mercoledì, marzo 29, 2017

Le foibe nel Savonese

Foibe nel Savonese

Anche la provincia di Savona, nell'entroterra di Ponente, Toirano e Magliolo, ha le sue brave foibe, orrende anch'esse, usate dai partigiani comunisti e altri analoghi malfattori, per fare sparire i corpi delle loro vittime. I loro nomi sono Buranco Rampione in località Acquetta e Buranco della Croce in località Giovo di Toirano. La profondità di queste foibe è superiore ai 100 metri e sul fondo si diramano in diverse cavità colme di rifiuti e anche di ossa umane.
Il Comando dei Carabinieri di Albenga, dopo incessanti ricerche delle sue pattuglie, nell'aprile del 48, sull'onda di diverse segnalazioni anonime, ha trovato queste due foibe, ne ha dato notizia ai vari comandi interessati, alla procura della Repubblica di Savona che ha provveduto ad alletare il 77° Corpo dei vigili del Fuoco, attrezzati per questo tipo di ricerche sul campo.
Secondo alcune voci anonime a causa del terrore che ancora in quel periodo determinati soggetti incutevano, in quelle foibe sarebbero stati gettati i resti di non meno 120 persone di ambo i sessi. In quella zona era operativa una banda di “patrioti” guidati da tale Renzo Perrone.
Una delle vittime eccellenti, per sicuro, fu un Magistrato, Manlio Sticco, classe 1905, assassinato nel 44 a Calizzano e gettato nella foiba del Rampione, con lui fu ammazzata una insegnate, una guardia forestale e altri cittadini, anch'essi poi fatti sparire nella foiba.
Nel maggio del 48, i Vigili del fuoco, fecero una prima ispezione nel Buranco della Croce e rinvennero tre scheletri umani completi, maschi, di anni 20 – 25 con brandelli di uniforme grigio verde e un basco con insegne della Repubblica Sociale. I resti estratti dai vigili del fuoco, vennero esaminati da un medico legale, il Dottor Raffaele De Lucia, che redasse una relazione sul ritrovamento di : tre crani, tre bacini, sei scapole, sei femori, molte ossa della gabbia toracica, un sacrale e moltissime vertebre sparse per la voragine. Molte delle ossa mancanti non vennero più ritrovate per l'azione delle acque di infiltrazione, degli uccelli da rapina e altri elementi che hanno contribuito alla loro distruzione.

Roberto Nicolick










domenica, marzo 26, 2017

Maria Viglietti


Maria Viglietti e i furti che subì dai “patrioti”


Quando i poliziotti ausiliari partigiani, che amavano definirsi “patrioti”, effettuavano quelle che chiamavano 2perquisizioni”, le facevano con scrupolo e in modo approfondito. Lo può dire con sicurezza la Signora Maria Viglietti, residente a Savona in Via XX settebre 11/5, la quale è vedova di uno dei componenti la colonna Repubblichina in ritirata da Savona il 25 aprile 1945 e caduto durante degli scontri a fuoco con forze partigiane a Cadibona.
La povera donna racconta di diverse visite compiute da questi personaggi, sempre armati e molto efficienti nell'appropriarsi di valori, ecco quello che accadde alla povera signora , come si evince da una sua denuncia alla Procura, al Questore e al Comando Alleato in Savona:
Prima perquisizione in data 27 aprile 45, alle 20, arrivano quattro sedicenti patrioti, che dopo averla minacciata di morte , portano via : le fedi nuziali, un anello in oro, un brillante, un anello con madonnina in oro, un paio di orecchini d'oro, un altro paio di orecchini in oro con pietra turchese, pochi spiccioli e visto che c'erano anche tre coperte di lana, un copripiedi, due scampoli di stoffa, calze, scarpe da uomo , stivali in gomma, fazzoletti, asciugamani, saponetta, olio, due bottiglie di amaro, un abito, un cappotto e un soprabito da uomo oltre a camicie, corpetti e mutande. La povera donna non fiata e non oppone resistenza.
A questo punto la voce si sparge: altra visita il 7 maggio, questa volta, di cinque persone, sempre armati che arrivano in assenza della Maria Viglietti e forzano la porta con arnesi da scasso che poi lasciano sul pianerottolo, in questa occasione spariscono : una coperta in lana, scarpe da donna, calze, asciugamani, biancheria personale, addirittura una penna stilo, un soprabito femminile, vestiti vari, e infine un libretto di navigazione.
Forse i briganti sono soddisfatti ?? No ! Il 9 maggio, all'alba, altra vista di un “patriota” con un bel cappello da alpino che anch'egli , tanto per non sbagliarsi forzò la porta e fece il suo ingresso, rimanendo deluso perchè oramai non c'era più nulla da rubare. Già dopo la prima intrusione Maria Viglietti non abita più in quella casa, disperata per i furti, le minacce e per quello che potrebbe accaderle in seguito non fa più ritorno in quella casa e decide di afre denuncia nella speranza di recuperare le sue cose e l'uso della propria abitazione.


Roberto Nicolick




lunedì, marzo 20, 2017

Ernesto e Renato Bernarda 25 aprile 1945

L'uccisione dei Bernarda
Ernesto e Renato
Santuario di Savona 25 aprile 1945

Ernesto e Renato Bernarda, rispettivamente padre e figlio, il primo classe 1896 e il secondo classe 1927, residenti in Frazione Santuario di Savona, entrambi impegnati nella repubblica Sociale Italiana a vario titolo.
Ernesto, un quarantanovenne in gamba e pieno di voglia di fare, uomo semplice e concreto, ex partecipante alla marcia su Roma ad ottobre del 1922, appartenente alla Brigata Nera Provinciale di Savona, in più era un milite volontario dell'U.N.P.A. L'unione nazione protezione antiaerea , un uomo che aveva fatto una scelta di vita molto precisa e aderiva profondamente a questi ideali in cui credeva senza aver mai compiuto violenza contro chicchessia.
Il figlio Renato di appena 18 anni, un bel giovane, moro con degli occhi scuri profondi, aveva seguito le orme del padre entrando anch'esso nella Brigata Nera di Savona, la Briatore.
I Bernarda sono due elementi molto attivi, mai violenti, che ovviamente erano nel mirino dei partigiani comunisti , a maggior ragione in un piccolo centro abitato come Santuario dove tutti si conoscono.
Era solo questione di tempo, si diceva nel circondario e poi gliela avrebbero fatta pagare, ma i due Bernarda, che comunque non avevano nulla di cui rimproverarsi, fino all'ultimo fecero quello in cui credevano e non cercarono di fuggire anzi al contrario continuarono la loro vita, nonostante il Regime stesse iniziando a perdere i pezzi.
Forse qualcuno li consigliò di allontanarsi, ma non era nel loro carattere fuggire. La moglie di Ernesto, una donna minuta e fragile, sentiva il vento cambiare e tremava ogni volta che i due, padre e figlio uscivano di casa, intanto la follia omicida iniziava a montare e toccò anche ai due Bernarda. Lo stesso 25 aprile 1945 senza alcun indugio, una squadraccia di partigiani armati arriva repentinamente alla umile casa della famigliola, irrompono nella cucina mentre i Bernarda stavano pranzando, prendono con violenza il padre e il figlio, di fronte alla moglie terrorizzata che urla dalla disperazione, implorando i partigiani di lasciare stare i propri cari.
Il padre cerca di salvare il figlio, offrendosi come unico capro espiatorio ma non c'è nulla da fare, i carnefici hanno già le idee molto chiare, vogliono il sangue di entrambi.
Li spingono giù per le scale a calci, arrivati sul selciato mentre i due urlano la loro disperata protesta di innocenza, li abbattono a raffiche di mitra in fretta e furia, poi scappano lasciando i due corpi, uno sull'altro in una pozza di sangue.
La moglie, Paola Boscherini, in lacrime, affranta, scende e si getta sui due corpi ancora caldi urlando tutto il suo dolore, in colpo solo per una mano di assassini criminali ha perso il marito e il figlio. Fu una esecuzione sommaria che non aveva nulla di giusto ma al contrario fu solo un duplice omicidio compiuto nel più completo disprezzo di ogni regola umana da persone che avevano come dottrina l'odio e la prevaricazione.
Paola, distrutta dal dolore, non scorderà mai l'accaduto i volti degli assassini e per anni vestirà il lutto stretto mentre i boia dei cari, continueranno a vivere senza rimorsi di coscienza. La povera vedova morirà nel 1977 dopo anni di inaudita sofferenza.


Roberto Nicolick




domenica, marzo 19, 2017

L'omicidio di Bianchi e Francia a Savona

L'omicidio di Bianchi Umberto e Francia Ferdinando

E' il 27 aprile 1945, quando qualcuno trova due corpi sul sovrapasso della Servettaz Basevi che da Corso Colombo supera il tetto della fabbrica omonima e porta attraverso delle scale alle spiagge dove vi sono i Bagni Wanda, Nilo etc molto frequentate dai Savonesi.
I cadaveri in oggetto appartengono a Bianchi Umberto e Francia Ferdinando, ammazzati a colpi d'arma da fuoco. Si tratta di una delle tante esecuzioni sommarie molto in voga in quel periodo. Chi sono queste vittime ? Bianchi è un appartenente alle Brigate Nere di Genova, nativo di Mondovì, di anni 36, Francia Ferdinando di anni 40, nato a Rosignano ( Alessandria ) meccanico ucciso non si sa per quale motivo.
Quel sovrappasso era molto usato per le esecuzioni sommarie in quanto fuori vista dalla strada, inoltre mentre in quel sito si sparava, qualcuno della banda, poteva impedire l'accesso alle due estremità del sovrappasso.
Da ragazzino, abitando in Via XX settembre, attraversavo in estate , molto spesso, quel sovrappasso, facevo una trentina di scalini a salire, passavo sotto il sole cocente, in quel corridoio recintato da reti metalliche e scendevo sulle spiagge dopo un'altra trentina di gradini. Avevo notato dei fori, una dozzina circa, sul muro laterale ma non vi avevo dato importanza.
Ricordo gli operai della Servettaz Basevi che seduti sui primi scalini lanciavano delle occhiate furtive sotto le gonne delle ragazze che salivano per andare alla spiaggia.
In quella grande fabbrica c'era anche una sezione di infermeria e ne ho un ricordo molto vivo, spesso da essa si affacciava un tizio che dalla testa e dalle braccine poteva essere definito affetto da nanismo, questo soggetto al passaggio di qualche donna, urlava delle oscenità accompagnate da gesti molto significativi.
La cosa andava avanti da settimane, poi , un giorno, mio padre andò ad aspettarlo all'uscita della fabbrica e il nano non si affacciò più alla finestra dell'infermeria. In seguito la fabbrica fu demolita e anche il sovrappasso venne tirato giù, ora al posto dei capannoni industriali c'è una grande area verde con aree canine e spazi con giochi per bimbi e nella zona a ponente una grande piscina coperta. Ben pochi sanno cosa c'era lì e soprattutto cosa vi accadeva dopo il 25 aprile del 45.


Roberto Nicolick


L'auto fuori strada, la morte di Ettore e Silvio Lunelli

L'auto fuori strada

Era il 30 maggio del 1945, quando il gruppo di partigiani entrò al mattino presto, nell'ospedale di Cogoleto un vecchio stabile del 1800, sito in Via Isnardi , marciò compatto sino alla saletta della astanteria dove erano ricoverati alcuni traumatizzati in attesa di essere medicati.
Gli uomini armati si diressero con decisione verso due uomini in divisa, distesi ed immobilizzati su dei letti, uno molto giovane e aitante, altro visibilmente anziano, entrambi erano chiaramente sofferenti, fasciati alla meglio in diversi punti del torace e negli arti.
Portavano la camicia delle formazioni armate della repubblica Sociale Italiana, su una sedia accanto era appoggiata la giacca grigioverde con le mostrine nere e il gladio e un paio di pantaloni. I partigiani li sollevarono quasi di peso li trascinarono fuori senza umanità alcuna. Nel piazzale li aspettava una giardinetta al cui volante c'era un altro partigiano, fecero entrare i due feriti nel retro e poi partirono.
Uno di loro salì sul predellino dell'auto brandeggiando con tracotanza il suo mitra. C'era poca strada da fare infatti la destinazione era Pratozanino, in collina, sede di un manicomio dove i partigiani generalmente praticavano le esecuzioni sommarie, lontano da sguardi indiscreti. Quindi i due repubblichini sarebbero stati abbattuti come degli animali contro un muro, senza processo, senza alcuna garanzia , solo per odio e desiderio di rivalsa e vendetta ma sopratutto senza pietà.
Chi erano i due feriti che si avviavano alla morte ? Ettore Lunelli e suo figlio Silvio Giorgio, entrambi di Varazze, Ettore classe 1889, nelle Brigate Nere di Savona e Silvio Giorgio di appena 19 anni, milite della Guardia Nazionale Repubblicana nonché allievo ufficiale dello stesso reparto. Ettore e Silvio facevano parte delle colonne Repubblichine in ritirata dalla Liguria, giunti a Milano erano stati fermati e trattenuti. Poi qualcuno aveva avvisato i partigiani di Varazze che avevano inviato un auto con la scorta a prelevarli.
La prima destinazione era la famigerata Villa Astoria, la ex pensione Varazzina, dove una banda partigiana deteneva i prigionieri Fascisti, li seviziava e spesso li giustiziava sommariamente nelle viuzze adiacenti alla triste costruzione.
I due Lunelli, legati e impossibilitati a difendersi, lungo la strada del ritorno da Milano verso la Liguria furono picchiati brutalmente dalla loro scorta, senza nessuna ragione evidente se non quella che erano fascisti. Entrambi sapevano che li aspettava una raffica di mitra.
Erano tipi duri che non si spaventavano facilmente, soprattutto il giovane Silvio, il quale carico di collera per il trattamento che gli era stato riservato e per quello che si prospettava, decise di vendere la pelle a caro prezzo, aspettò l'occasione propizia e pur essendo legato ai polsi, si lanciò sul partigiano che guidava, ingaggiando, una disperata e feroce colluttazione. Silvio era forte ed atletico e spinto da una forte volontà di non morire come una pecora condotta al macello.
A seguito di questo gesto chi era al volante, perse il controllo della vettura che uscì di strada e precipitò rotolando in una scarpata. Uno dei partigiani di scorta, un certo Scotto, morì, ma gli altri due subirono ferite non gravi e riuscirono a trattenere con le armi i due Repubblicani che anch'essi subirono delle ferite.
Con il suo gesto disperato ma coraggioso, Silvio Lunelli rientrava con stoicismo nel ruolo che si era assunto, qualcuno afferma che mentre mandava fuori strada la macchina, pur sapendo che poteva morire anch'esso e il padre, abbia gridato .
Comunque sia, Lunelli non aveva alcuna intenzione di morire come una pecora e rivendicò la scelta di morire come meglio credeva, uccidendo pure uno di quelli che portava alla morte. In seguito i due Lunelli benchè feriti, senza essere medicati furono passati per le armi.

Roberto Nicolick



sabato, marzo 18, 2017

Furti e percezione di insicurezza

Furti e percezione di insicurezza
Non passa giorno che uno o più appartamenti subisca un furto, con effrazione, con chiavi false o bulgare , con cacciaviti o altri attrezzi da scasso, a tutte le ore di giorno o di notte, indifferentemente con casa vuota o in presenza dei residenti, con la mano di velluto o con l'uso di narcotici spray che spesso causano danni irreversibili agli anziani o ai malati in qualche caso con lo stesso prodotto hanno narcotizzato il cane di casa.
La mappa di Savona è costellata di bandierine rosse che stanno a significare la frequenza e la gravità del fenomeno, Via Bresciana, Via Nizza, Via XX settembre, in centro come in periferia, l'altezza degli appartamenti non è un problema per i ladri che si arrampicano lungo i tubi delle condutture, sfruttano ogni asperità per salire, forzano le persiane o le serrande, spaccano i serramenti esterni, anche i portoncini blindati non rappresentano un problema per loro che si applicano sino a violarli.
Una volta entrati non si accontentano dei valori ma prendono anche le chiavi delle auto, le cercano e le rubano lasciandoti a piedi e chissà quando la ritrovi la tua macchina. La polizia e i Carabinieri arrivano con rapidità ma bisogna ammettere che questi criminali hanno una velocità a sparire che ha dell'incredibile.
A parte il danno economico che già di per sé è grande, chi subisce un furto in casa propria, si sente violato nell'intimo, nei propri affetti personali, la casa è come l'anima, una cosa propria che deve essere vissuta solo da chi l'ha costruita, creata, con i mobili disposti in un certo modo, con i quadri di famiglia affissi sulle pareti in un sistema noto solo al nostro cuore, la casa è un pezzo della nostra vita , anche se povera, anche se umile, è noi stessi, i nostri famigliari, i nostri cari anche quelli che non ci sono più, i nostri ricordi e le nostre speranze per il domani.
Chi viola le nostre porte, le nostre finestre viola qualcosa di molto più importante e vitale che dei semplici oggetti.
Ci viene fatta una violenza pesantissima, non è un caso che molte persone anziane, quindi più indifese e fragili dopo un furto in casa propria si siano ammalate. Molti non fanno neppure denuncia affermando che non serve a nulla, personalmente non sono d'accordo, fare denuncia è un atto di vitalità e di fede verso chi opera giornalmente per tutelarci e poi descrivere quello che ci hanno portato via potrebbe anche farci tornare in possesso dei nostri valori, anche se ammetto che non è facile. Oltre ai ladri, esistono anche i ricettatori che spesso sono persone che sono al di sopra di ogni sospetto.
Chi non ha ancora subito un furto in casa, vive con una percezione maniacale di insicurezza altissima, chiude sempre la porta di ingresso con le mandate, anche quando è in casa, sobbalza ad ogni rumore sospetto e inconsueto, scruta spesso dall'occhio magico della porta per vedere chi sale e scende le scale, osserva spesso il traffico nella strada , mura una cassaforte in punti nascosti della casa,nasconde le chiavi dell'auto, si alza ad ore strane la notte per dare una occhiata in strada, installa dei sistemi di allarme o delle videocamere collegate con il cellulare, chi può,compra un'arma e chi non ha il porto d'armi si munisce di un coltello o di un nodoso bastone, alcuni svitano i fischer che tengono i tubi delle grondaie alla facciata del palazzo nella speranza di fare precipitare chi tenta di usarle per arrampicarsi o comprano un cane da guardia.
Certo, questa non è una bella vita ma è esattamente quello che stiamo vivendo, per quanto mi riguarda dormo con un coltello da parà sotto il cuscino, sto in tensione continua e guardo e osservo tutto quello che accade intorno a me, faccio spesso visita ai vicini, soprattutto quelli anziani e soli e impiego un pezzo della mia giornata a vivere il mio quartiere che conosco bene cercando di notare cose che escano dalla normalità.

Peso 75 Kg., sono abbastanza coraggioso e molto, molto incazzato, quindi se sono cosciente e orientato e trovo un ladro in casa mia...o lui ammazza me oppure io ammazzo lui e nessuno lo trova più, neppure i suoi parenti stretti.

Roberto Nicolick

domenica, marzo 12, 2017

La denuncia di Eugenio Giglio

Giglio Eugenio

Eugenio Giglio è il segretario dell'Ente Comunale di assistenza di Savona, ovviamente come la maggior parte dei funzionari di enti di Stato, è Fascista e in seguito aderisce alla R.S.I. Come tanti, anzi tantissimi, pagherà duramente la propria scelta. Giglio è sposato con Letizia Guerci e ha due figli, Nell'aprile del 1945, è costretto come tanti, a lasciare la sua abitazione in Savona per evitare ritorsioni da parte dei Partigiani comunisti. Con la famiglia si reca ad Alessandria dove si stabilisce temporaneamente, in attesa che la follia omicida finisca. Partendo lascia la casa di proprietà in cui abitava, un appartamento di 4 vani, completamente ammobiliato. Dopo il 25 aprile 1945, Eugenio viene arrestato dai partigiani, trattenuto per nove mesi in un campo di prigionia e poi prosciolto da ogni accusa. Ma, si sa che le spoliazioni di beni di proprietà iniziavano a tamburo battente. Dopo qualche settimana dalla partenza, egli apprende che la sua casa, in Via Pisa al civico 3, di sua proprietà, è stata completamente svuotata dai suoi mobili che sarebbero stati concessi a “famiglie bisognose” non meglio precisate e che nella sua casa, ora, ci abita un agente della polizia ausiliaria partigiana, il quale ha avuto in assegnazione casa di altri dal Comando della 2° Zona Forze Partigiane.
Quindi, alla faccia della cosiddetta liberazione, il povero Eugenio Giglio è senza un lavoro, espropriato della sua casa e derubato dei mobili, deve inoltre provvedere alla moglie ai due figli ed a sé stesso, si prospetta per il poveretto e per la sua famiglia una vita di grande miseria. E' triste e commovente al tempo stesso, la richiesta che egli rivolge al Procuratore di Stato, da lui firmata e dalla moglie, in cui racconta quello che gli è accaduto nella speranza di ritornare in possesso del giusto.
Nell'esposto egli afferma anche di essere grande invalido di guerra e di aver presentato analoga richiesta di avere Giustizia alla questura di Savona ma di non aver ricevuto alcuna risposta, niente di cui stupirsi, in effetti la Questura di Savona era inquinata dalla presenza di decine di partigiani comunisti, la famigerata polizia ausiliaria , gli stessi che requisivano i beni immobili ai fascisti o presunti tali e se li assegnavano tra di loro, il cerchio si chiudeva così, insomma un conflitto di interessi si potrebbe affermare.


Roberto Nicolick




l'omicidio di Silvio Poggi

L'omicidio di Silvio Poggi
Sono le 22 da poco passate del 21 maggio 1945 a Vado Ligure, tempi bui e oscuri, in cui vigeva il Far West, Silvio Poggi, classe 11886 esce da un bar dove si è soffermato con alcuni amici a bere un bicchiere di vino e a fare quattro chiacchere. Qualcuno lo ferma e lo porta in periferia di Vado Ligure, poi più nulla, il suo cadavere viene trovato in Via Sabazia, una strada interna poco frequentata a quell'ora. Qualcuno lo ha colpito con due colpi di arma da fuoco senza ucciderlo sul colpo infatti il suo corpo viene trovato ad una ventina di metri da una larga chiazza di sangue. Evidentemente Poggi colpito a morte, si è trascinato a breve distanza per poi morire. Anche in questo caso, si tratta delle solite vendette a fine guerra. Poggi infatti non ha mai nascosto le sue simpatie per il regime Repubblicano e quindi solo per questo orientamento politico ha pagato con la vita.
Roberto Nicolick


Il ferimento a morte di Francesco Dante

Il ferimento a morte di Francesco Dante
Sono le 23 del 24 maggio 1945, un'ora in cui la gente se ne sta in casa senza uscire visti i tempi, ma qualcuno bussa alla porta della famiglia Dante, in Via Dei Del Carretto a Savona, nel quartiere di Villapiana a pochi passi da Piazza Bologna.
In casa vi sono Francesco Dante di anni 52, sua moglie Barbarina Genta sua coetanea e soprattutto il figlio Carlo un bravo giovane appena ventenne, con simpatie per il Regime Repubblichino.
Alla porta si presentano tre persone armate, che si qualificano come appartenenti alla polizia ausiliaria partigiana.
Senta tanti giri di parole, i tre vorrebbero portare via con loro il giovane Carlo. Francesco che ha sentito di tanti omicidi e di tante sparizioni capitate in quel periodo, capisce subito che si tratta di una esecuzione sommaria e che se il figlio esce di casa con quei tre loschi personaggi non farà più ritorno fra di loro. Nasce una discussione che si trasforma in una colluttazione tra i tre sedicenti agenti e Francesco e Carlo che oppongono una fiera resistenza. I due dante sono vigorosi e mettono in difficoltà i tre uomini armati, al che uno dei tre estrae una pistola e spara al padre, poi gli aggressori si danno alla fuga. Carlo soccorre il padre e lo fa portare all'ospedale, è in gravi condizioni con una grave ferita al torace. I medici che lo soccorrono fanno quello che possono ma dopo pochi giorni di sofferenza il povero Francesco muore nel suo letto d'ospedale. Al figlio non rimane altro che fare denuncia e piangere per la morte di un padre che ha donato la sua vita per salvare quella di un figlio.
Roberto Nicolick



Luigi Leopoldo Rossi

Leopoldo Luigi Rossi
“il fascista che galleggiava nel porto”
Questa storia terribile mi è stata raccontata da una vecchia signora che ricorda quello che accadde in città. Il dottor Rossi era un farmacista, una persona per bene, tranquilla, aveva aderito alla R.S.I. Iscrivendosi al Partito Fascista Repubblicano, tutto a livello politico pur senza indossare l'uniforme e continuava a svolgere il suo lavoro di farmacista fino all'ultimo, senza paura per sé.
Poi nell'aprile del 45, il vento della follia attraversa Savona, Luigi Leopoldo viene riconosciuto per strada e inseguito da un gruppo di persone.
Riesce a fuggire e raggiunge l'ospedale, sale sino al tetto e si barrica dentro l'orologio dell'ospedale che domina piazza Giulio, qui viene preso e linciato senza pietà, trascinato sino in strada e poi da lì, sino alla darsena vecchia del porto di Savona, qualcuno gli spara, poi il cadavere della vittima è gettato in mare, proprio nello specchio acqueo antistante la Torretta Leon Pancaldo e lasciato a galleggiare per alcune ore senza che nessuno si preoccupi di ripescarlo.
Alle 10,30 del mattino qualcuno provvedeva a ripescarlo sotto gli occhi di decine di curiosi venuti a vedere il “fascista Rossi” che galleggiava nel porto. Queste cose accadevano a Savona in quegli anni.

Roberto Nicolick

sabato, marzo 04, 2017

Il sacco della casa di Vittoria Bernadotti

Il sacco della casa della Signora Vittoria Bernadotti

Visto il tempo brutto e burrascoso ho implementato le mie ricerche di archivio e mi sono imbattuto in una vicenda di ingiustizia e di egoismo. Il fatto in tutta la sua crudezza è descritto dalla vittima, la Vedova Vittoria Bernadotti, nata a Volpedo nel 1900, e già residente a Savona in Via Verdi n° 34. in esposto al Procuratore del Regno a febbraio del 46.
Vittoria è vedova di un ufficiale di fanteria, reduce ed invalido della 1° G.M., a nome Ernesto e assegnato alla 1° Coorte della 2° Legione Milizia Contraerea e successivamente deceduto in zona di guerra per cause di servizio.
Da sola deve provvedere a due figli, entrambi minori, vista la situazione nel 44, decide di unirsi alla sorella e alla madre residenti a Tortona. Pertanto subaffitta l'appartamento ad una donna di Savona, Gina Noè e accantona i mobili di sua proprietà in una stanza dell'appartamento, in attesa di recuperarli in seguito.
Ma, nell'aprile del 45, tre partigiani si presentano all'appartamento in Via Verdi, forzano la porta della camera e asportano tutti il mobilio e caricandolo su un camion. Dopo qualche mese Vittoria è avvisata della cosa e giunge a Savona per avere un chiarimento.
La subaffittuaria, visibilmente spaventata per l'effrazione, le dice che i partigiani nel corso della asportazione dei mobili avevano giustificato la cosa , affermando che lei era una delatrice fascista e che il figlio Carlo era addirittura nelle Brigate Nere.
Tutto ciò era solo una semplice falsità, in quanto lei non si era mai occupata di politica e il figlio Carlo era un minore di anni 14 pertanto non avrebbe potuto, neppure volendolo fare parte delle BB.NN.
Il ragazzino per concorrere al magro bilancio della famiglia faceva il dattilografo presso la Federazione Fascista per 500 lire mensili.
Tutto ciò non giustificava il contegno di questi tre partigiani che hanno tolto tutto quel poco che era rimasto alla Vittoria Bernadotti rimasta vedova e sola.
La questura di Savona a richiesta della Vedova affermò di non poterla aiutare, però lei seppe in seguito che i mobili dopo un breve periodo in Via Solari al civico 2, erano stati suddivisi presso diverse famiglie che evidentemente godevano delle simpatie dei partigiani.
Quello che più rattristò la signora fu il fatto che oltre ai mobili anche la cassetta di ordinanza del defunto marito era sparita e con essa , l'uniforme, i documenti e la sciabola. Ovviamente il maltolto non tornò mai nelle mani dei legittimi proprietari.


Roberto Nicolick










mercoledì, marzo 01, 2017

l'attentato al fidanzato di Rosa Amodio

Rosa Maria Amodio è una giovanissima maestra elementare, poco più che ventenne aderisce al Corpo delle Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana, e questo suo gesto la condanna a morte . Su suggerimento di amici e parenti, dopo il 25 aprile 1945, decide di allontanarsi prudentemente da Savona per evitare le solite gesta degradanti che i partigiani comunisti riservavano alle ragazze appartenenti al corpo delle ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana : il taglio dei capelli e la verniciatura di rosso del capo, in piazza davanti ad una folla di bestie inferocite e anche, in luogo più isolato, lo stupro di gruppo, spesso secretato da una pallottola alla nuca.
Rosa Amodio, riesce con il suo allontanamento da Savona ad evitarsi nell'immediato questa sorte, poi appena il peggio passa, torna a Savona e inizia ad insegnare in una scuola elementare.
E' una ottima insegnante, i suoi scolari ne sono contenti, la direzione pure, ma i partigiani comunisti non dimenticano e attendono con odio omicida l'opportunità di " giustiziare " Rosa Maria.
La ragazza, coraggiosa e determinata, non sospetta nulla, ma i suoi carnefici la pedinano in attesa di poter agire e infatti l'opportunità si presenta il 14 agosto 1947, a due anni di distanza dalla fine della guerra. La ragazza in bicicletta, sta percorrendo il tratto di strada che congiunge Zinola a Savona, una manciata di chilometri , alla altezza del quartiere delle fornaci, notoriamente comunistizzato, nel tardo pomeriggio intorno alle ore 18, viene avvicinata da tre persone, una delle quali impugna una pistola automatica calibro 22, munita di silenziatore, un arma che verrà usata molte volte dai killer rossi per eliminare tante persone, colpevoli di non essere comuniste : vanno ricordati fra gli altri, Wingler Giuseppe aderente alla Repubblica Sociale Italiana, Lorenza Ernesto ufficiale delle Brigate Nere, Amilcare Salemi commissario di Pubblica Sicurezza inviato a Savona per indagare.
La pistola in alcuni casi era impugnata e coperta da un quotidiano piegato che la celava alla vista dei pochi passanti. La ragazza ferma la bicicletta e affronta i tre assassini da lei sicuramente riconosciuti, che senza alcuna pietà , la ammazzano, vigliaccamente, con una sequenza di colpi e poi la finiscono con un ultimo colpo alla nuca.
Nessuno vide, nessuno parlò, nessuno sentì nulla, in un quartiere come quello decisamente comunista e dominato da una banda di ex partigiani comunisti che imponevano la loro legge annullando la civile convivenza.
L'arma non fu mai ritrovata, e un processo farsa negli anni successivi, portò alla condanna di un mitomane che si spense in carcere di tubercolosi, mentre i mandanti e i responsabili vivevano in libertà tra onori e prebende politiche nella città di Savona.
L'unico che non si piegò al tragico destino della morte della Rosa Maria Amodio fu il suo fidanzato, Lorenzo Calzia, il quale da solo proseguì nelle indagini ma qualcuno gli imbottì la porta di casa con del tritolo per convincerlo a desistere dalle sue ricerche a carattere personale.
Evidentemente si era troppo avvicinato agli assassini della Rosa Maria, noti come la banda della pistola silenziosa.
Qui di seguito pubblico i rapporti e le deposizioni originali, rese dal fidanzato di Rosa, nelle ore e nei giorni seguenti all'attentato che subì per tappargli la bocca.
Roberto Nicolick