sabato, maggio 30, 2020

Don Umberto Pessina


Don Umberto Pessina
18 giugno 1946
un omicidio eccellente di un sacerdote coraggioso e scomodo.


Don Umberto Pessina di anni 45, è il parroco di San Martino di Correggio, in provincia di Reggio Emilia, è un prete scomodo e coraggioso, in un periodo quello a cavallo dell'insurrezione molto pericoloso e in un territorio , quello del triangolo della morte emiliano, un posto dove è molto pericoloso opporsi al potere comunista e alle sue emanazioni locali.
Quella sera del 18 giugno 1946, don Pessina, usciva dalla canonica per raggiungere una casa vicina dove avrebbe esaminato alcuni indumenti confezionati per i suoi chierichetti, mentre percorreva questa breve distanza, qualcuno nascosto e in attesa, lo colpiva con due pistolettate di una P38 sparate a breve distanza, il povero prete ebbe appena il tempo di trascinarsi nei locali della canonica dove crollava a terra morto.
In quei luoghi e tempi, l'omertà imperava, nessuno aveva visto, nessuno aveva udito gli spari, guai a parlare con i carabinieri di questi fatti, si correva il rischio molto tangibile di essere imbottiti di piombo, sparare era semplice come camminare tra i compagni duri e puri.
Dalle indagini emersero alcuni fatti, Don Pessina era giunto a conflitto con il sindaco di Correggio, Germano Niccolini, noto capo partigiano comunista , detto diavolo e con altri compagni di brigata di diavolo, Anselmo Prodi detto Negus dia anni 25, un uomo giovane, basso e tarchiato dall'aria ottusa e dal dialogo stentato e privo di vocaboli, e Elio Ferretti detto Fanfulla.
Un'altra polemica relativa alla vendita di cavalli requisiti, alquanto sospetta, da parte del sindaco di Correggio aveva messo il Don Pessina al centro di minacce da parte di ex partigiani comunisti.
Niccolini sarebbe stato udito esclamare in piazza, di Don Pessina, “bisogna farlo fuori, è un nemico dei partigiani e dei comunisti”.
Inoltre Don Pessina aveva tolto spazio al sindacato comunista con un suo intervento a favore di alcune mondine , questo sue gesto di umanità fu visto come una ingerenza in un campo che era esclusivo dei sindacalisti rossi.
Le indagini portarono all'arresto di Niccolini, Prodi e Ferretti, vista la loro importanza, soprattutto il Niccolini nell'organigramma locale altri personaggi di calibro minore ma sempre in ambito comunista, Ottavio Morgotti, Eros Righi e Cesare Catellani, si autodenunciarono dell'omicidio del sacerdote in una strategia molto raffinata di depistaggio. Ci fu amche un testimone che messo sotto pressione dai Carabinieri di Bologna fece il nome di Niccolini e che dopo una cinquantina di anni ritratterà dicendo di aver subito delle torture.
Questa azione di deviazione, di cui i comunisti sono maestri, non convinse più di tanto gli inquirenti che continuarono le loro indagini nei confronti di Niccolini, Prodi e Ferretti, che furono rinviati a giudizio presso la Corte di Assise di Perugia, il processo si tenne nel febbraio del 1949, dopo quattro ore di camera di consiglio la Corte di Assise pronunciò la sentenza di condanna nei confronti dei tre imputati, 22 anni a Niccolini, detto diavolo,colpevole di essere il mandante dell'omicidio premeditato e 21 anni a Ferretti e 20 anni a Prodi colpevoli di essere gli esecutori dell'omicidio premeditato nei confronti di Don Pessina. I tre si dichiararono innocenti ma furono incarcerati e iniziarono a scontare la loro pena.
La dolorosa vicenda finì lì, ma nella realtà i veri assassini erano liberi ed erano proprio quelli che si autodenunciarono, poi nel 1990, un ex partigiano della zona, William Gaiti di anni , all'epoca 71, chiese di parlare con il procuratore della repubblica di Reggio, Elio Bevilacqua, e presentò un'altra versione dei fatti , da cui emerse che l'omicidio di Don Pessina era un segreto di stato all'interno del partito, che sapeva tutto di questa vicenda ma che aveva scelto di far condannare tre innocenti.
La vittima era sempre Don Pessina ma il partito si era mosso per salvare altri compagni intoccabili e quindi Niccolini, Prodi e Ferretti erano sacrificabili.
Fu decisivo per smuovere le cose anche l'impegno di un ex deputato del PCI, Otello Montanari, una persona assolutamente al di fuori di ogni simpatia per i fascisti, comunista dall'età di quindici anni, partigiano a 17, che fornì i particolari di un altro omicidio e dei suoi depistaggi messi in atto dal PCI locale con l'avallo dei vertici regionali.
Secondo la nuova versione, Gaiti, Catellani e Righi si recarono quella sera in bicicletta nei pressi della canonica, forse la loro intenzione era quella di sequestrare Don Pessina, per costringerlo a rivelare i nascondigli degli ultimi fascisti nella zona, forse il sacerdote oppose resistenza e Gaiti gli sparò ferendolo mortalmente.
Dopo l'omicidio, i tre fuggirono all'est aiutati e coperti dal vertice dell'associazione partigiani, Eros Ferrari e dal segretario della federazione reggiana del PCI, Arrigo Nizzoli.
A seguito di queste nuove risultanze Niccoli, Prodi e Ferretti vennero scarcerati dopo aver scontato una decina di anni di galera.
Il PCI dell'epoca, nella persona di Pajetta diede semplicemente del pazzo a Montanari che venne marginalizzato politicamnente e che subì un linciaggio morale. Lapidario fu il commento di un segretario dell'ANPI , Guido Mazzon, forse alla fine della resistenza i partigiani dovevano sparare qualche raffica in più.
Dopo un anno circa, nel 1991, Montanari parlò con un procuratore della repubblica della cosiddetta gladio rossa creata in Emilia, in sintesi erano presente all'interno della struttura politica comunista , alcuni gruppi ristretti e riservati coperti dalla dirigenza locale che svolgevano attività illegali, come per esempio gli omicidi, si trattava di gruppetti paramilitari dotati di tutto l'occorrente a loro va , forse, addebitata la soppressione dell'avvocato Ferioli nel 1946 e l'uccisione del sindaco di Casalgrande, Farri, ucciso il 26 agosto del 1946.
Per l'omicidio di Don Pessina, nessuno dei veri responsabili scontò un solo giorno di galera in applicazione della amnistia Pella del 1953, a Nicolini , il partigiano diavolo, condannato ingiustamente lo stato accordò un risarcimento di 2 miliardi e mezzo.
I protagonisti di questa terribile e feroce storia, sono quasi tutti morti per raggiunti limiti di età, incanutiti, reduci da ictus, ma hanno vissuto liberi per anni, mentre il povero Don Pessina giace in una fredda tomba da quel lontano 18 giugno 1946.

Robert Nicolick

Dante Gallini, Rosa Chiappelli, Mario Chiappelli Sanpeyre, Cuneo 28 giugno 1944

Dante Gallini, Rosa Chiappelli, Mario Chiappelli

Sanpeyre, Cuneo

28 giugno 1944

Il capo partigiano Edoardo Zapata, detto Zama, operativo in Valvaraita , il 28 giugno del 1944 fece fucilare a Sanpeyre dai suoi partigiani, Carlo Monge di Piaco e Mario Barra di Manta, l'ex tenente Danta Gallini di Cremona e la sua fidanzata Rosa Chiappelli di anni 24, con la solita accusa di essere spie o collaborazionisti dei Nazifascisti, la ragazza era figlia di un noto avvocato di Costigliole Saluzzo, il quale aveva aderito alla RSI, anch'esso poche ora dopo la uccisione della figlia e del fidanzato, venne prelevato in casa, davanti alla moglie, e passato per le armi senza alcune giustificazione e come atto arbitrario ma a quei tempi così accadeva.

Dopo tutto questo sangue innocente sparso ai primi di settembre del 1944, la casa del povero avvocato, veniva saccheggiata completamente e furono asportati mobili e valori fra cui una radio, che all'epoca era un bene molto richiesto.

Dopotutti questi omicidi e predazioni, per eliminare ogni testimonianza scomoda, Zapata fece uccidere il partigiano Domenico Ferrero, detto molotof, a cui aveva precedentemente dato l'ordine di uccidere la coppia Gallini, Chiappelli.

Sempre a Sanpeyre Zama aveva fatto torturare a morte un valligiano del posto, Giuseppe Baglione, con la solita accisa di aver collaborato con i Fascisti.

Dopo il 25 aprile 1945, Zapata decise di emigrare in Perù forse per evitare di essere rinviato a giudizio presso la Corte di Assise di Cuneo nel 1955, assieme ai suoi partigiani, per triplice omicidio aggravato , infatti dopo la fase istruttoria ci fu un processo in cui , Monge e Barra dovettero anche rispondere della accusa di rapina aggravata, commessa con altri partigiani rimasti sconosciuti.

Mentre Zapata era giudicato per rogatoria da Lima in Perù, i suoi due coimputati, recisamente negarono i fatti a loro addebitati, purtroppo per loro, il Barra era stato riconosciuto dalla vedova dell'avvocato Chiappelli, infatti quando egli venne a prelevare il povero avvocato per portarlo al luogo della sua morte lei era presente e si presentò in aula come parte civile testimoniando con grande coraggio contro gli assassini del marito.

La sentenza dopo due ore di camera di consiglio fu la seguente, Edoardo Zapata detto Zama è stato condannato in contumacia ad anni 30 per omicidio continuato ed aggravato, pena che non sconterà in quanto era attualmente residente in Perù, i suoi due partigiani, Carlo Mone e Mario Barra sono stati condannati ad appena due anni comunque coperti da condono.

Nel 1956 ci fu l'appello presso la corte di assise di Cuneo che confermò la sentenza di primo grado. Per una bella serie di omicidi e di rapine , nessuno scontò un solo giorno di galera.



lunedì, maggio 18, 2020

Ingegner Michele Soliveri 5 maggio 1945 Crescenzago




Ingegner Michele Soliveri
5 maggio 1945
Crescenzago

L'ingegner Michele Soliveri, era un dirigente della Magneti Mrelli di Sesto San Giovanni, di anni 54, sposato con due figli, era un valente tecnico e una persona per bene, l'azienda per cui egli lavorava era stata prima commissariata dai Tedeschi e dopo la liberazione dal CNL, in particolare all'interno dell'azienda vi era un nutrito gruppo di partigiani che chiedevano continuamente somme di denaro all'ingegnere, affermando di essere autorizzati a farlo a nome e per conto del CLN della Fabbrica.
In realtà queste somme di denaro prendevano altre vie che nulla avevano a che fare con la resistenza. L'ingegnere Soliveri forse si accorse di questo fatto e iniziò a fermare le elargizioni, da quel momento iniziò nei suoi confronti una vera e propria persecuzione, fu accusato di aver fornito ai Nazisti gli elenchi degli scioperanti delle agitazioni del 1944, di aver chiamato all'interno della fabbrica i fascisti della Legione Muti allo scopo di mantenere l'ordine fra le maestranze, ovviamente erano tutte accuse false e strumentali.
Nonostante tanto odio indotto nei suoi confronti l'ingegnere che era una persona sincera e specchiata dopo due “processi del popolo” a cui fu sottoposto, venne prosciolto da ogni accusa . Per precauzione la direzione della Magneti Marelli lo obbligò ad occupare uno studio blindato all'interno dell'azienda.
Ma i suoi persecutori non mollavano e la sera del 5 maggio 1945, fu prelevato presso la sua abitazione di Crescenzago, portato nei pressi del cimitero dello stesso paese e assassinato a raffiche di mitra, il suo corpo trafitto da diversi colpi d'arma da fuoco fu trovato in un piccolo rio che costeggiava il muro perimetrale del camposanto, privo del portafogli e dell'orologio.
Le indagini degli inquirenti non partirono subito per le evidenti difficoltà che il contesto storico, politico e sociale presentavano, ma i suoi assassini, che erano usi frequentare osterie e scolare bottiglie di vino in gran quantità, forse sotto l'effetto dell'alcol o preda di un delirio di onnipotenza , si vantarono pubblicamente in uno di questi locali di aver ucciso l'ingegnere Soliveri.
Queste vanterie giunsero sino alla Questura di Milano che nel gennaio del 1953, procedette all'arresto di cinque persone accusate dell'omicidio dell'ingegnere, Emilio Dagari di anni 39 anni, già commissario politico dello stabilimento, l'impiegato Cesare Minussi di anni 44, il meccanico Luigi Beretta di anni 46, l'aggiustatore Aldo Pastrello e l'impiegato Nicola Vaglia di anni 19 tutti abitanti a Sesto San Giovanni.
I motivi che avevano indotto i cinque a sbarazzarsi di lui sembra debbano ricercarsi nel fatto che la vittima era venuta a conoscenza che le somme da egli versate in favore della lotta clandestina, non erano mai state consegnate al CLN .
I disonesti temendo una sua rivelazione decidevano di ucciderlo approfittando del periodo insurrezionale e del momento critico. Nel novembre del 1953, i cinque imputati vennero rinviati a giudizio presso la corte di assise di Milano e lì giudicati, dopo una settimana di udienze, la corte condannò Luigi Berretta, Aldo Pastrello e Nicola Vaglia a 14 anni di detenzione ciascuno di cui 9 condonati e mandò assolti per non aver commesso il fatto, Emilio Dagaro e Cesare Minussi.
A dieci anni della sua infame uccisione, l'azienda per cui egli lavorò decise di dedicargli un busto ed una targa nell'atrio principale della fabbrica , ricordando i trentacinque anni della sua vita che l'ingegnere donò alla Magneti Marelli, “la Magneti Marelli ricorda il suo prezioso collaboratore e addita a tutti la sua vita come esempio di fedeltà, rettitudine e dedizione al lavoro “
Roberto Nicolick
Umile manovale della Libertà

domenica, maggio 17, 2020

L'omicidio di Carlo Ramazzini


Carlo Ramazzini
Modena
14 giugno 1945



Questo feroce ed inutile omicidio, va inquadrato nei crimini del cosiddetto triangolo della morte di Modena e nel clima di terrore e di vessazioni, che era stato instaurato da un ras comunista locale e dai suoi sicari.
Il 14 giugno 1945, verso sera , l'avvocato Carlo Ramazzini, noto possidente agrario del Modenese, stava rientrando da una visita fatta ai propri poderi, in bicicletta come era abituato , quando quattro persone armate lo fermarono lungo la periferica Via Mauro Capitani a Modena, e dopo averlo portato in un campo vicino lo sopprimevano con due colpi di pistola, in quel luogo ne occultarono il cadavere, che fu denudato e depredato dell'orologio d'oro e di una forte somma di denaro, oltre che della bicicletta, una Bianchi, che fu presa da uno degli assassini il quale la usava tranquillamente come se fosse di sua proprietà.
Per molto tempo il delitto rimase avvolto nel mistero, fino a quando un giornalista coraggioso, che lavorava per un quotidiano di Bologna, non accusò dell'omicidio, con un pubblico manifesto, un certo Nello Rovati, redattore di un foglio comunista Modenese “La verità “, nonché membro del CLN di San Cataldo,
La Questura di Modena sulla spinta del manifesto e per la denuncia della vedova dell'avvocato iniziò ad indagare e fermò Rovati, il quale era fortemente sospettato essere il mandante dell'omicidio.
Rovati non era sicuramente un uomo d'azione, infatti era un omino alto appena 1,30, tutto sciancato però con un gran cervello in un corpo piccino e soprattutto con una dialettica insinuante, si appurò che i giorni successivi alla liberazione, lo stesso Rovati convocò Ramazzini in modo arrogante presso il suo ufficio al che l'avvocato rispose, che se voleva il Rovati, poteva andare egli stesso a casa sua, in seguito Rovati in diverse occasione fu sentito dire: “quel Ramazzini bisogna farlo fuori”.
Sotto stringente interrogatorio Rovati cedette e fece delle dichiarazioni, in base alle quali, furono arrestati quali esecutori materiali, Renzo Silvestri, Arsenio Marchetti, mentre contro Carlo Casolari e Gustavo Marchetti fu spiccato mandato di cattura in quanto irreperibili, si accertò inoltre che Silvestri nel 44, ebbe l'incarico di perquisire la villa di Ramazzini alla ricerca di indumenti da consegnare ai partigiani e soprattutto Gustavo Marchetti nel 48, fu visto girare sulla bicicletta che era stata sottratta al Ramazzini dopo la sua soppressione, una Bianchi.
Intanto Gustavo Marchetti stufo di fare il latitante, decise di costituirsi e di rendere piena confessione alla Questura di Modena “ facevo parte della polizia ausiliaria partigiana, la sera del 14 giugno 1945, in via Mauro Capitani vidi l'avvocato Ramazzini in mezzo a due individui che riconobbi per il Casolari mentre l'altro era da me conosciuto solo per soprannome “Famana”, che si dirigevano verso il campo adiacente la strada. Anche io mi accodai seguito da un altro individuo che non conosco . Ci recammo vicino ad una buca che era servita per l'installazione di artiglieria tedesca, qui uccidemmo il Ramazzini e lo seppellimmo nella buca stessa. Devo chiarire che personalmente sparai un solo colpo , il cosiddetto colpo di grazia. Lavorai per seppellire il corpo del Ramazzini con un badile che presi in una cascina vicina e che non so a chi appartenga.
Ho poi appreso che il morto era una spia fascista e che doveva essere passato per le armi. Non so chi abbia ritirato gli abiti, i soldi e i valori che in quel momento erano in possesso del Ramazzini”
Al processo che si svolse nel 1953, la vedova della vittima Nicolina Montanari raccontò delle innumerevoli vessazioni che suo marito subì dai partigiani comunisti, delle minacce , delle pressanti richieste di denaro e dei ripetuti furti che avvennero nella casa di famiglia, la quale dovette essere piantonata, raccontò di tre giovani armati di mitra che arrivarono a cercare il marito, in due diverse occasioni , inoltre una sera che Ramazzini era in piazza, con un suo dipendente, fu avvicinato da un giovane che con fare minaccioso gli intimò di seguirlo, al che l'avvocato disse al dipendente di avvisare casa , il giovane guardando l'orologio, rispose che non se ne faceva nulla in quanto oramai l'ufficio era chiuso. Lo stesso Nello Rovati chiese a Ramazzini di preparare un memoriale per discolparsi dell'accusa di essere spia dei fascisti, cosa che egli fece di buon grado consegnandolo al CLN il quale gli disse che avrebbe risposto entro 20 giorni, ma purtroppo dopo tale termine il povero avvocato fu assassinato.
Nelle giornate delle intense ricerche di Ramazzini, la moglie si era recata anche da Rovati per avere informazioni sulla sorte del marito, il quale l'aveva tranquillizzata mostrandogli il memoriale con a margine un appunto, assolto, in realtà il marito era già stato assassinato ed Rovati lo sapeva benissimo.
Nell'aprile del 1951 si tenne il processo per 'omicidio dell'avvocato presso la C.A. Di Cuneo, dopo due ore di camera di consiglio fu emessa la sentenza : Nello Rovati, Arsenio Marchetti, Renzo Silvestri e Gustavo Marchetti in stato di arresto tranne il Casolari latitante,sono stati riconosciuti colpevoli del reato loro imputato e condannati a 14 anni di reclusione ciascuno mentre il Casolari ad 11 anni in quanto al momento del fatto era minore di età, inoltre ai primi quattro è stato concesso il condono di 10 anni ed 8 mesi di reclusione che sommati al carcere preventivo riducono la pena detentiva da un anno esatto.
All'imputato latitante è stato concesso il condono di anni otto. Tutti gli imputati dovranno poi essere sottoposti a tre anni di libertà vigilata dopo che avranno scontata la pena detentiva e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e al risarcimento dei danni nei confronti verso la parte civile Nicolina Montanari Vedova Ramazzini e il suo figliolo. Per effetto della amnistia tutti gli imputati sono stati assolti dal reato di sequestro di persona e di furto aggravato.

sabato, maggio 16, 2020

La strage di Concordia ( Modena) 18 maggio 1945



La strage di Concordia ( Modena)
18 maggio 1945
Il Sindaco PCI di San Possidonio , Ivo Benetti dichiarò ai media: la corriera fantasma non è mai esistita, si tratta di leggende nate dalla incoscienza o dalla mala fede, per infangare il movimento partigiano e riaprire ferite e rancori che negli ultimi tempi si erano rimarginate e gli scheletri ritrovati , fucilati sicuramente, ma da chi ?

Questo eccidio compiuto dai partigiani comunisti nel triangolo della morte dell'Emilia, è il classico esempio di una strage di civili e militari della RSI, che si è tentato di coprire attraverso tutta una serie despistaggi, negazioni, minacce e addirittura attraverso un comico esame del carbonio sulle ossa ritrovate in una fossa comune, esame commissionato dall'ANPI che secondo questi gentile personaggi faceva risalire all'anno 1000.
In buona sostanza un autocarro , un Lancia Esaro, trasformato con panche e sedili per il trasporto di persone, con 25 o 35 persone, internati, civili e diciassette allievi ufficiali della scuola nazionale repubblicana, per conto della Pontificia Opera di Assistenza, proveniente da Brescia attraverso l'Emilia e diretto a Roma, fu fermato la notte del 18 maggio 1945, presso un posto di blocco partigiano a Gonzaga, a poca distanza da Concordia, grosso paese della bassa sul fiume Secchia.
Questo primo posto di blocco fu detto “il blocco della morte”. In quel primo stop, sedici persone vennero fatte scendere e sparirono, mentre tutti gli altri ci rimisero solo i loro averi. Tutti i viaggiatori erano muniti di nulla osta vistato dalle autorità alleate quindi dal punto di vista legale non potevano essere prelevati ne potevano subire alcun tipo di molestie.
Comunque, tutti gli occupanti del mezzo compreso l'autista, sparirono e furono infruttuose le ricerche dei parenti e della stesso Pontificia Opera di Assistenza per trovare il camion e le persone che vi viaggiavano. In quella zona dell'Emilia Rossa nessuno parlava per paura o per complicità. Una madre di uno dei giovani allievi ufficiale, nel 1948, Marcella Sebastiani, fece una ricerca personale per trovare almeno il cadavere del figlio, ma senza esito, tuttavia qualcuno le raccontò vagamente di una fossa comune, che si sarebbe trovata a Concordia ma non si fece nessuno scavo per mancanza di fondi, si disse.
A due anni dalla sparizione, i Carabinieri di Carpi indagarono seppur con molte difficoltà, e procedettero all'arresto di alcuni ex partigiani comunisti, Roberto Pavesi di anni 35, Galliano Malavasi di anni 28, , Ettore Cavazza di anni 34 tutti di Concordia, di Paolo Mantovani di anni 39 ,inoltre fu spiccato mandato di cattura contro Giovanni Bernardi di anni 26, Ermanno Forti, Cesare Buganza anch'essi di Concordia. L'incriminazione per i sette personaggi era : sequestro di persona, rapina, strage, occultamento di cadavere, tutto il classico comportamento dei partigiani rossi nei confronti dei Fascisti Repubblicani .
A causa della cortina di bugie e di leggenda che si era creata ad arte attorno al camion Lancia, il mezzo sparito venne soprannominato anche se impropriamente, “la corriera fantasma” .
Era cosa nota che il sottosuolo emiliano fosse pieno di ossa umane con brandelli di di uniformi tedesche, fasciste o con abiti civili , di uomini, di donne e di ragazzi e di vecchi, bastava affondare un badile in qualche campo isolato e qualcosa spuntava.
A fine ottobre del 1948, il camion Lancia Esaro, ridotto ad un ammasso di ferraglia arrugginita, fu trovato abbandonato sotto il porticato di uno sperduto paesello del lago di Iseo. Rimaneva ora solo di trovare i resti dei passeggeri. Un contadino abitante in località Fossa di Concordia, libero finalmente dai vincoli del terrore, riferì ai Carabinieri che nei pressi di casa sua esisteva una fossa anticarro fatta dai Tedeschi profonda circa 2,50 metri, dopo qualche giorno lo stesso agricoltore tornando presso la buca, con sua grande sorpresa la trovò completamente interrata inoltre attorno a detta buca c'erano frammenti di materia celebrale e sangue. I Carabinieri chiamati hanno compiuto scavi e hanno trovato due corpi in avanzato stato di decomposizione non appartenenti ai viaggiatori della “corriera fantasma”, scavando in fosse vicine sono saltati fuori degli scheletri in numero di 14.
A dicembre del 1950, alla C. di A. di Viterbo aveva luogo il processo a Roberto Pavesi, Galliano Malavasi ed Ettore Cavazza, tutti appartenenti alla polizia ausiliaria partigiana, tutti accusati di aver ucciso 19 persone inermi e di averne occultato i cadaveri. Tutti gli scomparsi avevano parenti che nel sud aspettavano con ansia il loro ritorno a casa e quasi tutti si presentarono parte civile : Jannoni Sebastiani, Guido Cozzi, Alberto Lombardi, Stefano Loreni, Leda Metti, Italo della Cerva, Quadri, Ferri.
In particolare fu toccante la testimonianza della madre di Cesare Jannoni di 20 anni chiamato alle armi dalla RSI e si trovava alla Scuola Ufficiali di Oderzo, giunta la liberazione egli aveva avvertito la famiglia a Roma che stava per rientrare ma dopo mesi il giovane non era arrivato a casa e come lui altri suoi colleghi. L'unica cosa che i parenti seppero, dopo aver parlato con Prelati, Prefetti e Questori, che il mezzo da Brescia era partito, che a Moglia era stato fermato e che i viaggiatori erano stati divisi in gruppi dai partigiani e poi , il nulla.
Nel gennaio del 1968, si cominciò a scavare con maggiore energia nella fossa del podere Tellia di San Possidonio a Corcordia, le ruspe misero allo scoperto un tratto di 150 metri per una profondità di 1,50, e vennero alla luce 13 scheletri completi, femori e teschi crivellati da colpi di mitragliatrice, ma nessun effetto personale utile alla loro identificazione. Solo ossa e bossoli, tantissimi bossoli a testimoniare quanto si è sparato, i carabinieri ne contarono 300.
Questa fossa comune fu scoperta grazie ad una lettera giunta dagli USA, esattamente da Baltimora, scritta ai Carabinieri da una ragazza che all'epoca aveva 18 anni e che si salvò dalla mattanza riuscendo a fuggire, traumatizzata e dopo anni di incubi, si decise a scrivere agli inquirenti raccontando la sua spaventosa esperienza e indicando il luogo preciso dell'occultamento dei corpi. Secondo la lettera i responsabili dell'eccidio sarebbero tutti ex partigiani della zona , vivi e vegeti.
A seguito delle ulteriori investigazioni, nove ex partigiani comunisti, tutti di San Possidonio, sono stati denunciate a piede libero, dai Carabinieri di Carpi ( Modena ) per omicidio continuato : Armando Borsari di anni 53, Paolo Mantovani di anni 61, Evro Campagnoli di anni 43, Remo Pollastri di anni 43, Onorio Borghi di anni 47, Amilcare Mantovani di anni 51, Ciro Martini di anni 50, Angiolini Campagnoli di anni 45, Lelio Silvestri di anni 50, tutti i denunciati hanno negato di aver partecipato alla strage .
Dalle indagini emerge una realtà di omertà e di terrore durata per decenni, qualcuno iniziò a parlare ed ad ammettere che un automezzo pesante targato Città del Vaticano, transitò prima a Mirandola e poi a Cavezzo, si sapeva che arrivava da Brescia ed era diretto a Roma, qualcuno era sceso a Mirandola e altri erano saliti contenti di arrivare a casa qualche giorno prima. Poi il mezzo incontrò il posto di blocco della morte, fuori dal paese di Mirandola l'autista fu costretto a lasciare la strada per imboccare un tratturo sconnesso fra alti filari di platani sino a fermarsi sul ciglio di un fosso anticarro.
Tutti i contadini delle cascine vicine, sentirono il motore spegnersi, le urla di terrore dei viaggiatori, e gli ordini secchi e rabbiosi dei partigiani comunisti e poi le raffiche prolungate, ma nessuno parlò all'epoca dei fatti per paura di fare la stessa fine, infatti gli assassini vivevano tra la gente di San Possidonio e non avevano nulla da perdere, anche perchè un primo processo nel 1947, si concluse con una assoluzione per insufficienza di prove. Solo dopo 23 anni grazie ad una lettera dagli Stati Uniti qualcosa si mosse.
La zona fu invasa da Carabinieri, polizia tutti coordinati dalla Procura di Modena e di una grande ipocrisia furono le dichiarazioni del Sindaco PCI di San Possidonio , Ivo Benetti che dichiarò: la corriera fantasma non è mai esistita, si tratta di leggende nate dalla incoscienza o dalla mala fede, per infangare il movimento partigiano e riaprire ferite e rancori che negli ultimi tempi si erano rimarginate e gli scheletri ritrovati , fucilati sicuramente, ma da chi ? Altri testimoni si fecero avanti, pare che il camion abbia fatto più di un viaggio della morte e tutti si ricordano di un militare che era sul mezzo, tornava dalla moglie che gli aveva annunciato la nascita di un figlio, si chiamava Renzo Pia, 31 anni, era alto un metro e novanta e fra gli scheletri ce n'è proprio uno di quella statura , nell'elenco delle vittime figura anche il nome di una diciannovenne, Maria Teresa Tirabassi, una appartenente al SAF , di lei si trovò parte dello scheletro e una scarpa.
Nel febbraio del 1968 un ex partigiano iniziò a cantarsela con i Carabinieri : il mezzo arrivò a San Possidonio a mezzanotte, i passeggeri furono portati in municipio e processati quindi condannati a morte, spogliati di tutto e legati con il fil di ferro, prima della strage due partigiani rossi in moto percorsero le vie del paese intimando alla gente di stare chiusa in casa perchè nessuno doveva vedere, c'era un bar aperto e loro lo fecero chiudere, gli avventori irritati se ne andarono a casa ma questo divieto assursi gli rimase nella mante a e al momento opportuno se ne ricordarono. All'una i primi cinque prigionieri, furono portati in località Fossa di Concordia, qui abbattuti a raffiche di mitra, il camion tornò vuoto e fece altri due viaggi, con meta la cascina Tellia , qui altre raffiche, poi alle 1,30 tornò il silenzio. Gli assassini fecero un altro errore inviarono uno di loro da un contadino a chiedere dei badili per occultare il loro crimine.
Drammatico fu il confronto fra il contadino della cascina Tellia, che fornì le pale per coprire i corpi crivellati, e il partigiano che andò a ritirarle, “eri tu quella notte, ne sono sicuro” e l'altro impassibile “sei matto, non ti conosco nemmeno”. Ci fu uno scampato alla strage, Zorè Sgarbanti di anni 55 nativo di Lumezzane S. Apollonio ( Brescia) il quale ebbe la sorte di scendere dal camion per salutare un farmacista suo amico, più in là i partigiani fermarono il mezzo, dirottandolo verso Villa Medici trasformata in caserma, qui i viaggiatori venivano suddivisi con un singolare sistema, i grassi erano giudicati per fascisti e i magri erano attentamente interrogati.
Il secondo processo sulla corriera fantasma si concluse il 31 ottobre 1970 presso il tribunale di Modena, con l'assoluzione per amnistia e prescrizione di tutti gli accusati.


giovedì, maggio 14, 2020

L'omicidio del Maresciallo dei RRCC Antonio Genna


L'omicidio del Maresciallo dei RRCC Antonio Genna
7 maggio 1945
Località Bindelletta - Castelletto Ticino ( Novara)
Questo è da considerarsi uno dei più spietati episodi di violenza commessi nel periodo insurrezionale anche per la mancanza di moventi che possano spiegarlo anche minimamente.
Il Maresciallo dei Reali Carabinieri, Antonio Genna , classe 1903, reduce dal Montenegro era nativo di Marsala, fino al settembre del 1943, era stato comandante della stazione territoriale di Castelletto Ticino rifiutò di aderire alla RSI per ritirarsi dal servizio nell'Arma e dedicarsi al piccolo commercio per mantenere la famiglia formata dalla moglie Maria Balducci e quattro figli tutti in tenera età, Vittorio, Mario, Duccio e Maria Rosa.
Il 26 aprile del 1945 veniva arrestato da partigiani e tradotto davanti ad una commissione di inchiesta a Borgomanero, dopo nove giorni era rilasciato e prosciolto da ogni accusa di collaborazionismo e munito anche di un salvacondotto che lo tutelasse, visti i tempi tumultuosi che correvano, questo rilascio creò irritazione nel capo del distaccamento partigiano di Castelletto, un certo Orioli che molto probabilmente in un tempo successivo, diede un ordine opposto e contrario.
Nel frattempo veniva emanato il bando del Governo che richiamava in servizio tutti gli ufficiali, i sottufficiali e i militari semplici dell'Arma Benemerita, ossequiente a questa norma Genna si presentava il 7 maggio 1945 al Comando di tenenza di Arona, mettendosi a disposizione dei superiori, al suo ritorno passava dalla Caserma di Castelletto sede molto probabilmente del suo prossimo comando e vestendo l'uniforme da Maresciallo, si intratteneva con l'attuale comandante Brigadiere Secondo Nicoletti.
In quel momento sopraggiungevano alcuni partigiani che dopo averlo oltraggiato, gli intimavano arbitrariamente di togliersi la divisa, Genna non si faceva intimorire da questo intervento inspiegabile, rispose “ domani riprendo servizio e parecchie cose le rimetto a posto io”, la sera stessa all'imbrunire, si presentavano alla sua abitazione, due partigiani , Giuseppe Paracchini detto Zacchè di anni anni 38 residente ad Arona e Ambrogio De Beffi di anni 30, residente ad Omegna e sotto la minaccia delle armi, lo prelevavano senza permettergli neppure di poter salutare i tre figlioletti che giocavano in cortile. La moglie angosciata lo vide andare via con quei due personaggi in direzione ignota.
I due condussero Genna a bordo di una camionetta, sino allo spiazzo della tristemente nota cascina Bindellina nel Novarese, luogo dove venivano compiute le esecuzioni sommarie da parte dei partigiani, lì venne assassinato.
Due giorni dopo alla moglie viene falsamente annunciato che il marito è stato internato.
Un paio di settimane dopo, si presenta a lei il necroforo del cimitero di Agrate Conturbia e le comunica che da quindici giorni, egli custodisce nell'obitorio, la salma del Maresciallo Genna.
E' crivellato da una raffica di mitra , sparatagli alle spalle , è priva di indumenti e manca di un dito.
Cinzia Balducci , è figlia di un colonnello dei Carabinieri, benchè distrutta, indaga per proprio conto, parla con molta gente, ricostruisce i fatti : suo marito è stato condotto presso la cascina Bindellina, intuisce quello che sta per accadere e fa un balzo, scendendo dalla jeep e tentando di fuggire, ma una raffica di mitra sparata alle spalle, lo inchioda al terreno uccidendolo sul colpo. La povera vedova si trasferisce a Canale e da lì a Torino intanto presenta denuncia alla Autorità Giudiziaria che non avrà un effetto immediato.
Nel 1955, la Procura della Repubblica di Novara sotto la direzione del Dottor Pucci, riapre tutta una serie di casi insoluti legati al periodo insurrezionale e dopo aver esaminato il fascicolo relativo all'omicidio del Maresciallo Genna, spicca mandato di cattura nei confronti di due partigiani , Paracchini e De Beffi , riconosciuti come quelli che avevano prelevato il Genna, vengono rinviati a giudizio presso la Corte di Assise di Novara , durante l'udienza i due ammettono di essere responsabili dell'omicidio del Maresciallo, ma di aver agito per ordini superiori, pare svolgesse attività spionistiche a favore dei nazifascisti. A loro dire, l'ordine di uccidere era partito da un certo Orioli il quale, non poteva smentirli in quanto deceduto.
La C.A. Di Novara riconobbe, Paracchini e De Beffi colpevoli di omicidio nei confronti del Maresciallo Genna e li condannò entrambi a 18 anni , concedendogli il condono dell'intera pena oltre alla interdizione perpetua dai pubblici uffici e al pagamento dei danni verso la parte civile , danni da liquidarsi in separata sede e sui quali concesse a favore della vedova e dei quattro figli una provisionale di 2 milioni di lire, nel dicembre dello stesso anno la Corte di Appello di Novara confermava la precedente sentenza : i due partigiani avevano commesso omicidio nei confronti di un bravo Maresciallo dei Carabinieri anche se non dovettero scontare un giorno di galera.

martedì, maggio 12, 2020

Gli omicidi di Carlo Pernigotti, del figlio Attilio e di Giovanni Romairone e Carlo Rovetta

Gli omicidi di Carlo Pernigotti, del figlio Attilio e di Giovanni Romairone e Carlo Rovetta


Ovada 9 maggio 1945


La sera del 9 maggio 1945 il rag. Prof. Carlo Pernigotti di 54 anni , noto industriale filandiero di Ovada e il figlio Attilio di 20 anni furono assassinati a colpi di rivoltella sulla piazza di quella città. La famiglia Pernigotti con sede commerciale a Genova gestiva due stabilimenti, uno a Ovada e l'altro a Campo Ligure per un totale di 500 operai, Pernigotti, era stato come tutti gli Italiani iscritto al partito fascista ed aveva ricoperto anche la carica di Podestà di un piccolo comune del Monferrato, ma non aderì a Salò, anzi durante la guerra civile fu largo di aiuti verso i partigiani. Anzi fu depredato in tutto e per tutto dai cosiddetti “patrioti”.

La famiglia Pernigotti proprietaria del Cotonificio Pernigotti fu largamente taglieggiata dai partigiani dell'Ovadese per un importo totale di 150 milioni di lire dell'epoca.

La sera del 15 marzo 1944 un numeroso gruppo di persone armate invase la loro villa , in quel momento erano presenti Carlo Pernigotti e il figlio Attilio, pilota di aerei, in compagnia del fattore della tenuta Carlo Rovetta e dell'agricoltore Carlo Romairone, essi riuscirono a dimostrare la loro non appartenenza alla RSI e non ebbero altro danno che vedersi depredare di gioielli, denaro e oggetti vari per un importo di parecchi milioni. Altri milioni in denaro e indumenti fu costretto a versarli il giorno dopo al CLN di Ovada.

Al povero Romairone invece, andò malissimo , egli era stato segretario del fascio a Tagliolo, nonostante avesse quasi 70 anni, fu preso la sera dell'incursione nella villa dei Pernigotti e trascinato via sotto la minaccia delle armi, il giorno successivo fu trovato cadavere in un campo a Belforte Monferrato. Ma non era ancora finita. Pochi giorni dopo la liberazione Carlo Pernigotti, apprese che un deposito di stoffe da lui costituito in un convento di suore, era stato svaligiato dai soliti noti. Insieme con il figlio, Attilio, si recò al CLN di Alessandria per protestare , in quel luogo gli fu assicurato che quella “requisizione” non era stata autorizzata dai comandi partigiani di zona e che in futuro non sarebbe più stato oggetto di altre molestie.

A garanzia della loro incolumità, il CLN ordinò ad un ufficiale medico, il dott. Goria di accompagnare i Pernigotti nel viaggio di ritorno a casa. Appena giunti a Ovada, scesi dall'auto nella piazza centrale di Ovada, tre uomini in bicicletta con il volto travisato da larghi fazzolettoni, uno di loro tenne il medico sotto la minaccia di una pistola mentre gli altri due scaricavano le loro armi sui due Pernigotti che cadevano morti a terra.

Le detonazioni furono udite anche lontano e le udì la povera moglie del Prof. Carlo, Anita Berretta, che giunse di corsa , presagendo quello che era accaduto, urlando disperata si gettò sui corpi di suo marito e del figlio ancora caldi mentre i tre criminali si allontanavano di gran carriera, ovviamente nessuno in piazza riconobbe i tre assassini. La sera del 24 giugno, la cascina dei Pernigotti di cui era fattore Carlo Rovetta ricevette un'altra incursione di uomini armati, il Rovetta che era un uomo coraggioso rifiutò di consegnare i valori di cui era custode e anch'esso fu assassinato.

Dopo tutto questo sangue innocente sparso, il comando partigiano tentò di giustificare dei volgari omicidi, affermando che Carlo Pernigotti era ostile alla resistenza e che era stato emanato un ordine generico di “giustiziarlo”, dimenticando che anche il figlio era stato ucciso, colpito alla schiena, nonostante fosse partigiano del Gruppo Rinnovamento Nazionale, e che Romairone e Rovetta erano stati assassinati perchè si opponevano alle ruberie.

In realtà gli omicidi erano stati consumati per permettere ai quattro criminali di godere di ben 150 milioni di lire dell'epoca , infatti la situazione economica di qualcuno di loro da miserabile divenne florida.

La vedova di Carlo Pernigotti, Anita Berretta assieme alla fidanzata di Attilio, Rina Villa , non si dettero pace fino a che i presunti assassini dei loro cari, furono trascinati in tribunale.

Alla sbarra alla C.A di Alessandria,, Salvatore Pusateri, ferroviere, da Ovada mandante, esecutori materiali, Giacomo Ferrando da Rocca Grimalda, Maurizio Barigione da Ovada, Giuseppe Marenco da Ovada. In un primo tempo i quattro omicidi furono coperti dalla amnistia, ma la Cassazione ordinò il rinnovo della istruttoria e nell'aprile del 1954 si svolse il processo di fronte alla C.A. Di Alessandria che si concluse con una condanna per omicidio volontario a 20 anni, pena condonata interamente e poi confermata in cassazione, ma questa sentenza definiva i quattro partigiani, colpevoli di omicidio ed apriva la strada ad una causa civile che si concludeva nel 1964 con la condanna nei confronti dei quattro ex partigiani a pagare in solido 113 milioni alla famiglia Pernigotti.



domenica, maggio 03, 2020

Il sequestro dell'Ing. Idalgo Macchiarini


Questo scatto ritrae l'ingegnere della Sit Siemens Idalgo Macchiarini, una persona per bene , rapito il 3 marzo del 72, il sequestro di Macchiarini fu il primo di una lunga serie, durò appena venti minuti e si concluse con la foto umiliante di rito, in questo caso senza la soppressione del rapito. Macchiarini fu rapito alle 19 nei pressi di casa sua a Milano che stava raggiungendo a piedi, alla fine del turno lavorativo alla Sit Siemens.
Per le Bierre l'ingegnere era un neofascista in camicia bianca, quindi una camicia nera dei tempi attuali , fu sottoposto ad un interrogatorio all'interno di un anonimo furgoncino Fiat e dopo lo scatto fotografico fu lasciato andare anche se ancora legato a polsi e caviglie, in quartiere popolare.
Le pistole puntate contro la guancia del sequestrato , che si vedono chiaramente nella foto, furono consegnate ai Brigatisti rossi dagli ex partigiani, quelle armi , vecchie di decenni ma sempre efficienti, nel periodo insurrezionale avevano già ucciso e ora impugnate dai brigatisti rossi continuavano ad uccidere gente innocente, era in buona sostanza un passaggio di testimone tra i partigiani comunisti, troppo vecchi, e i giovani brigatisti.
Uno dei brigatisti che partecipò in prima persona al sequestro e allo scatto fotografico, Franceschini, dedicò questo scatto al partigiano comunista che gli aveva consegnato le due pistole e volle sperare che avesse riconosciuto le due armi, fra cui una Browning.
Quindi per ammissione di questo brigatista i passaggi di armi, tra ex partigiani comunisti e brigatisti rossi, avvenivano alla fine degli anni 60, nelle osterie e nelle case del popolo, dove tra un gotto e l'altro, i vecchi comunisti, reduci dal periodo insurrezionale, con sulla coscienza decine di omicidi politici, regalavano anche consigli strategici a questi giovani pronti all'azione, Franceschini, Gallinari, Casaletti e altri tutti di Reggio Emilia.
Le armi consegnate dovevano continuare a sparare per completare una rivoluzione “interrotta”, la discendenza e la continuità storica sono evidenti, secondo questi anziani soggetti deliranti ma per raggiunti limiti di età, la resistenza non si era conclusa con la sconfitta dei nazi fascisti per cui era di vitale importanza continuare la lotta armata per prendere il potere e portare il socialismo anche in Italia.
Per i vecchi partigiani comunisti era stata una rivoluzione tradita, molti di loro per sfuggire a dei processi imbarazzanti per decine di crimini, dovettero espatriare in Cecolosvacchia, a Praga, lontano da casa , e quindi quando finalmente tornarono in Italia coperti dall'amnistia erano pieni di rancore che tuttavia non potevano sfogare, si riciclarono quindi in questi giovani brigatisti deliranti ne più e ne meno come loro, e pronti ad entrare nella clandestinità. I vecchi furono cattivi maestri di violenza dei giovani ma entrambi erano orientati in modo naturale allo spargimento di sangue.
I personaggi che gli ex partigiani comunisti ammiravano erano Secchia e Scoccimarro , uomini dal loro punto di vista molto concreto emtre non tutte le simpatie andavano a Togliatti che consideravano troppo politico e dialogante con la DC.




sabato, maggio 02, 2020

L'arresto di Rebus, per il duplice omicidio di Buttigliera D'Asti


Quella mattina, Maggiorino Genero, l'ex partigiano Rebus, stava alzando tranquillamente le serrande del suo negozio a Moncalieri, Torino, erano le sette del 3 aprile 1955, quando ritornò bruscamente alla realtà quando si trovò davanti due carabinieri che dopo avergli notificato un decreto di condanna definitiva, gli misero i ferri ai polsi e lo portarono alle Nuove.
Chi era Maggiorino Genero, nome di battaglia rebus, era un ex partigiano che operava con la sua banda a Buttigliera D'Asti, e si rese protagonista di uno delle più feroci gesti di violenza in quella zona, assieme ai suoi gregari, Francesco Olivieri, Felice Andriano e Antonio Gallo irruppero nella canonica di Buttigliera, nella notte del 2 aprile 1945, picchiarono con inaudita violenza Don Luigi Solaro e la perpetua Francesca Borelli vedova Monnet, dopo averli pestati li uccisero senza pietà e poi come di consueto si dedicarono a svaligiare la canonica, rubarono oro e argenti per un valore di ben 4 milioni di lire.
Dalla fase istruttoria emerse che il povero prete immobilizzato su una sedia da una paralisi , mentre veniva pestato a sangue dai tre criminali implorasse pietà, stessa cosa fece la povera signora Borelli, ma non ci fu nessuna misericordia anzi solo odio e livore.
La strage bestiale sollevò nella zona una profonda indignazione e il CLN locale convocò i tre partigiani e loro naturalmente giustificarono il duplice omicidio, con la solita motivazione, di aver “giustiziato” due persone ostili al movimento partigiano e soprattutto spie fasciste. Tuttavia , tanto per evitarsi dei problemi con la polizia alleata i tre si resero irreperibili , nel frattempo fu istruito un regolare procedimento penale nei loro confronti e vennero posti in stato di fermo, il Gallo che era latitante a Cairo Montenotte, forse vinto dal rimorso per quello che avevano fatto, si tolse alla vita dopo aver scritto una lettera alla moglie in cui esprimeva pentimento anche se tardivo.
Nel dicembre del 49 fu celebrato il primo processo presso la Corte di Assise di Venezia che si concluse con la condanna di Genero, Rebus, a 24 anni di reclusione per omicidio continua ed aggravato, furto ed estorsione, i giudici gli accordarono le attenuanti generiche e le ritennero prevalenti sulle aggravanti.
Assolsero gli altri due imputati, Olivieri, Andriano e Pertusio ritenendoli non punibili per aver eseguito degli ordini. Rebus impugnò la sentenza e il processo di appello si svolse sempre a Venezia nel novembre del 1952, nel corso del processo Genero affermò addirittura di non aver avuto il cuore di sopprimere le due “spie fasciste” e di aver dato incarico ai suoi gregari di farlo, nel frattempo sopravvenne amnistia e il dubplice omicidio fu rubricato come atto di guerra pertanto gli imputati furono scarcerati.
Questa volta fu il P.M. Ad impugnare la sentenza affermando che il movente politico del delitto era stato solo un pretesto per mascherare gli omicidi e la rapina. La Cassazione accolse il ricorso ed assegnò un terzo processo alla alla Corte di Assise di Milano che nel marzo del 1954, confermò la condanna a 24 anni di reclusione, inflitta nel primo giudizio. Ma la sentenza non venne eseguita perchè Genero impugnò anche questa sentenza rimanendo in libertà.
Il partigiano pluriomicida pensava oramai di non dover più scontare la sua pena, nonostante le condanne e e si diede da fare per trovarsi una occupazione aprendo un negozio , per mettere su casa e si sposò, ebbe anche un figlio che chiamò Roberto.
Genero viveva tranquillo e contento nonostante avesse le mani sporche di sangue innocente, intanto la Suprema Corte di Cassazione aveva respinto il suo ricorso e la sentenza diventava definitiva e la relativa comunicazione venne inviata ai Carabinieri di Moncalieri che sul presto si recarono in Via Genova, dove egli aveva aperto una piccola attività e lo aspettarono, alle 7 il Genero arrivò e cominciò a tirare su le serrande , quasi subito si sentì mettere una mano sulla sulla spalla, si voltò, vide i due carabinieri e comprese.

venerdì, maggio 01, 2020

L'omicidio dell'Ing. Arnaldo Vischi


Arnaldo Vischi, era un valente dirigente di azienda, lavorava presso le Officine Reggiane come direttore generale,le Officine Reggiane erano un importante complesso industriale con circa 7000 dipendenti. Durante la seconda guerra mondiale le O.R. producevano materiale bellico in particolare aerei da combattimento e proiettili da artiglieria.
L'ing. Vischi era una brava persona molto amata dalle maestranze e faceva la spola tra la fabbrica a Reggio e la famiglia che si trovava sfollata a Fosdondo. Con la fine della guerra la dirigenza della fabbrica si trova nelle condizioni di affrontare un ridimensionamento del numero del numero degli operai, tale incarico gravoso e pericoloso viene affidato a Vischi , anche il CLN , molto influente in una zona comunista non trova nulla da eccepire sulla qualità morale di Armando Vischi e dà il suo beneplacito.
La sera del 31 agosto mentre Vischi, in auto tornava a casa dai suoi famigliari veniva fermato da tre ex partigiani comunisti, rapito e portato in un borgo vicino a Santa Maria della Fossa nel comune di Novellara. Alla mattina successiva il suo cadavere era ritrovato accanto ad un rigagnolo.
Vischi era stato ucciso con modalità usate dai partigiani comunisti, tuttavia la commissione interna della fabbrica tentava maldestramente di addebitare l'omicidio ad elementi “fascisti e reazionari”. In realtà Vischi era persona stimatissima ed aliena dalla politica. Per la cattura dei suoi assassini si pose anche una taglia di un milione di lire e la polizia, quella ausiliari partigiana, indagò in un territorio molto difficile ad alta concentrazione di ex partigiani comunisti con ancora arsenali nascosti ma tenuti sempre in efficienza.
Al centro delle indagini furono da subito tre operai delle Reggiane, Nello Riccò, Giuseppe Grassi e Emore Casoli tutti iscritti al PCI ed ex partigiani comunisti, tratti in arresto ma subito e arbitrariamente, un tenente della polizia ausiliaria partigiana, Renzo Caffani liberava Riccò che misteriosamente spariva dalla circolazione. Caffani era un ex partigiano comunista.
Un altro episodio inquietante si inserisce nella vicenda, il partigiano Vivaldo Donelli, impiegato delle Reggiani, con l'incarido di compiere una indagine interna sull'omicidio di Vischi viene sequestrato e pestato a sangue, in quella occasione apprende che il Presidente dell'ANPI , nonché segretario del PCI di Reggio, Didimo Ferrari, avrebbe dato ordine di “giustiziarlo”.
Vista la situazione di inquinamento politico, l'attività investigativa veniva affidata ai Carabinieri, nella persona del Capitano Pasquale Vesce che procedeva a diversi arresti, oltre a Grassi e Casoli, anche Renzo Caffani , partigiano “celeste” che nella sua veste di tenente della polizia ausiliaria partigiana per aver dolosamente liberato Riccò su intercessione del segretario del PCI di Reggio Emilia , Arrigo Nizzoli.
Inoltre i Carabinieri denunciano a piede libero, Armando Attolini assessore comunista di Reggio, Alfredo Casoli , operaio, Adelmo Beggi , Alfredo Gerioni ex partigiano “topo”, Adelmo Beggi ex partigiano “padella”, Odino Cattini ex poliziotto ausiliario partigiano, Luciano Vecchi operaio, questi ultimi per sequestro di persona nei confronti dell'impiegato delle Reggiane, Vivaldo Donelli, incaricato dalla direzione di svolgere una inchiesta interna sull'omicidio di Vischi. Altri denunciati sono , Ultimio Canapini e Alfredo Ghidoni per complicità in sequestro di persona nei confronti di Donelli.
Il processo per l'omicidio di Vischi, si svolse presso la Corte di Assise di Ancona e vide ben 13 imputati alla sbarra per omicidio, sequestro di persona e percosse, di cui tre in stato di arresto, due a piede libero e otto latitanti.
Il processo di Ancona si concluse, dopo 5 ore di camera di consiglio, con le seguenti condanne, Nello Riccò, latitante , condannato a 22 anni, Giuseppe Grassi, detenuto, condannato a 22 anni, entrambi godono di tre anni di condono, Renzo Cafarri e Didimo Ferrari latitanti, condannati a otto anni di cui quattro condonati, Armando Apollini e Adelmo Vecchi, latitanti, condannati a tre anni. Tutti i latitanti erano ospitati in Cecoslovacchia.

Robert Nicolick