martedì, febbraio 16, 2016

Carcare, la sparizione di Battistina Puggioni, aprile 1945


L’uomo che siede fronte a me, ha gli occhi azzurri stanchi e oramai senza lacrime, i capelli sono bianchi con sfumature di grigio, le mani forti e nodose di chi ha sempre lavorato, Luciano Granese, Classe 1932, mi racconta con voce ferma la tragica  storia di sua madre, Battistina Puggioni detta Tina, una delle tanti morti rubate nel periodo oscuro della Guerra Civile che attraversò l’Italia Settentrionale come un ciclone di odio.
Battistina, nativa di Cagliari nell’agosto del 1913,  era una giovane e bella donna di poco più di trent’anni, sposata con un uomo che in seguito l'aveva lasciata .Lei abitava con  tre figli che dipendevano esclusivamente dalle sue braccia, infatti essendo sola , era costretta a lavorare per mantenersi e per dare da mangiare ai suoi piccoli figli. Tina, come la chiamavano confidenzialmente in paese,  faceva la cuoca presso la mensa della Divisione San Marco, che serviva la guarnigione repubblichina di Cairo Montenotte e di Altare. La donna non aveva assolutamente idee politiche, era solo una lavoratrice che lottava per la sopravvivenza della propria famigliola, visto che il marito non era più con lei. Ma in quel periodo oscuro lavorare per le truppe Fasciste Repubblicane suonava come una condanna a morte
Ad aprile del 1945 intorno alle 21, in una serata piovosa, un gruppo di partigiani armati sino ai denti, Italiani e anche stranieri, Slavi, circondano la palazzina , situata in località Vispa di Carcare, salgono sino al secondo piano, bussano all’ingresso della abitazione di Battistina Puggioni.
 La porta viene aperta dal figlio più grande, un ragazzino di tredici anni, proprio l’anziano signore che mi sta raccontando la vicenda, Luciano schiude l’uscio ed entra di prepotenza uno dei partigiani, il quale ingiunge alla giovane madre si seguirli, per essere sottoposta ad interrogatorio presso il loro comando. Il piccolo Luciano è impaurito mentre osserva  sua mamma indossare un cappottino per uscire con quegli uomini, che lui non conosce, nella notte buia e piovosa. Mentre sta uscendo, la donna, con grande senso di autocontrollo, si rivolge a Luciano che vorrebbe seguirla e accarezzandogli teneramente il viso li dice poche parole per rassicurarlo : “ io vado e torno, mi raccomando fai il bravo”. Nessuno dei tre piccoli rivedrà più la loro povera mamma che si allontana nella notte con i partigiani armati. Uno di loro, si rivolge a Luciano e gli intima di rientrare in casa e di non uscire per almeno due ore.

Evidentemente i sequestratori di Battistina Puggioni non volevano che il ragazzino vedesse dove portavano la loro madre, il piccolo non si spaventa ed esce ugualmente , sfidando il divieto, fa appena in tempo a vedere su a madre circondata dai suoi carnefici che si allontana , verso il bosco, su un sentiero scarsamente illuminato.
Il gruppo armato trascina la loro prigioniera lungo il viottolo nel buio della notte e raggiunse Pallare evitando le strade battute dagli automezzi, lungo la strada compie una sosta per la notte, in una locanda, in località Fornelli , sempre nella zona di  Pallare. Nell'osteria, il gruppo di partigiani rimase solo  con la prigioniera, per tutta la notte. Non è molto chiaro di quello che accadde e e non vi sono testimoni diretti, ma la padrona della trattoria con alloggio, dove il gruppo fece sosta, raccontò terrorizzata, a Luciano, che per tutta notte sino all’alba, fu costretta a sentire i lamenti della Battistina e le sghignazzate dei suoi carcerieri.
Si può supporre, senza ombra di dubbio, che la sventurata subì uno stupro di gruppo. All’alba il gruppo armato riprese il suo cammino e raggiunse la zona denominata Fornelli, si inoltrò in una vasta abetaia, nota come Tre abeti, e uccise con un colpo alla nuca la sventurata, che venne anche derubata di un anello, di un braccialetto e dell’orologio. Quella zona era usata abitualmente per sotterrare le vittime delle esecuzioni sommarie di questi banditi.
Il  povero corpo martoriato, fu sepolto in una fossa scavata accanto al luogo dell’esecuzione, tra gli alberi della gigantesca foresta di abeti, dove  era impossibile trovarla. Questo fu quello che qualcuno di questi briganti si lasciò sfuggire davanti a qualche bicchiere di vino di troppo, ad un  tavolo di osteria.
 Luciano che era un ragazzino coraggioso, nei giorni seguenti vagò come un disperato nell’abetaia alla ricerca del corpo di sua madre, chiese a tutti i partigiani dei reparti che erano in quel territorio,  senza ottenere alcuna informazione utile sul luogo dell'occultamento, gli abitanti della zona avevano tutti la bocca cucita per paura di fare la stessa fine. Qualcuno gli disse che la condanna a morte era stata decretata da un tribunale partigiano di Genova, qualcuno gli raccontò che il colpo mortale fu sparato da un partigiano straniero, forse un polacco , insomma fu un depistaggio per distrarre il povero ragazzino che era distrutto dal dolore per una cosa che non capiva e che non meritava.
Fu la solita esecuzione sommaria che nulla aveva a che fare con la Resistenza , come ne avvennero molte nel corso della Guerra Civile che insanguinò il Nord Italia e in particolare le zone pedemontane della Liguria, dove qualsiasi omicidio e ruberia veniva catalogato come atto contro il tedesco invasore, solo che in questo caso una povera madre di tre figli era stata assassinata dopo tutta una serie di violenze. Ad aggravare il dolore di Luciano rimane il fatto che il marito di Tina, nonché suo padre, era di fede comunista e molto vicino se non addirittura sodale degli assassini con la stella rossa, che ammazzarono la povera Battistina.
 A Carcare, tutti tacevano e  si guardavano bene dal parlare con il ragazzino della morte della madre e soprattutto del luogo dove era stata seppellita la madre. Appena potè il ragazzino si recò al Comando partigiano a Savona che addirittura negò la presenza di formazioni partigiane nella zona dove avvenne il fatto, era come scontrasi con un muro di gomma.
Per anni, Luciano Granese, ebbe come scopo della sua vita le ricerche del corpo della mamma senza mai trovare nulla.
Sono passati quasi settant’anni e il corpo della povera Battistina non è stato mai rinvenuto, nonostante le disperate indagini di Luciano che oramai ha ottanta anni, stanco e malato, ma vivendo sempre quel grandissimo dolore, è incessantemente alla ricerca di sua madre e non demorde, anche se sa che i responsabili sono tutti morti e spera sempre in una risposta, magari da parte dei figli degli spietati assassini. Tutto quello che rimane nelle mani di Luciano è una foto stinta e consunta della madre e un documento del Ministero della Difesa Esercito – Commissariato Generale Onoranze ai Caduti, in cui si fa riferimento alla madre definita “civile morto per rappresaglia partigiana” “ ancora oggi sepolta in Località Fornelli di Pallare”.
Spesso Luciano, transita davanti alla grande abetaia di Fornelli , che in qualche punto, fra le zolle, conserva ciò che resta di sua madre , che lui tanto ha cercato, allora l’uomo curvo per gli anni e per il dolore, sosta qualche minuto in preghiera, immaginando che lei lo possa sentire e trovare finalmente la pace dopo tanta sofferenza.
Ora Luciano ha trovato una persona gentile, una donna che lo ascolta con grande umanità, e vuole scrivere un libro su questa vicenda, mettendo nero su bianco i fatti e soprattutto il dolore che ha accompagnato giorno dopo giorno i passi di questo ex ragazzino che vuole ancora oggi, trovare una tomba su cui pregare e posare un fiore.
Roberto Nicolick


domenica, febbraio 14, 2016

L'attentato alla trattoria della stazione di Via xx settembre a Savona

L'attentato alla trattoria della Stazione
La sera del 23 dicembre 1943, intorno alle 21, la sala da pranzo della Trattoria della Stazione di Via XX Settembre, era piena di fumo e di avventori, fuori era buio e freddo, si era alla antivigilia di Natale, si sentiva il rumore delle stoviglie e i discorsi della gente intenta a mangiare. Nessuno dei venti clienti fece caso alla porta che si apriva e ancora meno all'uomo alto di statura, con i capelli folti che gettò all'interno, tra i tavoli e le sedie, una bomba a mano.
Forse qualcuno comprese cosa stava per accadere, forse qualcuno si alzò per scappare, ma era troppo tardi. L'ordigno esplose in uno spazio ristretto amplificando così il suo potere distruttivo, le supellettili volarono verso l'alto e le vetrate andarono in pezzi, che furono proiettati come frecce verso l'esterno. Quando il boato cessò, al buio, per terra, in un lago di sangue, c'erano sei corpi privi di vita e una quindicina di feriti gravi.
Poi si seppe che il bersaglio di questo devastante attentato era un unico uomo, un Fascista della prima ora, Pietro Bonetto, impiegato presso l'ILVA di Savona, che comunque si salvò pur avendo le gambe tranciate dallo scoppio.
Dal punto di vista del raggiungimento dei risultati, questo attentato lo si potrebbe definire scarsamente “intelligente” e colmo di danni collaterali, in quanto tra le vittime, morti e feriti, uomini e donne, ci furono ben 12 persone che non erano di fede Fascista e solo 4 Fascisti, quindi la matematica della morte era in passivo.
Qualcuno, inaugurando una stagione di attentati contro i Fascisti Repubblicani, volle sparare nel mucchio , massacrando vittime innocenti che non c'entravano nulla con il regime. I responsabili non vennero mai identificati, a tutt'oggi si sa solo, che furono i GAP, ma i nomi esatti degli esecutori non sono noti. A seguito di questo attentato, alla apparenza poco strategico, innescò non del tutto casualmente, una reazione a catena che portò, all'alba del 27 dicembre 1943, alla fucilazione di sette persone, cinque antifascisti e due militari disertori, che comunque non avevano alcuna responsabilità nell'attentato alla Trattoria.
Grazie alla bomba nella Trattoria, si diede spazio all'ala più massimalista e più violenta dei Fascisti Repubblicani, che iniziò a reagire con le rappresaglie agli attacchi dei GAP , rappresaglie che nella maggior parte dei casi colpivano civili innocenti, ma forse, era proprio questo l'obiettivo degli attentati: rendere sempre più invisa alla popolazione civile la RSI. Si era innescata una spirale che avrebbe generato sempre più odio e sempre più vittime innocenti.

Roberto Nicolick

Cesare B Cairo Montenotte 13 agosto 1987 Questo omicidio non ebbe risonanza mediatica solo nella provincia di Savona ma anche a livello nazionale e non solo. Con questo delitto dai risvolti intricati, il piccolo centro della Valle Bormida assurse alla ribalta delle cronache nazionali. Fu una vicenda contorta e ingarbugliata, con chiari e scuri, con frequenti colpi di scena, dove tutto quello che sembrava come tale , in realtà non era come appariva, era come un teatrino in cui entravano ed uscivano attori sempre diversi con ruoli criptici. Una storia di sangue, di soldi e ovviamente di sesso, che coinvolse l’opinione pubblica con tutti i suoi numerosi protagonisti, offrendo all’occhio impietoso della gente una immagine, purtroppo veritiera, della piccola provincia, delle ipocrisie che nascono tuttora all’ombra dei campanili, delle storie extraconiugali che venivano nascoste ma che prosperavano e che si protraevano nel tempo spesso con un doloroso epilogo. Da questa vicenda si fece pure un film noir con Monica Guerritore come protagonista. Per una dei protagonisti della vicenda, forse la principale, si coniò un soprannome: la mantide di Cairo Montenotte, facendo riferimento all’abitudine dell’omonimo insetto femmina che uccide il partner maschio dopo il rapporto sessuale. Le vite di molte persone, coinvolte a vario titolo nelle indagini, furono rivoltate come calzini, molti particolari, soprattutto, intimi vennero messi in piazza e non solo nelle aule di tribunali. Ancora oggi, nonostante la conclusione giudiziaria con una colpevole condannata in via definitiva, molti dubbi sussistono , soprattutto nella gente del posto che conosceva benissimo i protagonisti della vicenda. La storia ebbe inizio con una improvvisa scomparsa di un uomo, Cesare B, classe 1931, noto personaggio e notabile della Valle Bormida, consigliere comunale di Cairo Montenotte, facoltoso farmacista, con la passione prima per l’equitazione e poi per il calcio. Egli è il patron della squadra calcistica locale, la Cairese, che segue con grande passione e che sponsorizza a livello economico dando la possibilità alla squadra di effettuare trasferte e di avere giocatori di spicco. Come tutti gli uomini , Cesare B, nonostante fosse sposato e quindi tenesse famiglia, amava frequentare le donne, quelle belle. Egli conosce e inizia a frequentare una donna , Gigliola G, molto graziosa , di corporatura minuta, con una caschetto di capelli biondo, grazie al suo fascino magnetico, lei sapeva affascinare e sedurre gli uomini nella loro fantasia. Di professione fa la gallerista, esponeva e vendeva quadri, nel centro di Cairo. Tuttavia la donna era nata professionalmente come infermiera, aveva anche svolto la professione sanitaria in un orfanotrofio e quindi in una fabbrica a sempre Savona , la Magrini, in quel contesto lavorativo si era sposata con un metronotte da cui ha 2 figli. In seguito contrarrà altri due matrimoni, avrà un’altra figlia, e avvierà altre relazioni . Fra l’altro la donna in prima istanza si chiamava Anna Maria, mutato successivamente nell’attuale Gigliola. Fra Cesare e Gigliola, nasce una relazione amorosa che si protrae, Cesare provvede a tutte le necessità economiche della donna, paga senza fare domande per tutto quello che gli viene chiesto. I pettegolezzi su questa relazione si sprecano considerando anche il fatto che cesare è un uomo molto conosciuto e stimato e che entrambi vivono in un paese dove la gente "mormora". Dunque il 12 agosto del 1987 , il farmacista scompare senza lasciare traccia. Da qui si sviluppa una storia complicatissima, il suo corpo in parte carbonizzato viene trovato sul monte Ciuto, una altura nelle adiacenze di Savona. Effettuato il riconoscimento grazie ad un portachiavi metallico che riporta il simbolo dell'ordine dei farmacisti, alle protesi dentali e alle lenti degli occhiali. Brin era di corporatura massiccia, per ucciderlo, trasportarlo sino a quel sito ci sono volute sicuramente più di una persona. La prima indiziata è la sua amica, Gigliola G, la quale sostiene che responsabili dell’omicidio e poi dell’occultamento furono due personaggi provenienti da Torino con cui l’uomo aveva delle pendenze economiche in corso. Secondo la sua versione nacque una colluttazione tra i due e il farmacista ne uscì pesto e sanguinante, quindi i due aggressori trascinarono via l’uomo. La donna non portò elementi oggettivi a sostegno della sua tesi e quindi venne arrestata e rinviata a giudizio. Un minuscolo frammento di teca cranica venne trovato sulle scale della casa della gallerista e alcune macchie di sangue erano sui muri della camera da letto della casa della Gigliola, dove in effetti viveva di fatto anche il Brin. Secondo gli inquirenti la responsabile principale dell’omicidio fu proprio lei che in concorso con il suo convivente, Ettore G, uccise con un corpo contundente sul capo, un martello o un altro soprammobile, l’uomo nella notte fra il 12 e il 13 di agosto dell’87 mentre egli era disteso inerme nel letto, infatti i fendenti sono chiaramente dall’alto verso il basso, il delitto è avvenuto d’impeto come risultato di tutta una serie di contrasti anche su questioni a carattere economico, che sarebbero alla lunga sfociati in una separazione, forse l’uomo aveva in progetto di tornare dalla propria famiglia e in questo caso veniva a mancare per la gallerista una fonte di reddito. Pare anche che il farmacista avesse rifiutato un prestito di un centinaio di milioni alla donna, richiesti da lei con insistenza. Inoltre sempre secondo le indagini c’era un gruppetto di quattro persone che aiutarono concretamente la coppia a trasportare e occultare il cadavere sino al monte Ciuto, cosa che la donna da sola non poteva oggettivamente fare, il quartetto era formato da un funzionario di polizia in pensione, un politico locale, un artigiano e un collaboratore della vittima, tutti questi verranno riconosciuti colpevoli e condannati a pene minori. Vi furono tre gradi di giudizio e nell’ultimo, presso la suprema corte di Cassazione, venne confermata la condanna a 26 anni per la donna a suo marito 15 anni, mentre agli imputati minori , quattro uomini, vennero date pene minori.