede dell’università padovana. Selezione pubblica numero 2009N35 per titoli ed esami, bandita il 18 settembre e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il mese successivo. La commissione presieduta dal professor Stefano Merigliano ha svolto le due prove (pratica e colloquio) il 10 e 11 dicembre nel laboratorio Laif di piazza Capitaniato. I 15 iscritti iniziali si sono assottigliati fino a poche unità. Soltanto tre gli idonei, uno il vincitore, l'esimio figlio di cotanto padre.
Il lavoro è quello di fonico. Tecnico audio. Un impiego che Federico già svolge in università. La figura professionale fu creata nel 2008 all'interno del Master di giornalismo istituito in collaborazione con l’Ordine e diretto (in origine) dal professor Ivano Paccagnella. Milanesi jr vinse la selezione e strappò un contratto di due anni a mille euro il mese. Paparino era ancora in sella e scoppiò il finimondo. Del caso si interessò la procura della Repubblica, che aprì un fascicolo poi archiviato. I vertici dell’ateneo finsero di scandalizzarsi. I giornalisti furono i più litigiosi, con polemiche e dimissioni annunciate e ritrattate: alla fine si ritirarono sdegnati. Il Master passò sotto la direzione del preside di Lettere. Federico non dovette rinunciare al contratto ma fu destinato a un diverso settore.
Stavolta invece si fa sul serio. Basta precariato, assunzione definitiva nel centro multimediale universitario. Per il quale servono competenze tecniche particolari: la «conoscenza di sistemi informatici di registrazione e post-produzione, di sistemi analogici e digitali per la registrazione, manutenzione e configurazione del sistema di editing audio e video». Per queste mansioni «l’ideale sarebbe un ingegnere elettronico o informatico specializzato in informatica musicale», spiega la mail. Invece il bando chiede la laurea in Scienza della comunicazione o al Dams (Discipline delle arti, musica e spettacolo): guarda caso, è proprio il titolo posseduto da Federico. Così per la commissione non c’è il rischio di trovarsi concorrenti che ne sappiano più di lui dal punto di vista ingegneristico.Un concorso su misura. Che contiene anche alcune incertezze tecnico-scientifiche, a detta della mail: che cosa vuol dire «registrazione e post-produzione» senza specificare «di documenti sonori e digitali»? E quel «posizionamento microfoni» invece di «tecniche di ripresa microfonica»? Di quale «manutenzione» si parla? Pulire e spolverare l’impianto? E poi quel «sistema di editing audio e video» senza accenni alle caratteristiche della strumentazione in possesso dell’ateneo. In commercio ne esistono migliaia. «Il bando è così poco preciso che sembra scritto dallo stesso vincitore in pectore».
L’università italiana è il regno delle baronie e dei concorsi pilotati. E chi non vanta padri nobili e santi in paradiso si rassegna.«Non sono un veggente - scrive il “quarantenne disoccupato” che ha spedito la mail alla redazione del Giornale -. Sono una persona molto più preparata di Federico sulle materie del colloquio, e il mio curriculum non è neppure confrontabile con il suo. Per me sarebbe un sogno avere finalmente un contratto a tempo indeterminato. Quindi mi è stato consigliato di non partecipare a questo concorso perché “tanto riusciremmo lo stesso a far vincere Federico, ma se partecipi tu ci rompi le scatole e ti puoi scordare futuri possibili contratti con l'università”.Io volevo partecipare lo stesso, ma la mia compagna, una giovane ricercatrice, mi ha minacciato: “Diranno che sono la compagna di un rompicoglioni e non mi prenderà più nessuno”.
Potevo farle torto? No. Sono stanco di partecipare a selezioni universitarie, fare prove di concorso eccellenti e sentirmi telefonare dal presidente della commissione che mi dice: “Sei stato molto bravo, ma sai che questo concorso non era per te”. Addirittura una volta mi hanno mandato una mail. Non credereste ai vostri occhi».

da IL GIORNALE ED. NAZIONALE

venerdì, gennaio 01, 2010

LA CAMPAGNA DI RUSSIA : NIKOLAJEWKA



La Battaglia di Nikolajewka


Fronte russo, gennaio 1943
Dall'autunno 1942 il Corpo d'Armata Alpino, costituito dalle tre Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, era schierato sul fronte del fiume Don, affiancato da altre Divisioni di fanteria italiane, da reparti tedeschi e degli altri alleati, rumeni e ungheresi.
Il 15 dicembre, con un potenziale d'urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni (basti pensare che impiegarono 750 carri armati e noi non avevamo né carri, né efficienti armi controcarro), i Russi dilagarono nelle retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca schierate più ad Est. Esse dovettero sganciarsi dalle posizioni sul Don, iniziando quella terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini tra Caduti e prigionieri.
L'accerchiamento
Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d'Armata Alpino ricevette l'ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato.Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d'Armata Alpino in una vasta e profonda sacca.
Il ripiegamento
Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un'unica alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17 gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell'intero Corpo d'Armata Alpino di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali.
La colonna in ritirata
La marcia del Corpo d'Armata Alpino verso la salvezza fu un evento drammatico, doloroso ed allucinante, costellato da innumerevoli episodi di valore, di grande solidarietà, in cui circa 40.000 uomini si batterono disperatamente, senza sosta, per 15 interminabili giorni e per 200 chilometri.
La battaglia di Nikolajewka
Fu così che dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka. Forti del tradizionale spirito di corpo gli alpini del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati nelle case.
Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una modesta collinetta, protetti da un terrapieno della ferrovia che correva pressoché attorno all'abitato e che costituiva un'ottima protezione per il nemico. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini ammontavano a circa una divisione. Verso le ore 9.30 venne ordinato di attaccare. In un primo tempo si lanciarono all'assalto gli alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II Battaglione misto genio della Tridentina, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e da tre semoventi tedeschi.
La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta; in più punti gli alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere le prime isbe dell'abitato dove sistemarono immediatamente le mitragliatrici, ma le perdite furono gravissime per il violento fuoco dei Russi. Nonostante le sanguinose perdite, gli alpini continuarono a combattere con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e contrassalti portati di casa in casa; venne conquistata la stazione ferroviaria e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa.
La reazione russa fu violentissima: gli alpini furono costretti ad arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di rinforzi. Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col Battaglione L'Aquila: anch'essi vennero inviati nel cuore della battaglia.
Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che mitragliavano a bassa quota, opponeva una strenua resistenza. Sul campanile della chiesa c'era una mitragliatrice che faceva strage di alpini. La neve era tinta di rosso: su di essa giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti.
Nonostante gli innumerevoli atti di valore personale di ufficiali, sottufficiali e soldati, spinti sino al cosciente sacrificio della propria vita, la resistenza era ancora attivissima e l'esito della battaglia era non del tutto scontato.La situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull'orizzonte ed era evidente che una permanenza all'addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l'assideramento e la morte.
Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere l'accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di "Tridentina avanti!" trascinava i suoi alpini all'assalto.
Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò sulle labbra da un alpino all'altro, scosse la massa enorme degli sbandati che, come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciarono urlando verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono travolgendo la linea di resistenza sovietica. I Russi sorpresi dalla rapidità dell'azione dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i materiali. Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti gli alpini, senza distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso del dovere.
In salvo
Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero il 30 gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti. Il 31 con il passaggio delle consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo.
Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata. I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali, poi a Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2 febbraio per giungere a Gomel il 1° marzo. Gli alpini percorsero a piedi 700 km e solamente alcuni, nell'ultimo tratto, poterono usufruire del trasporto in ferrovia.
Il rimpatrio
Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo d'Armata Alpino; il giorno 15 partì l'ultimo convoglio e il 24 tutti furono in Patria.Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d'Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense.