mercoledì, settembre 30, 2009

LE BOMBE DI SAVONA


Le bombe di Savona: un fenomeno antico

Quando qualcuno fa riferimento alle “bombe di Savona” ,in genere per disinformazione parla delle cosiddette bombe “fasciste” che sono esplose nel periodo che va dal 74 al 75. In realtà questo è solo una parte della storia esplosiva che ha interessato la città.
Savona, evidentemente, è una città “bombarola”, non nuova a questo fenomeno, infatti altre e più numerose bombe esplosero a Savona, in tutti i formati e in tutte le tipologie, in un periodo che va dal 1946 sino al 1948, i morti e i feriti furono numerosi.
Una boma a mano, di tipo militare per fare un esempio, fu lanciata all’interno del cortile del carcere di S. Agostino nel momento del quarto d’ora d’aria per eliminare dei detenuti che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana, in questa occasione venne ridotto a brandelli un ufficiale “repubblichino” tale Lorenza, altre bombe detonarono in vari punti di Savona per intimidire, per punire o per “liquidare” personaggi che si opponevano allo strapotere dei partigiani comunisti, che a Savona facevano il bello ed il cattivo tempo.
In genere i dinamitardi usavano il trinitrotoluene, meglio noto come tritolo o TNT un esplosivo molto stabile e facilmente reperibile, piazzato acanto alle porte delle abitazioni delle persone che si volevano “ammorbidire”.
Anche gli esercizi pubblici gestiti da persone decisamente anticomuniste, erano un bersaglio preferenziale. Questa e’ una storia realmente accaduta a Savona nel periodo del novembre 1946, periodo storico molto tumultuoso.
. L’appuntato dei Reali Carabinieri Ernesto Cavallo, è un uomo tosto e indomito, Piemontese vecchio stampo di saldi principi , nato nel 1895 a Castel Rocchero un piccolo centro del Piemonte rurale, entrato giovanissimo nell’Arma ad appena 17 anni, presta servizio nel corso della Grande Guerra al fronte.
Sua moglie Anna Cervetto, nell’intermezzo dei due conflitti, con i risparmi della famiglia, acquista un piccolo immobile a piano terra, nell’angiporto di Savona, in Piazza Pippo Rebagliati 1/1 e vi apre un bar, che visto il traffico di marittimi e operai portuali, “i camalli”, fornisce da vivere alla famiglia .
Nel 1940 l’Italia entra ufficialmente in guerra e l’Appuntato Ernesto Cavallo viene richiamato e inviato dall’Arma alla Caserma di Alice Bel Colle, la moglie e i due figli, lo seguono, chiudendo il locale pubblico.
Nel basso Piemonte, Ernesto Cavallo, arriva spesso a contatto con la realtà della guerra, con lo sbandamento dell’otto settembre 1943, con le ruberie e uccisioni che seguirono il 25 aprile 1945, però si mantiene fermo e continua a fare il suo dovere: come Carabiniere, al di sopra delle parti, tutela la gente onesta che abita il territorio a lui affidato, spesso affrontando sia i Tedeschi che i partigiani comunisti che volevano esercitare una “gramsciana “ egemonia sul territorio.
Cavallo, uomo duro e poco incline alla paura, la spunta sempre su questi personaggi e diventa un punto di riferimento per i contadini onesti della zona che con la sua presenza vivono una relativa tranquillità..
La guerra termina, e quelli che possono tornare a casa lo fanno, l’appuntato dei Carabinieri Ernesto Cavallo, si congeda dall’Arma e con la moglie Anna Cervetto e i due giovani figli Irene e Umberto torna a Savona, lasciando la piccola caserma di Alice Bel Colle , in provincia di Alessandria., dove ha prestato servizio negli anni duri della seconda guerra, meritandosi la stima ed il rispetto delle persone per bene che ha protetto dai predoni con il fazzoletto rosso. La sua prospettiva lavorativa è quella di riaprire a Savona il bar, visto che i muri sono di proprietà della moglie Anna Cervetto.
Tornato nella rossa Savona, da civile, Ernesto Cavallo a 51 anni, trova una realtà di gente impaurita e terrorizzata, chi gestisce il potere è la Polizia Ausiliaria Partigiana. Nelle notti e non solo, avvengono esecuzioni sommarie , all’alba agli angoli delle strade o nel piazzale del Cimitero vengono rinvenute decine di corpi di morti ammazzati e nessuno fiata, nella speranza che il terrore rosso finisca un giorno o l’altro
Una brutta sorpresa attende la famigliola :i locali del suo ex bar, sono stati espropriati di fatto e adibiti a mensa di una delle tante sezioni del Partito Comunista.
Alle giuste rimostranze di Ernesto Cavallo, gli viene risposto dal Ras locale del Partito, che mentre “lui era a fare il lacchè dei fascisti in Piemonte” a Savona i partigiani combattevano per la Libertà, quindi i locali rimanevano in uso ai “combattenti per la libertà” che ne avevano il diritto sacrosanto.
Ernesto Cavallo, non si lascia intimidire, con calma e metodo, inizia ad agire usando le Leggi che conosce bene, va da un Magistrato, muove le sue vecchie amicizie nell’Arma e dopo appena un mese, riesce a liberare i locali, estromettendo i personaggi che se ne erano impossessati in modo fraudolento. Lo arreda nuovamente, con bancone e sgabelli, acquista specchi e liquori e il bar rinasce, viene battezzato Bar Scandinavia.
L’esercizio rifiorisce e riacquista l’avviamento commerciale, viene frequentato dai marittimi, dai “camalli” , si apre anche una sala dedicata agli ufficiali. Il Bar Scandinavia, fa affari.
Ma qualcuno non ha dimenticato chi si ribella ai loro metodi e alle ore 00,50, del 28 novembre 1946, il solito gruppo di criminali, piazza dei tubi di tritolo agli ingressi del locale e li fa esplodere. Il boato è tremendo, gli infissi e tutto l’arredamento del bar, i vetri e i serramenti del caseggiato vanno in pezzi. Ernesto Cavallo e la sua famiglia che abitano al piano sovrastante il bar sono vivi per miracolo.

Ho parlato del fatto con l’unica superstite della famiglia Cavallo, Irene ,figlia di Ernesto , ora ha 87 anni, ma è ancora lucida e ricorda con precisione il fatto e gli antefatti: “ci svegliammo terrorizzati, nel cuore della notte, per il boato, la casa aveva tremato, gli infissi erano stati scardinati dallo spostamento d’aria,le lenzuola erano coperte da frammenti di vetro e da calcinacci, afferrammo i vestiti e scendemmo di corsa in strada e potemmo vedere il disastro capitato : il locale era praticamente vuoto, l’arredo era stato risucchiato fuori, niente più porte, il pesante bancone ribaltato, tavolini, sedie e quant’altro sparsi a pezzi in strada, le poche bottiglie intere galleggiavano nello specchio acqueo della darsena vecchia del porto .La gente attorno ammutolita, aveva capito tutto, ogni parola era inutile.
Successivamente vennero i Carabinieri e il Magistrato per interrogarci, le indagini ovviamente non portarono a nulla come molte inchieste in quel periodo, il clima omertoso del dopo 25 aprile 1945 a Savona condizionava tutto e tutti.
Dopo pochi giorni, mio padre che era un Piemontese duro, si tirò su le maniche, ripulì il locale, lo svuotò dai detriti, e dopo essersi indebitato sino al collo, riaprì il Bar Scandinavia più bello di prima e lo tenne per molti anni mantenendoci e permettendoci anche di studiare. Sapevamo benissimo chi erano i mandanti e gli esecutori e non eravamo i soli a conoscerli per nome e cognomi. Mio padre aveva intenzione di andare a prenderli uno per uno, ma visto che aveva due figli ancora in giovane età e che era una persona per bene, desistette, e ora i criminali sono tutti morti, compreso lui.”
Ernesto Cavallo, che mori’ a 88 anni, ebbe dai suoi due figli, Irene e Umberto, cinque nipoti, che vennero educati al rispetto delle idee e soprattutto al culto della Libertà individuale, uno di questi nipoti sono io, e devo ringraziare quel vecchio Carabiniere Piemontese, per le idee di Libertà che fece nascere in me , attraverso racconti di cose terribili accadute dopo il 25 aprile 1945 che sembrano uscite da un oscuromedio evo.

Roberto Nicolick

sabato, settembre 26, 2009

COERENZA


«Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù»
Giorgio Bocca , nel 1938

venerdì, settembre 25, 2009

lunedì, settembre 21, 2009

onore ai caduti in Afghanistan parte 3

VIA FRUGONI
















Il degrado eterno di Via Frugoni a Savona

Il turista o il viaggiatore che arriva con il treno a Savona – Mongrifone, si trova , appena sceso dal treno, un bruttissimo biglietto da visita della Città di Savona: Via Frugoni o come appare sulla toponomastica arcaica Via Dei Frugoni, una via larga circa quattro metri, in asfalto, e lunga trecento metri, che collega il piazzale della stazione ferroviaria , Piazza Aldo Moro, con Corso Agostino Ricci.
Da anni questa antica via savonese, sprofonda nel più assoluto degrado, nonostante su di essa si affaccino antiche case, i grattacieli delle Ammiraglie e l’Agenzia del Territorio, ex Catasto, non gode della buona memoria della amministrazione comunale di Savona.
Appare come una Via fantasma, gli ultimi cento metri, terra di nessuno, sono sbarrati da transenne ai pedoni che avessero la malsana idea di percorrerla, sono diventati una giungla impenetrabile, l’asfalto, sconnesso in più punti, è invaso da alti cespugli, sui lati crescono indisturbati alberi alti quattro o cinque metri, mucchi di vecchi rifiuti sono sparsi per la lunghezza della via, le antiche crêuze che la intersecano sono anch’esse invase da alta e disordinata vegetazione e ricoperte in più punti di rifiuti e mobili abbandonati.
Le case che si affacciano sul tratto abbandonato di Via Frugoni sono cadenti e in pieno sfacelo, le loro finestre sembrano occhiaie vuote di un teschio da cui scende disordinata vegetazione, le grondaie sono sfondate e divorate dal tempo, dalla ruggine e soprattutto dalla incuria, con i serramenti semi distrutti, invase da topi e piccioni che le hanno elette a loro dimora, qualcuno ai lati vi ha sistemato un allevamenti di oche, raggiungibile camminando in una giungla fitta ed impenetrabile.
Purtroppo questa situazione si protrae da anni, forse un decennio nonostante molti abbiano chiesto un ripristino di questa antica via savonese, Via Frugoni potrebbe essere recuperata ai cittadini con una piccola spesa e con una successiva ordinaria manutenzione, le case che vi sorgono potrebbero essere almeno messe in sicurezza, invece la strada è sbarrata dalla sua metà sino all’ingresso in Corso Agostino Ricci, non e’ fruibile alla gente che potrebbe abbreviare la strada per raggiungere la Stazione Ferroviaria e l’Oltre Letimbro, senza contare che a circa venti metri sorge anche una struttura scolastica, frequentata da bambini in età scolare.
Via Frugoni è una zona grigia della Città di Savona, evidentemente non è terreno speculativo e a qualcuno sta bene che rimanga così, abbandonata a tutti tranne che al degrado e alla vegetazione.

Roberto NICOLICK

giovedì, settembre 17, 2009

PREGHIERA

Signore Gesù, ti preghiamo per i nostri Militari, caduti nell’adempimento del loro dovere nei cieli, in terra, sui mari.Per il loro supremo sacrificio, per la fede, la speranza e l’amore, che li animarono nel servire la Patria, dona a loro la vita eterna, a noi il conforto, all’Italia e al mondo la prosperità e la pace.Fa’, o Signore della vita, che il nostro Popolo accolga il loro esempio, e sia sempre degno del loro sacrificio, nella fedeltà delle nobili tradizioni, e nell’amore ai valori umani e cristiani della nostra storia.
Amen

ATTACCO AI PARA' DELLA FOLGORE A KABUL




E' stata un'autobomba a provocare la strage degli italiani a Kabul. Secondo una prima ricostruzione, un'auto carica di esplosivo é scoppiata al passaggio del primo mezzo del convoglio, uccidendo tutti e cinque gli occupanti. Danni gravi anche al secondo Lince: uno dei militari a bordo è morto e altri quattro sono rimasti feriti. Questi ultimi non sono in pericolo di vita.I militari si trovavano in una strada centrale di Kabul quando si é verificata l'esplosione.I sei soldati italiani morti appartengono al 186/mo reggimento della Folgore che erano di stanza a Kabul dove ci sono circa 450 militari italiani. Lo ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. I morti sono quattro caporal maggiore, un sergente maggiore e il tenente che comandava i due Lince.Uno dei sei militari italiani uccisi sembra fosse appena arrivato a Kabul, probabilmente oggi stesso.


fonte ANSA

giovedì, settembre 10, 2009

11 SETTEMBRE: NON DIMENTICHIAMO







NON DIMENTICHIAMO



BARBAGALLO


IL CIMITERO DEI CAVALLI DI QUILIANO: UN POSTO OVE IMBUCARE I DESPARECIDOS


“Il cimitero dei cavalli”
Dove finivano i desparecidos prelevati dai partigiani comunisti

Nel commettere uno o più omicidi, l’esigenza primaria ,per non essere scoperti, è quella di fare sparire il corpo del reato, cioè il cadavere, la mafia scioglierva il corpo dell’ucciso nell’acido, nella guerra tra gang negli Stati Uniti si buttava il morto alla foce del Fiume Hudson dopo avergli immerso i piedi in un blocco di cemento, alcuni rapiti dall’anonima sequestri Sarda sono spariti divorati dai maiali, tanto per citare alcuni esempi.

In provincia di Savona, dopo il 25 aprile del 1945, visto il superlavoro delle colonne di fuoco comuniste, si prospettò lo stesso problema, soprattutto nel triangolo della morte che comprendeva i comuni di Savona, Quiliano e Vado Ligure, dove le sparizioni di fascisti Repubblicani e soprattutto persone benestanti furono numerose: da qui l’esigenza di trovare un luogo pratico e sicuro dove poter fare sparire i cadaveri degli assassinati senza dare luogo a incresciosi ritrovamenti successivi e ancora più incresciose inchieste giudiziarie che potevano nuocere all’immagine dei partigiani comunisti.

Era necessario trovare un luogo baricentrico rispetto ai vertici del triangolo rosso della morte, un luogo fuori mano ma non troppo, raggiungibile però celato alla vista, vicino ai campi di prigionia che i partigiani comunisti, crearono subito dopo il 25 aprile 45 e che gestivano a Segno e Legino. In quest’ultimo per esempio si giunse a circa 300 prigionieri, numero che i membri della polizia partigiana , spesso e volentieri ridimensionavano con le esecuzioni sommarie e, da qualche parte i prodotti del loro serio ed impegnativo lavoro doveva essere smaltito.
Nel campo di Legino soggiornò anche, per poco, la povera tredicenne Pinuccia Ghersi e pure la famigli Biamonti, qualche giorno prima di sparire ovviamente.
In effetti i partigiani comunisti avevano trovato un sito idoneo, con le specifiche necessarie, dove nascondere , nei secoli dei secoli, i morti ammazzati, senza dover neppure scavare una fossa con il badile o senza neppure farla scavare, com’era consuetudine al morituro.
Il luogo era a poche decine di metri dal Cimitero di Zinola ( Savona ), vicino ai campi di prigionia dove stavano per l’ultimo soggiorno i prigionieri definiti fascisti e quindi da liquidare.
I partigiani comunisti disponevano anche di un camioncino preso a nolo da una ditta di Savona, la Ditta Minuto Noleggi, con cui trasportare i prigionieri vivi sino al luogo dell’esecuzione e poi cadaveri. E con burocratica efficienza annotavano i viaggi e i pagamenti del noleggio.
Il nome di questo posto lugubre era “ cimitero dei cavalli”, ma ovviamente era solo un soprannome.

Nonostante i tempi pericolosi e il clima arroventato, i Carabinieri fecero delle indagini su alcune voci che circolavano sulla probabile esistenza del cosiddetto “ cimitero dei cavalli” ed appurarono , innanzi tutto che non era una favola ma la realtà per quanto terribile, poi si riuscì a stabilire la sua collocazione, ma il triste della vicenda e’ che non fu mai ispezionato al suo interno. Venne stilato un preciso e circostanziato rapporto a firma del Maresciallo Oreste Anzalone.
Il posto era situato sullo spiazzo a sinistra del Camposanto di Zinola, Savona, in Via Quiliano, in un appezzamento di terreno destinato all’interramento delle carogne di animali.
Su tale appezzamento sorgeva una vecchia fabbrica di concimi, da tempo abbandonata, e a circa 30 metri dall’ossario del Cimitero, esiste tuttora, entro il perimetro della vecchia struttura industriale, un locale sotterraneo, già adibito a concimaia, che nel periodo anteriore al primo conflitto mondiale, ricevette rifiuti alimentari, merci guaste, carogne di animali affetti da carbonchio, ecc. da alcune mappe catastali le sue dimensioni appaiono di m. 14 per m. 5 per m.8 ( per una cubatura di mc. 56 ) . Il locale con le pareti rivestite di pietra, veniva riempito di volta in volta, e il materiale organico in esso versato, veniva eliminato con i vari processi putreffativi.
La chiusura è assicurata da due grosse botole coperte da pesanti coperchi squadrati, nel 1950 il Comune di Savona ne ha vietato l’uso. Negli anni 50, dalle botole emanava un lezzo insopportabile, ed e’ facile capire il perché. Va anche detto che non si provvide alla rimozione del materiale in esso stivato.
Da rapporti dei Carabinieri emerge che nei giorni successivi al 25 aprile 1945, elementi sconosciuti, nottetempo, gettarono nel locale sotterraneo, diversi corpi di persone soppresse , probabilmente dopo giudizio sommario e di cui si voleva tenere celata la morte.
Gli unici dati certi, testimoniali, si è accertato che in almeno tre occasioni una decina di salme furono gettate nella camera sotterranea, con l’aiuto coatto dei guardiani del cimitero, obbligati dagli stessi sconosciuti ad attendere alla operazione. Le salme in quelle occasioni sanguinavano copiosamente, nessun elemento utile alla identificazione dei morti è stato fornito dai presenti. Anzi, in una occasione i terrorizzati necrofori, assistettero ad una sparatoria tra gli sconosciuti che avevano portato lì le salme.
Uno degli uomini armati cadde colpito a morte e ancora rantolante, fu fatto rotolare dai suoi ingrati “compagni di merende” nella botola, assieme a quelli che magari aveva assassinato poco prima.
Fare una stima dei corpi delle persone soppresse contenute dal locale sotterraneo, e’ decisamente impossibile.

E’ curioso il fatto che il Comune di Savona , nel 1950, avuto sentore che c’era qualcosa di strano nel locale sotterraneo, ne vietò l’uso e altra cosa più strana è che nessuna Autorità procedette all’ispezione e allo svuotamento successivo.

La realtà è che decine di corpi, oramai ridotti a mucchietti di ossa, giacciono in quel pozzo, coperto da due botole, senza avere il conforto di una preghiera, di un fiore, in mezzo a scheletri di cavalli e altri armenti morti di carbonchio, e nessuno sente il bisogno di scoperchiare questa orribile fossa comune e dare Cristiana sepoltura a queste povere persone, colpevoli solo di far nascere odio omicida ed intolleranza politica da chi predicava la liberazione ma che nei fatti non amava la Libertà.


Roberto NICOLICK

giovedì, settembre 03, 2009

Andrea Barbagallo


Il Maresciallo Andrea Barbagallo
Messo alla gogna, linciato e trucidato nella pubblica piazza
Il 26 aprile 1945

Chi era Andrea Barbagallo ? Era un onesto e coraggioso Maresciallo dei Carabinieri Reali di 44 anni, nativo di San Giovanni di Giarre ( CT) ,in comando alla locale Caserma di Albisola Superiore negli anni che andavano dal 39 al 44, con un notevole curriculum di repressione verso il mercato nero e soprattutto verso il traffico di armi, attività molto fiorente in quegli anni, visto quello che si andava preparando.

Il Maresciallo Barbagallo e’ molto attivo, forse troppo per quel particolare periodo storico, riceve lettere anonime , molto esplicite, in cui lo si minaccia di morte per il suo troppo zelo e lo si invita a desistere dalla sua attività di Carabiniere ligio e attaccato al dovere.
A causa della situazione di alto rischio a cui è sottoposto, dopo un breve ricovero in ospedale militare, Barbagallo si dimette dall’Arma e viene quindi collocato in pensione.

Il Barbagallo deve far quadrare i conti con una piccola pensione e con il fatto, molto gravoso, che deve mantenere ben due nuclei famigliari, il proprio composta dalla coniuge e da due ragazzi e quello del fratello, in quel momento prigioniero in Germania , composto dalla cognata e da due altri ragazzi. Quindi l’ex Maresciallo, manteneva sei persone, e per meglio dare da vivere a questi suoi famigliari, decide di svolgere l’attività di vendita come ambulante.
I tempi, nel frattempo precipitano, siamo all’aprile del 45, gli squadroni rossi della morte imperversano con le vendette personali, fanno centinaia di morti, molte le sparizioni di persone spesso innocenti, ma appena sfiorate dal sospetto di essere vicine alla Repubblica Sociale oppure troppo benestanti e con beni che dopo la loro sparizione cambiavano di proprietà.

Basta poco per essere prelevati, interrogati e sparire…cosa che puntualmente accade a Barbagallo, esattamente il 25 aprile, due uomini con il mitra a tracolla, si presentano a casa sua e lo “prelevano”, viene condotto presso il Comando della famigerata polizia partigiana comunista, accusato di essere un collaboratore dei fascisti, picchiato brutalmente.
Il poveretto pesto e contuso, tenta di spiegare che egli era un maresciallo dei Carabinieri, e che non dipendeva dai fascisti o dai Nazisti, ma solo ed unicamente dal Comando della sua Arma. Legato per i polsi dietro la schiena, viene portato a Savona, presso il Comitato di Liberazione, sottoposto ad altro interrogatorio, e quindi stranamente rilasciato.
Lo sventurato, sollevato nell’animo, torna a casa, ma si tratta solo di una crudele messa in scena, degna del migliore, o peggiore, metodo di Staliniana memoria.
Alla mattina, i soliti giannizzeri rossi, bussano alla sua porta e di fronte ai suoi terrorizzati famigliari, lo riprendono, e questa volta lo trascinano nella pubblica piazza di Albissola Superiore dove inizia il suo Calvario.
Andrea Barbagallo, viene indicato alla gente come una spia fascista, schernito e malmenato, gli viene attaccato un cartello al collo con scritto “ SPIA DEI FASCISTI” e trascinato a calci e pugni per la cittadina.
La gente viene sollecitata a colpirlo, schiaffeggiarlo, a sputargli addosso, cosa che accade con terribile efficienza, tutto pesto, sanguinante ed accasciato riceve dai suoi carnefici e dai più scalmanati ,violenza ed umiliazioni. Lui che era solo un fedele servitore dello Stato, che arrestava i ladri ed i brigati, in quel momento pagava per la sua onestà e correttezza di fronte a personaggi mille volte peggiori di lui.

Come per Il Cristo, picchiato e torturato, qualcuno dei caporioni rossi, decretò la morte del povero Barbagallo, e incitò la folla ad ucciderlo, cosa che non avvenne, infatti, anche nei momenti più bestiali, l’istinto omicida può anche abortire sul nascere e forse la gente ebbe un barlume di pietà e di rispetto per quest’uomo.

Ma i partigiani rossi non volevano lasciarsi sfuggire la loro vittima, dovevano dare dimostrazione di “geometrica potenza”, e così accadde: un partigiano comunista, poi identificato come T. S., dopo aver ulteriormente sollecitato, inutilmente, la folla a linciare il poveretto, imbracciava il mitra e urlando “ cosa aspettate a finirlo, avete paura ??…allora lo uccido io “ gli esplodeva contro una raffica uccidendolo e lasciandolo sul selciato in una pozza di sangue. A questo punto l’assembramento si sciolse, lo spettacolo era finito e tutti se ne andarono a casa.
Qualcuno disse che si trattò di una bravata sanguinaria, tuttavia l’assassino del Barbagallo fu identificato e tratto in arresto in seguito dai Carabinieri, ammise di aver ucciso l’ex maresciallo, ma di averlo fatto per ordine del Comando della Divisione Partigiana Gin Bevilacqua, in quanto l’ucciso sarebbe stato una “Spia dei Fascisti”.

Per chiudere il cerchio e salvare dalle Patrie Galere l’assassino, con puntualità Svizzera, arrivò opportunamente un documento della Brigata Partigiana F. Colombo e controfirmato dall’ANPI di Savona, datato 30 aprile 1945, che testualmente affermava:

“…Questo Comando il 29 corr. ha arrestato l’ex Maresciallo dei Carabinieri Barbagallo Andrea perchè denunciato quale Spia Segreta e favoreggiatore dei Nazifascisti. Avendo l’accusato confessato e riconosciute le accuse mossegli e’ stato passato per le armi nel comune di Albissola Marina dove il Barbagallo esplicava la sua losca attività”
Il gesto disumano era quindi rubricato come atto di guerra e poteva rientrare nella amnistia del Ministro Togliatti.

Mai alcun documento fu falso, iniquo, disonesto e violento come questo.

Nei fatti, moriva immeritatamente, in questo modo, un uomo retto ed onesto, assassinato da un personaggio che , come risulta da rapporti dei carabinieri, aveva anche vestito diverse uniformi in diverse occasioni, prima come Brigata Nera, poi come Partigiano Comunista.
Nessuno volle testimoniare per paura di rappresaglie, molto frequenti in quel Far West, nessuno pronunciò, in pubblico, parole di condanna per l’accaduto, ma Andrea Barbagallo rimase nella memoria degli Albisolesi onesti come un buon Maresciallo dei Carabinieri buono con le persone per bene e inflessibile con i brigati e i predoni che poi, proprio per questo motivo, lo vollero fortemente uccidere.

Queste emerge dai documenti da me esaminati presso l’Archivio di Stato, visionabili da chiunque.

Roberto NICOLICK

martedì, settembre 01, 2009

L'BLIO NUOCE AI MORTI E AI VIVI


Perché l’oblio non cancelli il sacrificio, il nome , la memoria di tanti uomini , donne, ragazzi e ragazze che morirono “ dall’altra parte” quella dei “cattivi”.
Perché i nomi di coloro che furono uccisi tre volte :
da chi gli tolse la vita , da chi nascose la loro morte e da chi rinnegò la loro vita ,
restino a testimoniare l’atrocità della guerra civile

Cesare B Cairo Montenotte 13 agosto 1987 Questo omicidio non ebbe risonanza mediatica solo nella provincia di Savona ma anche a livello nazionale e non solo. Con questo delitto dai risvolti intricati, il piccolo centro della Valle Bormida assurse alla ribalta delle cronache nazionali. Fu una vicenda contorta e ingarbugliata, con chiari e scuri, con frequenti colpi di scena, dove tutto quello che sembrava come tale , in realtà non era come appariva, era come un teatrino in cui entravano ed uscivano attori sempre diversi con ruoli criptici. Una storia di sangue, di soldi e ovviamente di sesso, che coinvolse l’opinione pubblica con tutti i suoi numerosi protagonisti, offrendo all’occhio impietoso della gente una immagine, purtroppo veritiera, della piccola provincia, delle ipocrisie che nascono tuttora all’ombra dei campanili, delle storie extraconiugali che venivano nascoste ma che prosperavano e che si protraevano nel tempo spesso con un doloroso epilogo. Da questa vicenda si fece pure un film noir con Monica Guerritore come protagonista. Per una dei protagonisti della vicenda, forse la principale, si coniò un soprannome: la mantide di Cairo Montenotte, facendo riferimento all’abitudine dell’omonimo insetto femmina che uccide il partner maschio dopo il rapporto sessuale. Le vite di molte persone, coinvolte a vario titolo nelle indagini, furono rivoltate come calzini, molti particolari, soprattutto, intimi vennero messi in piazza e non solo nelle aule di tribunali. Ancora oggi, nonostante la conclusione giudiziaria con una colpevole condannata in via definitiva, molti dubbi sussistono , soprattutto nella gente del posto che conosceva benissimo i protagonisti della vicenda. La storia ebbe inizio con una improvvisa scomparsa di un uomo, Cesare B, classe 1931, noto personaggio e notabile della Valle Bormida, consigliere comunale di Cairo Montenotte, facoltoso farmacista, con la passione prima per l’equitazione e poi per il calcio. Egli è il patron della squadra calcistica locale, la Cairese, che segue con grande passione e che sponsorizza a livello economico dando la possibilità alla squadra di effettuare trasferte e di avere giocatori di spicco. Come tutti gli uomini , Cesare B, nonostante fosse sposato e quindi tenesse famiglia, amava frequentare le donne, quelle belle. Egli conosce e inizia a frequentare una donna , Gigliola G, molto graziosa , di corporatura minuta, con una caschetto di capelli biondo, grazie al suo fascino magnetico, lei sapeva affascinare e sedurre gli uomini nella loro fantasia. Di professione fa la gallerista, esponeva e vendeva quadri, nel centro di Cairo. Tuttavia la donna era nata professionalmente come infermiera, aveva anche svolto la professione sanitaria in un orfanotrofio e quindi in una fabbrica a sempre Savona , la Magrini, in quel contesto lavorativo si era sposata con un metronotte da cui ha 2 figli. In seguito contrarrà altri due matrimoni, avrà un’altra figlia, e avvierà altre relazioni . Fra l’altro la donna in prima istanza si chiamava Anna Maria, mutato successivamente nell’attuale Gigliola. Fra Cesare e Gigliola, nasce una relazione amorosa che si protrae, Cesare provvede a tutte le necessità economiche della donna, paga senza fare domande per tutto quello che gli viene chiesto. I pettegolezzi su questa relazione si sprecano considerando anche il fatto che cesare è un uomo molto conosciuto e stimato e che entrambi vivono in un paese dove la gente "mormora". Dunque il 12 agosto del 1987 , il farmacista scompare senza lasciare traccia. Da qui si sviluppa una storia complicatissima, il suo corpo in parte carbonizzato viene trovato sul monte Ciuto, una altura nelle adiacenze di Savona. Effettuato il riconoscimento grazie ad un portachiavi metallico che riporta il simbolo dell'ordine dei farmacisti, alle protesi dentali e alle lenti degli occhiali. Brin era di corporatura massiccia, per ucciderlo, trasportarlo sino a quel sito ci sono volute sicuramente più di una persona. La prima indiziata è la sua amica, Gigliola G, la quale sostiene che responsabili dell’omicidio e poi dell’occultamento furono due personaggi provenienti da Torino con cui l’uomo aveva delle pendenze economiche in corso. Secondo la sua versione nacque una colluttazione tra i due e il farmacista ne uscì pesto e sanguinante, quindi i due aggressori trascinarono via l’uomo. La donna non portò elementi oggettivi a sostegno della sua tesi e quindi venne arrestata e rinviata a giudizio. Un minuscolo frammento di teca cranica venne trovato sulle scale della casa della gallerista e alcune macchie di sangue erano sui muri della camera da letto della casa della Gigliola, dove in effetti viveva di fatto anche il Brin. Secondo gli inquirenti la responsabile principale dell’omicidio fu proprio lei che in concorso con il suo convivente, Ettore G, uccise con un corpo contundente sul capo, un martello o un altro soprammobile, l’uomo nella notte fra il 12 e il 13 di agosto dell’87 mentre egli era disteso inerme nel letto, infatti i fendenti sono chiaramente dall’alto verso il basso, il delitto è avvenuto d’impeto come risultato di tutta una serie di contrasti anche su questioni a carattere economico, che sarebbero alla lunga sfociati in una separazione, forse l’uomo aveva in progetto di tornare dalla propria famiglia e in questo caso veniva a mancare per la gallerista una fonte di reddito. Pare anche che il farmacista avesse rifiutato un prestito di un centinaio di milioni alla donna, richiesti da lei con insistenza. Inoltre sempre secondo le indagini c’era un gruppetto di quattro persone che aiutarono concretamente la coppia a trasportare e occultare il cadavere sino al monte Ciuto, cosa che la donna da sola non poteva oggettivamente fare, il quartetto era formato da un funzionario di polizia in pensione, un politico locale, un artigiano e un collaboratore della vittima, tutti questi verranno riconosciuti colpevoli e condannati a pene minori. Vi furono tre gradi di giudizio e nell’ultimo, presso la suprema corte di Cassazione, venne confermata la condanna a 26 anni per la donna a suo marito 15 anni, mentre agli imputati minori , quattro uomini, vennero date pene minori.