domenica, febbraio 26, 2017

la sparizione dei 10 marò della San Marco

Il 18 aprile 1945, un reparto di 26 giovani Fanti di marina della San Marco stanziato a Sassello, tutti classe 1924, quindi appena ventunenni, previ accordi presi con partigiani del posto, si consegnavano armi e bagagli ad una brigata partigiana “ Emilio. Vecchia”, detta stella rossa operativa nel Sassellese.
Giunti a destinazione i ragazzi consegnavano le armi, le munizioni e le vettovaglie. Dopo 3 giorni, dieci di essi, senza alcuna ragione plausibile, venivano divisi dai loro camerati e fatti marciare sino in località S. Luca e qui i partigiani li massacravano e sepellivano in una fossa comune, già pronta. Nel luglio del 45, i Carabinieri e il Comando delle truppe alleate di occupazione, presso Milano, venivano informati della cosa e iniziavano le indagini.
Il Maresciallo Mozzoni, all'epoca comandante della stazione di Sassello si occupò delle indagini.
Il Giudice istruttore avvisava i suoi colleghi di Milano, Torino, Roma e Bologna e a marzo del 1948 iniziò le indagini per capire che cosa fosse accaduto sulle alture del di Sassello ai danni di 10 ragazzi inermi e innocenti di qualsiasi cosa.
I nomi di alcuni Marò uccisi sono : Virginio Bonavita di Milano, Fausto Ottaviani di Milano, Enzo Pieralice di Roma, Rinaldo Gastaldi di Torino.
Al termine delle indagini si appurò che i nomi dei mandanti della strage sono stati identificati in Vanni G. Battista, Cavallero Augusto, Maffi Bruno, Rabetti Franco, Moschini Alberto, tutti appartenenti alla Brigata Garaibaldina Emilio Vecchia.


Roberto Nicolick


sabato, febbraio 25, 2017

La sparizione di Carlo Molinari

Carlo Molinari

Molinari Carlo, classe 1884, era un iscritto al P.F.R. E come tale, nonostante la non più giovane età faceva parte della Brigata Nera Provinciale F. Briatore di Savona.
E' chiaramente uno che pagherà le sue scelte ma che non ha paura. Il 6 maggio del 1945, in piena resa dei conti, un gruppo di partigiani va a casa sua, in Via Orazio Grassi al civico 7, e lo porta via davanti alla moglie Caterina.
Molinari è imprigionato da subito nelle Carceri giudiziarie di Savona, il vecchio S. Agostino a tutt'oggi funzionante.
Nello stesso giorno, però, verrà trasferito nel famigerato Campo di internamento di Legino, una scuola elementare che ha continuato nei settanta anni a seguire a ospitare alunni nonostante le atrocità che vi sono state compiute.
Da quel momento Molinari sparisce e le ricerche fatte dai parenti o dai pochi amici che non si sono fatti intimidire non hanno dato alcun esito.
C'è un rapporto della Questura di Savona che dice testualmente “ si ritiene che il Molinari sia stato prelevato dal detto campo da elementi partigiani ed ucciso”. Comunque il suo corpo non verrà mai ritrovato.
Il dirigente del campo di Legino, dove fu anche detenuta ed assassinata giuseppina Ghersi, purtroppo era il noto Luigi Rossi, detto Partigiano Toni, o Stella Rossa, il quale dichiarò al Procuratore che svolgeva le indagini sulla sparizione di Molinari, “di non essere in grado di fornire alcuna indicazione sulla scomparsa del Molinari, data la confusione che regnava in quel periodo”.

Rossi era proprio il soggetto adatto a gestire un campo di prigionia per repubblichini, non a caso ne morirono molti in strani tentativi di fuga, in seguito Rossi fu indagato, arrestato, processato e condannato per l'eccidio della Famiglia Biamonti.




Ferroni Emilio ex sergente della San Marco

Il 25 di giugno 1945, intorno alle 23, a Carcare, Savona, all'interno del cimitero cittadino, viene trovato un cadavere, di un uomo di 33 anni, ucciso a colpi di arma da fuoco alla testa. L'uomo che poi verrà identificato per l'ex sergente della San Marco Ferrono Emilio, classe 1912, nativo di Marciano di Romagna, è stato assassinato a guerra abbondantemente finita in un angolo nascosto del cimitero , proprio perchè nessuno potesse vedere l'esecuzione.
Emilio Ferroni era stato preso dai partigiani a Milano, dove da smobilitato si era recato presso la sua famiglia che abitava in Via Giorgio Washington 49 a MIlano, e poi trasportato a Carcare, preso in custodia da una formazione partigiana locale.
Secondo il rapporto dei Carabinieri della Stazione Territoriale di Cairo, i partigiani che lo avevano in custodia avevano dato assicurazioni sulla sua incolumità.
Assicurazioni assolutamente prive di alcun fondamento, visto che poi il prigioniero è stato travato morto. Inoltre non pendeva su di lui alcun procedimento penale e nessuna sentenza era stata emessa contro di lui.

Quindi di omicidio si tratta senza alcun dubbio. Il pretore di Cairo Montenotte dopo aver visionato il cadavere, dava indicazione ai Carabinieri di effettuare indagini relative alla sua morte che ovviamente non approdavano a nulla , data l'omertà per il terrore di ritorsioni che i partigiani comunisti ancora esercitavano sul Savonese e il Giudice Istruttore presso Palazzo di Giustizia di Milano, De Ciccio, cercava i suoi parenti residenti a Milano per indagare sulla morte dell'ex sergente. In effetti venivano rintracciati la moglie, Elvira Benevenuto, la figlioletta Gabriella di anni 6 e i suoi genitori, Enrico Ferroni e Maria Brocchi. La famiglia della vittima affermava che Emilio era stato prelevato dai partigiani Milanesi con la solita scusa di essere interrogato e poi il nulla. Solo in seguito essi apprendevano che il loro congiunto era stato portato in Liguria. E poi più nulla.





una salma ignota trovata davanti al camposanto di Savona nel 45

Questa è una relazione di un ritrovamento di due cadaveri, una donna e un uomo, nel piazzale di fronte al cimitero di Savona, nell'aprile maggio del 1945, questo era un luogo abituale per abbandonare i corpi dei “giustiziati” da parte delle squadre di partigiani comunisti che si liberavano di corpi scomodi da gestire. La donna che non compare in foto è Genesio Maria di anni 38 e il cadavere maschile in foto è ovviamente ignoto e chi lo ha ucciso si è ben guardato da lasciare qualsiasi cosa che possa farlo identificare. Il referto autoptico del medico, Dott. Reforzo parla di due ferite da arma da fuoco, probabilmente di rivoltella, al capo e al torace, quindi con lesioni celebrali e polmonari, esplose da distanza ravvicinata, forse due o tre metri. Si tratta quindi di una esecuzione sommaria come ne sono avvenute nel periodo insurrezionale. ( Documenti del mio archivio personale sulla guerra civile nel Savonese )
Robert Nicolick






mercoledì, febbraio 22, 2017

Luisa Ferida e Oscar Valenti



É la notte del 30 aprile 1945, quando a Milano, in Via Poliziano, si arresta un camion dal cui cassone vengono fatti scendere una donna, bella e giovane, e un uomo anch'egli dai tratti molto belli.
Sono due attori, Luisa Manfrè Ferida e Osvaldo Valenti. Dal mezzo scendono anche dei partigiani della Brigata Pasubio, comandata dal famigerato Marozin, un ras partigiano, condannato a morte dai suoi stessi compagni di lotta per crimini particolarmente efferati compiuti in Veneto.
Marozin ha ricevuto una comunicazione da Sandro Pertini il quale , prima si informa se egli detenga i due attori, poi avuta risposta positiva gli ordina di “giustiziarli” cosa che viene fatta celermente. Mentre i due sono messi al muro, i fari del camion li illuminano agli occhi dei loro boia, che sparano a raffica sulla coppia.
Poi qualcuno di loro poggia sui corpi due cartelli in cui i partigiani della Pasubio si accreditano come giustizieri di Luisa Ferida e Oscar Valenti. I due bellissimi attori, erano una coppia oltre che nel cinema, anche nella vita, e Luisa era infatti incinta di Valenti. Mentre stavano per essere uccisi, lei terrorizzata si strinse al suo uomo e lui ebbe il tempo di dirle “assieme nella vita e nella morte” poi caddero sotto il piombo ingiustamente assassino.

Robert Nicolick

lunedì, febbraio 20, 2017




Un'altra foto analizzata e commentata

Una fila di uomini, piuttosto male in arnese, con l'aria stanca e rassegnata, con accanto altri, armati che hanno un atteggiamento diverso, sono eretti nel portamento e osservano truci e con attenzione la fila di quelli che sembrano prigionieri e che hanno un mix di divise e di abiti laceri, stazzonati come se ci avessero dormito, qualcuno di loro sembra scalzo.
Sullo sfondo quella che pare una tribuna di uno stadio, con altri uomini che si affacciano.
Siamo a Novara, all'interno dello stadio di Via Alcarotti, ex stadio Littorio, nell'aprile - maggio del 1945, gli uomini in fila e quelli sulle tribune sono prigionieri che facevano parte della cosiddetta Colonna Morsero, un raggruppamento di circa 2000 elementi militari e civile della R.S.I. Tra cui circa 300 ragazze in uniforme del servizio ausiliario.
La colonna sarà accerchiata dai partigiani comunisti a Castellazzo Bormida e dopo la loro resa, concentrati in quello stadio e sorvegliati da loro.
Erano circa 1300 li ristretti, in condizioni inumane, praticamente senza servizi igienici, dormivano all'addiaccio senza alcun riparo , solo saltuariamente ricevevano qualcosa da mangiare.
In seguito, a maggio del 45, fra il 12 e il 13, elementi partigiani della 182° Brigata Garibaldi, ne prelevarono arbitrariamente dal campo, diverse decine, per un totale di 150 circa e li eliminarono in vari modi tra Vercelli e Greggio, con metodi cruenti e inumani. Molti di quei corpi non verranno mai più ritrovati.
I capi della Brigata comunista erano Moranino e Ortona, che in negli anni a seguire sarebbero diventati deputati per il P.C.I. Nel parlamento di questa repubblica.

La Magistratura riuscì a indagare e rinviare a giudizio Moranino, che tuttavia non conobbe le patrie galere perchè fuggì in Cecoslovacchia da dove attraverso Radio Praga lanciava messaggi radiofonici anti Italiani.  

domenica, febbraio 19, 2017

Alberto Genta


Alberto Genta
Detto “Lo spagnolo”
Maggio 2002
La sparizione di Alberto Genta, detto lo spagnolo, rappresenta ancora oggi un mistero irrisolto, scompare da Altare, un piccolo paese dove è nato 64 anni fa, formalmente il 15 maggio 2002 come da denuncia della sorella che lo ha accudito sin da piccolo. L’uomo scompare senza alcun preavviso, non viene più visto da nessuno semplicemente. Genta non ha un carattere facile, inoltre ha alcune condanne in giudicato e pendenze ancora in corso In genere i reati in cui incappa più facilmente sono : reati generici contro il patrimonio, qualche furto e soprattutto usura, dal punto di vista commerciale , alcuni anni fa ha condiviso la proprietà di un locale pubblico e pare che avesse una villa in Sardegna. Aveva anche scontato una breve pena detentiva. Il suo vissuto adolescenziale non è stato dei più sereni, il padre frequentava delle prostitute, e le invitava in casa, obbligando la moglie a lavare la loro biancheria intima, era davvero una situazione impossibile che ha sicuramente segnato la vita di Alberto.
Viveva da solo, pur avendo un fratello ed una sorella con cui teneva contatti non frequenti e nel suo piccolo paese dove abitava, non ci teneva a mantenere rapporti sociali anche semplici.
Genta nella sua ultima uscita, ha lasciato le finestre della sua casa aperte, in casa c’erano alcune migliaia di euro e degli assegni da incassare, postdatati, tutte cose che non avrebbe mai lasciato incustoditi, la sua autovettura una Alfa Romeo modello 33, era posteggiata da giorni nel parcheggio di un centro commerciale a Cairo, con le chiavi all’interno della macchina inoltre aveva calendarizzato alcuni appuntamenti a cui non si era recato, tutto questo faceva pensare ad un allontanamento forzato oppure a qualcosa di peggio. In base a tutti questi elementi la sorella decide di denunciarne la scomparsa. Furono avviate delle ricerche che non portarono a nulla. Nel 2003, fu trovato un corpo in avanzato stato di decomposizione ad Alassio in un dirupo, la sorella credette di riconoscerci il fratello, ma un esame comparativo del DNA la contradisse. Nonostante non fosse mai trovato il cadavere di Alberto Genta, un abitante della Valbormida tale Giancarlo D’Angelo, di professione imprenditore, fu rinviato a giudizio per il suo omicidio, lo accusavano delle intercettazioni telefoniche in cui egli invitava lo Spagnolo ad un incontro in un luogo deserto e fuori mano, di cui è ricca la zona. Anche una testimone lo accusa in un memoriale consegnato alla Procura della Repubblica. Nel 2011, l’imprenditore D’Angelo viene prosciolto dall’accusa di omicidio e occultamento di cadavere nei confronti di Genta, perché il fatto non sussiste. Quindi tutto da rifare e Genta vivo o morto non si trova.

Nel 2013, avviene un colpo di scena, D’Angelo, accusato a suo tempo di aver ucciso e occultato lo Spagnolo viene trovato carbonizzato in un furgoncino a Rocchetta di Cairo, inspiegabilmente. La Valle Bormida si conferma come una zona di misteri e di complotti.

Franco Percoco


Franco Percoco

Il mostro di Bari che accoltellò la famiglia
La strage fu compiuta con un coltellaccio da cucina impugnato da Franco Percoco di anni 27, studente universitario di agraria il quale sterminò la famiglia nella notte tra il 26 maggio e il 27 maggio del 56 a Bari, Eresvida Martini di anni 50 madre e donna timida che fu la prima ad essere colpita con un netto taglio alla gola mentre dormiva nel letto della camera matrimoniale , poi Vincenzo Percoco il padre, di anni 64, che dormiva accanto alla moglie si sveglia di soprassalto e viene colpito ripetutamente al torace ma ha il tempo di urlare prima di essere finito, egli era pensionato delle Fs, e persona molto stimata, si affaccia alla porta della camera il fratello Giulio di anni 21, un povero ed inoffensivo ragazzo, affetto dalla sindrome di Down che viene ucciso anch'esso, poi l'assassino spogliò i corpi delle vittime dagli abiti lordi di sangue e le nascose in camera da letto.
Quindi si bevve una birra e si addormentò nel proprio letto come se niente fosse accaduto.
Nei 10 giorni successivi , senza mostrare alcun disagio, continuò ad ospitare i suoi amici in allegre feste conviviali a pochi metri dalla camera ove erano i cadaveri dei suoi congiunti.
Franco continuò anche a ricevere donne nell'appartamento di Via Celentano 12, sigillò con del nastro adesivo, le finestre e le porte della camera dove erano i corpi in putrefazione, per non fare uscire la puzza della decomposizione, diffondendo ogni tanto del deodorante al gelsomino.
Quando i vicini gli chiedevano dove fossero i suoi parenti egli rispondeva che erano partiti per una vacanza a Montecatini. Tuttavia il fetore di decomposizione divenne troppo forte allarmando i vicini, a questo punto Franco Percoco sparì rendendosi irreperibile.
La polizia infine arrivò, avvisata dai vicini per il fetore, entrò nell'appartamento da una finestra, trovò la madre distesa nel letto coperta da un materasso, il figlio ai piedi del letto e il padre in un armadio piegato in due per farcelo stare, tutti i cadaveri erano gonfi perchè colpiti dall'enfisema putrefattivo che sviluppa dei gas all'interno delle cavità fisiche .
Franco Percoco ricercato in tutta Italia, si dava alla bella vita, conducendo una vacanza spensierata a Ischia, con i denari dei genitori, tra bar, night club e ristoranti di lusso. La sua latitanza venne aiutata dal fatto che l'albergatore che lo ospitò, omise di registrare la sua presenza nella struttura e quindi la Questura non notò il nome del ricercato tra le schede delle registrazioni.
Il Percoco che in quei giorni, vestiva sempre molto elegante, aveva anche una frequentazione con una donna che lavorava in una casa di tolleranza, la quale alla fine dopo mille reticenze, indirizzò la polizia sulle tracce del mostro di Bari.
Arrivarono dalla questura di Napoli 50 agenti, che iniziarono a battere tutti i locali del porto di Ischia e dopo tre giorni lo trovarono e lo arrestarono traducendolo a Bari, dove venne rinchiuso nel locale carcere giudiziario.
All'arresto non oppose resistenza. Si giustificò, affermando di aver sterminato, i genitori perchè gli impedivano di fare una vita brillante e dispendiosa, continuando a rimproverarlo per il fallimento negli studi e uccisa pure il fratello Giulio perchè accorse richiamato dal rumore.
Fu rinviato a giudizio per triplice omicidio e occultamento di cadavere.
La dinamica omicidiaria accertata fu questa : Percoco stava preparando gli ultimi esami, assalito dalle sue nevrosi , cominciò a bere del cognac, poi in cucina afferrò un coltellaccio , entrò nella stanza dove dormivano i suoi e prima massacrò la madre che morì in silenzio, mentre il padre, durante l'aggressione urlò e infine il fratello disabile attirato dal trambusto.
Quindi sfilò gli anelli dalle dita della madre, cercò dei titoli di stato dei suoi genitori che sottrasse e si impossessò della pensione del padre, circa 70 mila lire .
Dopo l'interrogatorio in cui rese completa confessione, in attesa di giudizio, venne inizialmente detenuto presso il manicomio criminale di Rebibbia, poi il processo alla Corte di Assise di Bari, in cui venne anche sentito il fratello dell'imputato, Vittorio con precedenti penali , detenuto presso il carcere di Perugia per rapina, il quale alla vista del coltello usato per massacrare la famiglia, svenne subito.
Quando Vittorio si riprese disse che in sogno aveva visto l'arma del delitto e la scena della strage nel suo avvenire.
Un'altra testimone fu la ex fidanzata Concetta Tassi, che affermò di essere stata invitata da Percoco nella casa del massacro a pranzo e a cena, assieme al fratello e alla di lui fidanzata.
Dopo sei ore di camera di consiglio decise per la sua colpevolezza, pur attestando la sua seminfermità di mente, e lo condannò all'ergastolo per omicidio continuato nella persona dei genitori e fratricidio nei confronti del fratello aggravato dalla continuazione del reato per coprire i reati anzidetti, inoltre fu anche riconosciuto colpevole di occultamento di cadavere.
Venne definito socialmente pericoloso, prima della esecuzione della pena è stato condannato a rimanere per tre anni in una casa di cura. Fu la prima strage famigliare avvenuta in Italia a cui seguirono altri casi molto noti perchè con una copertura mediatica che questo invece non ebbe.
Questo il fatto ma ci fu un seguito, scontati circa 30 anni di detenzione, Percoco uscì libero cittadino, nonostante avesse fatto quello che fece e iniziò una relazione di convivenza con una donna di Torino che forse era all'oscuro del suo passato.
Con essa si trasferì in un piccolo e anonimo centro dell'Alessandrino, Ponti. Nessuno lo conosceva e in quel piccolo paese, non esisteva neppure una caserma del Carabinieri. La coppia era nota come “i bixjoux” dal nome del cagnolino che la donna portava sempre con sé.
Era un perfetto sconosciuto che poteva muoversi a suo piacimento, prese un piccolo appartamento in affitto e disse di essere un pittore e in effetti aveva una buona mano nel dipingere.
Ovviamente non parlava mai del suo passato e dei suoi famigliari e a qualche domanda troppo indiscreta rispondeva che erano morti in un incidente.
Appariva come una persona molto calma e fin troppo controllato, un po come una molla compressa ed infatti in alcune occasioni reagì violentemente a delle osservazioni che una anziana signora gli fece e manifestò anche interessi morbosi verso una dodicenne del posto che aveva accompagnato con una scusa a Torino, città dove la sua convivente abitava, e quando effettuava dei viaggi usava sempre il treno, infatti non aveva la patente.

Robert Nicolick

martedì, febbraio 14, 2017

Vera Roll




Un'altra foto
Eva Roll

In questa foto, scattata a Milano, a fine aprile 1945, si vede al centro una donna a cui un partigiano sta rapando i capelli con la testa eretta, seduta, molto bella, mora, dallo sguardo triste e irritato al tempo stesso, indossa un cappotto e una gonna lunga di raso, il cappotto chiaro appare costellato di macchie forse di unto, attorno a lei, sei uomini, partigiani, quasi tutti armati e con le divise raccogliticce, secondo alcune fonti, sarebbero state migliaia le donne Italiane, di ogni età, ad avere subito questo sfregio e altre molestie. Uno dei soggetti si impegna con grande buona volontà nel taglio, a terra si vedono delle ciocche di colore nero, altro guardano il lavoro del loro compagno e appaiono divertiti.
I capelli fluenti sono un simbolo di femminilità e quindi un bersaglio preferenziale. Si noti il viso e lo sguardo dei due subito dietro ai carnefici, lo sguardo è divertito, un lieve ghigno increspa le labbra del soggetto. Sembra che abbiano la smania di farsi fotografare e poter dire c'ero anche io.
Sono forti ! In sei e per di più armati, contro una donna sola , chiaramente in soggezione. Uno dei soggetti, con l'aria arrogante, inalbera un cartello, che è una delle prime forme di pubblicità e che pubblicizza uno spettacolo e il nome della povera donna seduta che appunto era la protagonista di questo spettacolo, a cui stanno rapando i capelli, senza tanti complimenti, lei è una attrice teatrale o come si diceva allora una soubrette.
Si chiama Vera Roll, classe 1920, Piemontese di Condove, moglie di una altro attore di teatro, Nuto Navarrini. La loro colpa agli occhi dei partigiani comunisti fu quella di aver messo in scena uno spettacolo in chiave anti – parigiana , appunto “la gazzetta del sorriso”, in cui l'attrice ironizzava sui personaggi che facevano parte delle formazioni partigiane.
Basta poco, dopo il 25 aprile 1945 per essere presi e giustiziati sommariamente, oppure nel caso di donne, picchiate, stuprate o come nel caso di Eva Roll rapate.
Questa è la prassi. In seguito la donna fu anche processata per collaborazionismo ma prosciolta dalle accuse e liberata. Continuerà a fare l'attrice di teatro e si spegnerà a Roma negli anni 70, senza dimenticare quello che gli avevano fatto alcuni uomini che di umano avevano ben poco.


Robert Nicolick

lunedì, febbraio 13, 2017

l'analisi della foto di Giuseppe Solaro


Un'altra analisi di una foto
Giuseppe Solaro
Sullo sfondo un palazzo patrizio con lunghi balconi e ampie finestre, da cui spuntano decine di persone che osservano quello che accade in basso.
Il punto focale della foto, che attrae l'attenzione è l'uomo, giovane, con i capelli appena scompigliati, vestito con una giacca doppio petto, con un solo bottone abbottonato, al collo una sciarpa con dei disegni, colpisce moltissimo l'espressione, lo sguardo è tranquillo e orientato verso avanti come a fissare qualcosa, un lieve sorriso increspa le labbra di questo giovane uomo dal portamento atletico e snello, il sole illumina il suo bel viso.
Attorno a lui ma più in basso, alcuni partigiani armati, due in particolare gli sono vicinissimi, a sinistra nella foto uno con l'elmetto e un mitra appeso alla spalla, in uno strano atteggiamento, tiene il giovane per mano senza far trasparire violenza ma anzi al contrario , quasi soggezione, l'altro sulla destra della foto, in ombra, con un berretto e un fazzoletto, rosso , al collo, guarda in direzione del giovane, che si presume sia essere loro prigioniero. Poi , più lontani dal centro focale della foto altri visi sfocati, elmetti e ancora altra gente irriconoscibile.
Siamo a Torino a metà maggio del 45, forse in piazza San Carlo, il giovane in primissimo piano, è Giuseppe Solaro, ha 31 anni, ed è l'ultimo vertice Fascista in città, non ha voluto fuggire, come invece hanno fatto i suoi egregi camerati, ed è stato preso dai partigiani che hanno imbastito un processo farsa condannandolo a morte.
Solaro nel corso del brevissimo processo, protesta la sua estraneità alle rappresaglie compiute dai Tedeschi e dai suoi camerati, ora uccel di bosco ma la sua sorte è segnata. Viene portato in Corso Vinzaglio, dove furono impiccati dai Nazisti alcuni partigiani, gli vine messo il cappio al collo e l'estremità della corda passata attorno ad un ramo, in quei momenti terribili ha le mani libere, come per uno strano destino il ramo non regge il peso del corpo e si spezza di colpo, facendo precipitare a terra Solaro che perde i sensi.
Si ripete con sadico accanimento l'impiccagione ad un altro ramo più robusto, e questa volta con esito nefasto.
Ma i suoi assassini non sono ancora soddisfatti, caricano il corpo della loro vittima su un cassone di un camion scoperto, lo legano alla struttura che regge il telone e vanno in giro per Torino ad esibire il loro macabro trofeo, raggiunto il Po, percorrono il Ponte Isabella, da cui gettano il cadavere di Solaro nel grande fiume, gli sparano contro mentre galleggia e poi se vanno.
In seguito il corpo sarà recuperato e inumato, ora giace nel cimitero monumentale nello spazio riservato ai caduti, che sono circa 140, nel loculo n° 69.


Robert Nicolick

venerdì, febbraio 10, 2017

manifestazione per la giornata del ricordo a Savona 2017 in Piazza Diaz

un'altra analisi di foto



L'uomo anziano che sanguina

Due foto, tra le tante, catturano la mia attenzione, la prima, un uomo che sembra anziano, con i capelli bianchi scomposti, ha il viso tumefatto, perde sangue dal naso, indossa un pastrano militare più grande di lui, le scarpe sono semiaperte segno che gli sono state sottratte le stringhe e quindi che era prigioniero, stringe nella mano destra uno straccio bianco sporco di sangue, nonostante sia stato visibilmente picchiato, ha l'aria di camminare con decisione verso una meta, nota solo a lui.
Tanto deciso che uno dei suoi guardiani sembra trattenerlo afferrandolo per il braccio destro.
L'uomo e i suoi boia camminano su una spianata di terra battuta, dietro si vede un palazzo barocco, un gruppo di armati, sta attorno al vecchio, sono chiaramente partigiani, quello che lo trattiene ha un viso angoloso e duro e fuma una sigaretta, sul capo un berretto con visiera di panno, forse della whermarch, sulla spalla destra una bandoliera di un fucile di cui si vede il calcio che spunta in basso, veste una divisa molto approssimativa con i pantaloni alla zuava, nella cintura una sfilata di bombe a mano, una delle quali chiaramente tedesca e le altre quattro forse di fabbricazione Italiana.
Subito dietro al vecchio, due figuri con elmetto Italiano, il viso atteggiato ad un ghigno di contentezza, entrambi sono armati di un moschetto 91, ma in posizione diversa, il primo sulla destra lo impugna e l'altro con camicia e cravatta, lo tiene con la bandoliera in spalla. Da parte di questi uomini pare di capire che si divertono come a una festa, anche se in realtà è tutta un'altra cosa almeno per il vecchio prigioniero.
Uno dei partigiani, quello con cravatta, porta delle buffe fasce mollettiere alle caviglie, molto in uso durante la guerra 15 – 18. In seconda e terza fila, altri uomini, partigiani, tutti con improbabili divise una diversa dall'altra, con cappelli, giacche, stivali raccolti chissà dove.
Faccio una breve ricerca e scopro dove è stata scattata la foto: Mestre, in Via Garibaldi, nella caserma dei Carabinieri di Mestre, e siamo il 30 aprile 1945.
Il vecchio, pieno di contusioni e botte, è un professore, Tullio Santi classe 1882, benefattore Veneziano che è stato pure sottufficiale delle Brigate Nere, preso dai partigiani Veneti, picchiato come un tamburo, sottoposto ad un solito processo farsa e condannato in brevissimo tempo a morte.
La corte che lo giudica sommariamente è composta da partigiani che sono al tempo stesso anche testimoni del suo ruolo di presunto torturatore, in realtà Tullio Santi è solo un vecchio professore di disegno entrato in un gioco più grande di lui.
Risponde punto per punto alle domande che gli vengono poste, alle accuse, non può replicare agli schiaffi e ai pugni che gli piovono addosso da chiunque gli si avvicini.
Dopo la condanna a morte, viene portato anzi esibito in giro , sottoposto alla gogna, sputacchiato e picchiato ancora, gli fanno indossare un vecchio pastrano militare, di due taglie più grande, appare goffo e vacilla, ma cerca di avere un contegno. La seconda è la sequenza logica della prima, lo costringono a impugnare una lunga tavola di legno alla cui sommità hanno legato uno straccio nero, come un buffo simulacro di gagliardetto.
Lui , nonostante tutto, non si piega, rimane eretto e fiero nella sua dignità, per quanto la gragnuola di botte glie lo permetta.
Poi , assieme ad un altro condannato, viene portato alla morte, il plotone di esecuzione ce l'ha alle spalle, qualcuno dei suoi carnefici gli affigge sul dietro del pastrano, una foto di Mussolini, come ultimo gesto di dileggio, ma il condannato non si scompone, sta immobile come in attesa senza compiere alcun movimento.
Pochi secondi di attesa, in cui attende, eretto nella figura, il piombo partigiano. Poi la scarica mortale che lo fulmina sul posto, Tullio Veneziani cade a terra disteso accanto al suo compagno di sventura, quindi il plotone di esecuzione si fa fotografare nella classica foto ricordo e prima di allontanarsi, qualcuno dei fucilatori, a raffiche riduce in poltiglia il cranio del compagno del Professore caduto accanto a lui.


Roberto Nicolick

mercoledì, febbraio 08, 2017

una attenta analisi fotografica



Una analisi
Ho esaminato con grande cura e attenzione questa foto che gira da circa una trentina di anni, prima su vari giornali, settimanali, OGGI e GENTE Rusconi editore, e poi sul web, ultimamente.
Innanzi tutto quando e dove e da chi è stata scattata ? Vado per ipotesi : certo nella prossimità della caduta del Regime della R.S.I., quindi intorno al 25 aprile 1945, prima o dopo o durante, il gruppo di quelli che sono certamente partigiani, sta percorrendo un acciottolato tipico, sia di un ambiente paesano che un centro cittadino, alle spalle si notano a sinistra dei fabbricati e a destra degli alberi, anche se un po' sfocati.
Il luogo è un qualsiasi luogo dell'Italia del Nord o della Toscana. Dico Toscana perchè qualcuno mi ha suggerito trattarsi di una dei 500 cecchini che Pavolini fece appostare a Firenze sulle case più alte a sparare sugli alleati, che entravano in città, qui la dico ma non ne sono sicuro.
Il fotografo è sicuramente un sodale dei guardiani, altrimenti non lo avrebbero lasciato libero di fare uno scatto che parrebbe costruito a futura gloria dei “guardiani”, che vogliono gloriosamente apparire in tutta la loro capacità di potere e controllo assoluti sulla giovane donna prigioniera e in loro soggezione.
Ma lo scatto ha anche un effetto boomerang e manifesta anche l'inutile tronfio atteggiamento dei guardiani. Nessuno dei 15 componenti il gruppo ha lo stesso passo.
I primi tre, quelli più da appresso alla ragazza, sono armati e puntano le armi verso l'obiettivo e non verso la prigioniera, il primo da sinistra, giovanissimo, guarda fisso l'obiettivo e abbozza un sorriso ebete, ha una bomba a mano, tedesca, la famosa Stielhandgranate 24 infilata nella cintola dei pantaloni e imbraccia un fucile che mi sembra anch'esso Tedesco, forse un Mauser, sulla manioca della giacca ha un nastrino forse tricolore.
Quello sulla destra, molto vicino alla ragazza, sembra un adulto dal fisico alto e robusto, imbraccia un moschetto 91 con fare guardingo e ha uno sguardo attento, fisso sull'obiettivo, al braccio destro ha un nastrino tricolore, quindi abbiamo il terzo uomo armato, più basso, di età adulta, che brandeggia un mitra, forse un MAB, questo soggetto ha lo sguardo fisso sulla prigioniera come se volesse anticipare le sue mosse, anche se mi pare altamente improbabile che la poveretta avesse in mente di fuggire da questo branco di uomini, pronti a tutto , mah ! E' l'unico a indossare quella che sembra una divisa, con i pantaloni alla zuava infilati negli scarponcini, la giacca è tipicamente militare con quattro tasconi e sulla giacca ha un distintivo che non riesco a identificare uguale a quello del suo vicino.
Quelli in primo piano sono seri e compunti, molto immersi e coinvolti nel loro ruolo di guardie armate, in seconda fila tuttavia qualcuno dei maschi sorride o meglio ride divertito o per quello che poco fa è accaduto o per quello che accadrà.
La giovanissima donna, quasi una innocua ragazzina, ignota come nominativo, che appare sicuramente ristretta nella sua libertà, con le braccia dietro la schiena, cammina stancamente curva in avanti, forse con i polsi legati, pratica inutile in quanto lei è chiaramente intimorita e seguita da un gruppo numeroso di guardiani. Non indossa una uniforme, ha una gonna a quadri e un giubbino bicolore, ai piedi porta delle scarpe morbide come quelle babbucce stringate che generalmente si usano in casa invece i suoi carnefici hanno scarponi pesanti e chiodati.
Lo sguardo è basso, per la paura, per quello che ha subito o per quello che subirà, pestaggio, molestie e/o stupro, fucilazione.
I capelli sembrano tagliati a ciocche con le forbici, punizione abituale per le donne collaborazioniste, il cranio sembra colorato con la vernice al minio anche questa sembra un castigo di prassi, e sul viso hanno tracciato dei segni con un pennello, anche qui penso con la stessa sostanza usata per colorare il cranio.
Dalla prospettiva della foto, sembra che il gruppo si avvii per una salita il che non depone per un futuro della ragazza, in quanto i cimiteri, in genere, nei paesi sono sulla collina.
Questa foto mi ha sempre incuriosita e per quanto la guardassi e la studiassi in modo analitico e al di fuori dalle emozioni che una scena tale può suscitare, non mi ha mai fornito elementi oggettivi per collocarla come luogo o per dare un nome ad uno qualsiasi delle persone fotografate.

Roberto Nicolick

giovedì, febbraio 02, 2017

L'omicidio di Damiano Nobile. Millesimo

Damiano Nobile
Anni 6
Millesimo
6 giugno 1997 ore 13
Damiano è un bel bimbo di sei anni, come tutti i bimbi del mondo aveva diritto ad un futuro che gli venne tolto crudelmente, infatti fu sgozzato con un coltello lungo 21 centimetri dal padre in conflitto con la moglie.
L’episodio accadde accanto alla mensa della scuola di Millesimo poco dopo le 13 del 6 giugno , il piccolo era con la madre, Elena, che lo aveva appena prelevato dalla scuola materna. In quel momento arrivò il marito separato con cui non c'era un buon rapporto. Subito la madre realizzò le intenzioni del marito messa in allarme dalle suore, preleva il figlio e dopo averlo chiuso nell’auto corse nell’edificio scolastico per chiamare i Carabinieri , intanto l’uomo convinse il figlioletto a sbloccare la portiera, lo afferrò e lo trascinò, vanamente inseguito da una suora , sino a casa sua che era nelle vicinanze sia della scuola che della casa di riposo dove prestava servizio la sua ex moglie.
Qui con il coltello ha sgozzato il piccolo che in brevissimo tempo è deceduto. Quando è arrivata la madre con i Carabinieri il bimbo era morto in un lago di sangue. Il padre , Claudio, noto come il Mago di Millesimo, fu arrestato in flagranza di reato e sottoposto a misure restrittive.
Purtroppo in diverse occasioni il marito si era dimostrato aggressivo e violento nei confronti della moglie minacciando lei e il bimbo di morte, ma non era stata presa nessuna contromisura. Il piccolo Damiano aveva anche subito delle percosse dal padre, ustioni sulla schiena con una pentola di acqua bollente, tagli sulle braccia con armi da taglio e percosse varie. Un medico aveva chiesto delle misure sanitarie coatte nei confronti del marito, ma non erano stata accettate , tutto questo sino alla tragedia finale.

Venne rinviato a giudizio e condannato a 28 anni di carcere, nel dispositivo della sentenza i giudici hanno scritto che l’intento dell’assassino era vendicativo e trasversale nei confronti della moglie che lo aveva lasciato e che voleva discutere in tribunale l’affidamento del figlio. In pratica un complesso di Medea che consiste nel colpire non la persona che si odia ma i suoi affetti più cari per farla soffrire in eterno. Inoltre un altro concetto che può aver mosso la mano omicida è questo: se non posso averlo io non potrai averlo neppure tu. A rendere più pesante l’imputazione di omicidio concorsero anche la premeditazione, i motivi abbietti e la consanguineità.