sabato, aprile 28, 2018

comportamenti burocratici dei partigiani comunisti

I partigiani comunisti avevano da buoni stalinisti oltre ad una solida ignoranza e una ottima ottusità anche una mentalità burocratica , lo si capisce dal fatto che richiedono con insistenza alla ditta di autonoleggi Minuto di Savona, una serie di fatture per i viaggi effettuati con un furgoncino noleggiato.
Le date dei viaggi sono rivelatrici per tracciare i movimenti da e per il campo di prigionia di Legino nel trasporto dei Biamonti, quando sono ancora in vita, ma è soprattutto la fattura del 19 maggio che indica il viaggio notturno di non ritorno dal campo di prigionia di Legino sino al camposanto di Zinola, fossa 14/12 Campo A, dove i Biamonti e Elena Nervo arriveranno vivi ma in cattive condizioni e terrorizzati di quello che hanno capito sta per accadere loro, e dove saranno assassinati dopo un feroce pestaggio perché le donne soprattutto lotteranno con la forza della disperazione contro i quattro criminali. Questo verrà evidenziato nel corso del processo. Parrebbe che alla guida non ci fosse l'autista della Minuto ma un certo Bisio Dalmazio ma non è mai stato provato.





Appena inizia il processo per la strage della famiglia Biamonti, negli anni 50, giungono diverse lettere anonime agli inquirenti. Una che mi ha colpito molto è questa, indirizzata al Maresciallo dei Carabinieri, all'epoca la caserma era in Via Pietro Giuria a Savona. Lo stile è di una persona poco alfabetizzata ma anche con una sintassi molto semplice e disarticolata, descrive il clima di paura, le complicità esistenti tra i partigiani comunisti, che comunque non dimentichiamolo avevano ancora delle armi nascoste e pronte all'uso. La realtà di ruberie, divisioni del bottino e quant'altro rende molto bene l'idea del clima che si respirava a Savona in quegli anni. Interessante il nome che fa del responsabile di questi crimini.






Il tenente Carlo Biamonti

In realtà la famiglia Biamonti contava un altro membro, Carlo, giovane fratello di Angiola Maria, tenente della San Marco, forte, coraggioso e impulsivo. a fine aprile si era ferito gravemente durante uno sminamento in Valloria ed era ricoverato presso un centro ospedaliero militare a Lecco. Quindi quando i partigiani comunisti si recarono a prelevare sua sorella, i suoi genitori e la domestica, egli non era presente. Forse avrebbe reagito, forse avrebbe ucciso i criminali oppure sarebbe stato ucciso, chissà come sarebbe andata a finire. Comunque egli non fu preso e rimase a Lecco in un letto di ospedale, dove gli fu amputato un piede, per lunghi anni covò dentro di sé il dolore per quello che accadde e per quello che non potè fare per difendere i suoi cari.



Stato di servizio di Domingo Biamonti

Lo stato di servizio di Domingo Biamonti, ufficiale della C.R.I. da cui si evince che egli non apparteneva a nessun reparto combattente della RSI, nonostante questo suo status fu prelevato assieme alla sua famiglia, rapinato, sequestrato presso il campo di prigionia di Legino e nottetempo assassinato da quattro o cinque partigiani comunisti


lettera del Maresciallo Rodolfo Graziani

Per giustificare un atto così orrendo come la strage di quattro innocenti si cercò di infangarne la memoria affermando che presso di loro erano soliti soggiornare dei gerarchi della RSI e addirittura il Maresciallo Rodolfo Graziani capo in testa delle forze armate della RSI era uso frequentare la dimora dei Biamonti.
In realtà erano le solite menzogne create ad arte, dai partigiani comunisti e dai loro sodali per affermare che la loro fine era un atto di guerra. In quel frangente il capo delle forze armate della RSI, lo stesso Graziani, in una lettera autografa, che riporto negò assolutamente di conoscere i Biamonti e di non aver mai frequentato la villa dei Naselli Feo - Biamonti.


costituzione di parte civile a processo per la strage dei Biamonti

il verbale di costituzione di parte civile contro gli imputati per il delitto di omicidio aggravato e continuato nei confronti dei Biamonti.


Appello contro la sentenza di primo grado

I due principali imputati della strage della famiglia Biamonti e il P.M. presentano appello contro la condanna in primo grado


La lapide farlocca che fu posta sulla fossa dove erano stati occultati i corpi dei Biamonti


La banda di partigiani comunisti, dopo aver rapito, depredato e assassinato la famiglia Biamonti nella notte tra il 12 e il 13 maggio 1945, tentarono maldestramente ma con furbizia maliziosa di occultare i corpi delle quattro vittime in una unica fossa, senza bare, e per meglio coprire i loro gesti criminali, apposero una lapide falsa con un nome inesistente, Tosi. Solo dopo 3 anni i poveri corpi furono ritrovati dopo mesi e mesi di ricerche.


La settimana INCOM che coprì il servizio sul clima di terrore che era era stato creato a Savona dai partigiani comunisti

La settimana INCOM , un magazine che trattò il clima di terrore a Savona nel periodo successivo al 25 aprile 1945 in cui maturò e si attuò la strage della famiglia Biamonti per mano di partigiani comunisti.

Domingo Biamonti e Nenna Naselli Feo assassinati dai partigiani comunisti a Savona nella notte del 12 maggio 1945

Questi sono i genitori della Angiola Maria, Domingo Biamonti e Nenna Naselli Feo, anch'essi furono assassinati dalla banda di partigiani comunisti nella notte del 12 maggio 1945 e poi occultati assieme alla loro domestica in una unica fossa presso il cimitero di Savona.



Angiola Maria Biamonti 12 maggio 1945

Questa splendida ragazza Angiola Maria Biamonti fu assassinata dai soliti partigiani comunisti, a Savona nella notte del 12 maggio 1945, assieme ai suoi genitori e alla domestica Elena Nervo, la loro colpa? Quella di essere benestanti e non comunisti.

Mandato di cattura per uno dei partigiani comunisti accusati della strage della famiglia Biamonti


In questo documento si fanno i nomi dei partigiani comunisti imputati presso la Corte di Assise del Tribunale di Savona della strage della famiglia Biamonti e si spicca un mandato di cattura nei confronti di Rosso Luigi che già si era reso irrereperibile in una prima occasione.

domenica, aprile 22, 2018

L'omicidio Lorenza 1945


Ernesto Francesco Lorenza

Era un ex ufficiale Repubblichino, capitano della Guardia Nazionale Repubblicana, IX Compagnia, in servizio presso il distaccamento di  Savona, nato a Tenda il 17.11.1903 a Tenda ( all’epoca provincia di Cuneo e dal 1947 ceduta assieme a Briga alla Francia ), era stato anche decorato  in qualità di Centurione della Milizia, con medaglia d’argento al Valor Militare.  L'omicidio di Lorenza  per le modalità con cui avviene è un classico della serie della pistola silenziosa.
In seguito ad una affezione agli occhi, una paralisi del nervo ottico, egli viene ricoverato per ricevere delle cure adeguate, presso l’Ospedale San Paolo nel reparto di oculistica,  lo stesso Ospedale dove fu ricoverato Giuseppe Wingler nei suoi ultimi istanti di vita.
Lorenza,  precedentemente arrestato sotto l'accusa di collaborazionismo e processato, era stato appena rilasciato in seguito ad una sentenza del C.A.S.( Corte di Assise Speciale ) che lo aveva prosciolto e reso libero.
A causa del verdetto di proscioglimento, un gruppo di persone, bene orchestrate avevano protestato con violenza arrivando ad aggredire gli avvocati difensori degli imputati, uno dei quali l'avvocato Milanese Gian Filippo Di Paola era ricoverato in una saletta attigua a quella dove l’ufficiale era ricoverato a causa del feroce pestaggio a cui era stato sottoposto.

All’ingresso dell’Ospedale e della corsia, stazionano alcuni agenti della polizia ausiliaria partigiana che dovrebbe, almeno formalmente, proteggere Lorenza da ulteriori violenze e per piantonare un detenuto, tale Artioli, il quale in almeno una occasione litiga con Lorenza. Artioli, di Modena,  è un comunista militante di opinioni politiche divergenti con l'ex ufficiale, il quale afferma di andare fiero della sua fede fascista, al termine della discussione  Artioli pare che  minacci apertamente Lorenza.
In seguito Artioli si allontana  dall’ospedale dopo che è avvenuto l'omicidio, grazie alla eccessiva distrazione dei poliziotti ausiliari che avrebbero dovuto sorvegliarlo, per questa fuga, un agente della polizia ausiliaria partigiana il quale aveva la consegna di piantonare il recluso, tale Novaro, viene licenziato dal Questore Monarca.
L’ufficiale Repubblichino si trova allettato al centro di un grande stanzone del nosocomio savonese al secondo piano, assieme ad altri degenti nel reparto di oftalmologia, tutti i ricoverati hanno delle bende sugli occhi e quindi non sono in grado di vedere quello che accade.
Siamo all'11 luglio del 1945, il Capitano ha una medicazione sugli occhi , può solo sentire e sta chiacchierando con altri ricoverati che occupano i letti vicini. In quel momento non vi è nessuno del personale sanitario nello stanzone.
Qualcuno si avvicina silenziosamente al suo letto, gli punta una pistole al capo, esattamente alla nuca, a distanza molto ravvicinata e preme il grilletto. Lo sparo  non è assolutamente percepito dagli altri ricoverati  non essendoci stata la detonazione è chiaro che è stata usata una pistola con il silenziatore. I degenti avvertono che Lorenza ha smesso improvvisamente di dialogare con loro ma non vi danno immediata importanza, in seguito affermeranno di aver percepito solo il rumore del sangue che cola a terra e preoccupati perchè Lorenza non risponde ai loro richiami, avvisano il personale sanitario.
L'assassino ha a sua disposizione una ventina di minuti per allontanarsi dallo stanzone, scendere le scale sino al piano terra e per uscire dall'ospedale, magari non dall'ingresso principale ma da uno delle tante uscite secondarie che danno nel quadrilatero delle strade che circonda il grande edificio, posto nel centro di Savona, da cui si può andare in tutte le direzioni.
Interviene il Dott. Bogliolo affiancato dal collega Gallo Basteris, entrambi si rendono conto della presenza di un foro di ingresso alla nuca e di uscita nella regione frontale e capiscono che la morte non è avvenuta per cause naturali.
Stranamente i poliziotti ausiliari, all’ingresso dell’ospedale e della corsia, non hanno notato entrare o uscire nessun sospetto.
Qualcuno, in seguito in una deposizione verbalizzata, ha affermato che la sorveglianza esterna sarebbe stata inutile, visto che l’omicida era già presente all’interno dell’Ospedale San Paolo, dato che ci lavorava .
Una ipotesi indica Lorenza come una persona depositaria di alcuni segreti o presunti tali, egli era stato incaricato dal proprio reparto di gestire e custodire delle ingenti somme di denaro, la cassa del reparto. Questi valori dovevano partire assieme alla colonna repubblichina in ritirata da Savona in direzione di Altare e poi per proseguire  sino a Valenza Po, ma non arrivarono mai a destinazione, ad un posto di blocco partigiano, poco prima dell’abitato di Altare, il prezioso carico sparì.
Forse Lorenza vide chi aveva “confiscato” il bottino, oppure aveva barattato la propria libertà ed incolumità consegnando il tesoretto.
Lorenza assieme a Wingler aveva fatto parte dell'U.P.I. i servizi informativi e aveva fatto parte delle B.B.N.N. ( Brigate Nere) in provincia di Savona, pertanto era a conoscenza dei nomi e dei ruoli di molti doppiogiochisti che erano presenti su diversi tavoli, perseguendo il proprio tornaconto personale.
A qualche anno dalla fine della guerra civile e quindi dei regolamenti di conti, un gruppo di persone fu fermato ed identificato dai Carabinieri di Savona, mentre stava sbancando, con attrezzi adeguati e con grande lena,  un punto preciso della rotabile che porta a Cadibona, quasi come se cercassero un tesoro.
Quella rotabile l’aveva a suo tempo percorsa, anche Il Capitano Lorenza con la colonna in ritirata, lungo la quale era  sparita la cassa del reparto. I carabinieri identificarono le persone come ex partigiani e come ex repubblichini, il denaro a volte unisce persone diverse tra loro. Le indagini sull'omicidio di Lorenza non portarono a nulla, tranne che a sparare era stata una pistola con silenziatore.

sabato, aprile 14, 2018

L'omicidio di Giuseppe Fanin



L'omicidio di Giuseppe Fanin


Passeggiando per la splendida città di Bologna, nel quartiere San Donato non passa inosservata Via Giuseppe Fanin, la lapide lo identifica come sindacalista nato nel 1924 e morto nel novembre del 1948. 

Innanzi tutto, Giuseppe Fanin non è morto per cause naturali, ma fu assassinato bestialmente da elementi comunisti con una sbarra di ferro, il mandante di questo omicidio fu il segretario del PCI di San Giovanni in Persiceto, che in seguito si autoaccusò e fece anche i nomi degli esecutori materiali dell'omicidio.
Fanin non era un uomo qualunque, era un simbolo, un punto di riferimento sindacale senza essere comunista, in una zona ad alta densità rossa, dove chi non era comunista faceva vita grama.
Cattolico militante, dopo aver passato alcuni anni in seminario, ne esce e si diploma presso l'Istituto Agrario “Scarabelli” di Imola, poi si laurea in agraria all'Università di Bologna ed inizia a fare attività sindacale nelle ACLI.
Il periodo è tumultuoso, il PCI egemone nell'Emilia e Romagna si è allargato a macchia d'olio ovunque, il suo sindacato di bandiera la CGIL, non gradisce concorrenza in campo sindacale  a maggior ragione nel settore agrario, ma Fanin, persona onesta e moderata e soprattutto capace e competente, mina alla base il monopolio comunista creando invidie gelosie.
I coltivatori ascoltano questo uomo coraggioso e preparato che li consiglia, li segue con passione, senza interessi personali, la gente inizia a non ascoltare più i sindacalisti rossi. L'odio comunista verso questo personaggio scomodo, inizia a montare, in una terra dove le passioni politiche sono sempre state molto forti. Da subito viene orchestrata e diretta contro Fanin una campagna di odio feroce,  che però non lo intimorisce nella maniera più assoluta, perchè è sorretto da una fede Cristiana fortissima che lo spinge avanti senza deflettere.

A questo punto qualcuno inizia a pensare a qualcosa di più violento, anche nei fatti, della campagna di odio nei confronti del sindacalista Cattolico,  ha luogo una riunione segreta, di alcuni soggetti che decidono le modalità, i mezzi, il luogo e i tempi in cui dovrà avvenire una aggressione il cui bersaglio sarà il sindacalista cattolico. E’ un gruppo  per lo più di ex partigiani comunisti, che non hanno perso il vizio e l'attitudine alla violenza. Chi coordina la riunione è un certo Bonfiglioli, segretario locale della cellula del PCI, vi partecipano tre braccianti agricoli, Enrico Lanzarini, Renato Evangelisti e Indrio Morisi, anch'essi sono comunisti, non brillano certo per intelligenza ma per voglia di menare le mani infatti questi ultimi saranno gli esecutori materiali dell'aggressione e quindi dell’omicidio.
Nella tarda serata del 4 novembre 1948, Fanin sta tornando a casa, percorre in bicicletta, come sua abitudine, una delle tante strade bianche che si intersecano nella bassa pianura Emiliana,  c'è la nebbia che abbassa la visibilità quindi non si accorge subito di quello che sta per accadere,  a quel punto Lanzarini,  Evangelisti e  Morisi.  saltano fuori da una siepe dove si erano appostati e aggrediscono Fanin con dei bastoni e soprattutto con una spranga di ferro, la violenza con cui agiscono è bestiale e non ha nulla di umano, mentre la vittima è a terra i tre infieriscono con quegli strumenti, soprattutto sul capo. Chi brandisce la sbarra è il Lanzarini, mentre gli altri usano un bastone ma non risparmiano calci e pugni al povero corpo.
Dopo aver compiuto la loro opera si allontano con le biciclette che avevano nascosto poco lontano. Fanin è a terra agonizzante, muore la mattina successiva all'ospedale. Un legale amico di famiglia, si reca all'ospedale la mattina successiva e ha difficoltà a riconoscere nel corpo il Fanin tanto è stato  devastato nonostante lo conosca da anni.
Le indagini dei Carabinieri, coordinate da un ottimo ufficiale, il Capitano Fedi, sono immediate e minuziose, vanno nella direzione dell'odio politico e sociale, molti paesani di Fanin, di militanza comunista sono fermati ed interrogati ma l'attenzione dei Carabinieri si appunta soprattutto sul Bonfiglioli, che messo di fronte alla evidenza dei fatti il 20 novembre, vacilla e confessa di essere il mandante di quella, che a suo dire, doveva essere solo ed unicamente una lezione da dare a Fanin , fa anche i nomi degli esecutori che vengono arrestati all'alba, dopo che la sera prima erano ad applaudire l' On. Pajetta del PCI durante un comizio.
Esemplare è l'atteggiamento della famiglia di Fanin che non manifesta odio o voglia di vendetta ma spera solo nella giustizia e nel ravvedimento degli assassini.

Il processo per questo omicidio, si svolgerà all'Aquila nel novembre del 49, come per tanti altri delitti compiuti dai partigiani comunisti, nel triangolo della morte compreso tra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara, in appello, dopo sei ore di camera di consiglio tutti e quattro gli imputati furono  ritenuti colpevoli di omicidio premeditato e aggravato con le attenuanti generiche, Bonfigliolini e Lazzarini vennero condannati a 23 anni di reclusione, Evangelisti e Morisi a 21 anni, mentre un imputato responsabile della campagna di odio contro Fanin fu prosciolto dalla accusa di istigazione al delitto.
Alla famiglia della vittima fu riconosciuto un indennizzo simbolico di una lira e la sbarra con cui venne compiuto l'omicidio è ancora ora, esposta al museo criminale di Roma.
La figura di Giuseppe Fanin, uomo illuminato e liberale, ne esce gigantesca a livello civile e morale sullo sfondo di questa vicenda, i suoi assassini, mandanti e detrattori appaiono per quello che sono soggetti di scarsissimo rilievo  morale e civile, privi di ogni spessore anche minimo intellettivo, materiale umano pronti a farsi manipolare dai capi di un partito massimalista e dittatoriale. Giovanni Guareschi nato in quella zona, conobbe molto bene questo tipo di individui e li definì con un termine che si attagliava benissimo “ trinariciuti”.

Iniziò un processo di beatificazione nei confronti di Giuseppe Fanin che ebbe da subito la qualifica di “Servo di Dio”, al suo nome vennero intitolate delle vie a Bologna, Imola e San Giovanni in Persiceto.

Roberto Nicolick ( testo elaborato sulla base di articoli di quotidiani dell’epoca )

domenica, aprile 08, 2018

L'occupazione e la strage di Gaggio Montano



L’occupazione la strage di Gaggio Montano ( Bologna )
16 novembre 1945

Gaggio Montano è un piccolo centro di 4000 abitanti, dell’Appennino Bolognese, a breve distanza da Bologna, in esso il 16 novembre 1945, ebbe luogo un atroce esperimento di terrore e dittatura del proletariato, almeno a dire degli attori principali di questo evento. Un gruppo di 17 partigiani comunisti, appartenenti ad una GAP montana e addirittura guidati dal segretario locale del PCI.
Probabilmente una strage compiuta nelle vicinanze, da reparti Tedeschi, ebbe una certa influenza motivazionale, ma si era a guerra finita da sette mesi e quindi questa strage comunque non avrebbe avuto alcuna ragione di essere, anche perche fu preceduta da violenze, ruberie e seguita da omicidi privi di ogni giustificazione morale e legale, inoltre le vittime erano civili indifesi e non collaboranti con i Nazi fascisti. Le vere motivazioni erano nel punire gli ex fascisti , ma di questi oramai non ce n’erano più, e nel togliere denari e oggetti di benessere, ai benestanti, i pochi che c’erano a Gaggio.
Addirittura fu assassinato a freddo davanti alla moglie incinta un appartenente al Partito d’Azione, assolutamente anti fascista. L’idea di questa occupazione e della giustizia sommaria successiva, venne a due ex partigiani comunisti, Lenzi e Gaetani, entrambi intrisi di quel massimalismo feroce leninista che non fa sconti a nessuno, portatori di disvalori e idee molto male intese e ottuse ma semplici e altrettanto violente, i quali progettarono all’interno di una stalla vicina al paese,  con l’aiuto di una cartina topografica l’azione criminale con modalità militari.
Lenzi, che in seguito morirà presso il carcere di Pianosa, era noto per aver strangolato con un cavo elettrico, un anziano paralitico mentre Gaetani era un ex seminarista che aveva sposato la causa delle rivoluzione comunista e che si considerava la mente del gruppo di fuoco. Il piano prevedeva la “requisizione “ di proprietà, biancheria, argento, oro, denaro e viveri e il “prelevamento” di cinque abitanti di Gaggio e la  “esecuzione sommaria” di questi ultimi, era una epurazione sanguinaria condita da beghe personali coniugate con l’odio ideologico.

Il gruppo composto, da 17 uomini armati e dotati di una mitragliatrice pesante, bloccarono i due unici accessi al paese, poi dopo aver sorpreso il piantone della caserma dei carabinieri, vi penetrarono e disarmarono i militari presenti in quel momento in mensa, cogliendoli di sorpresa , nessuno poté abbozzare una minima  resistenza. Gli aggressori dissero agli stupiti carabinieri, “non fate resistenza, non affacciatevi alle finestre, all’ordine, ora ci pensiamo noi”, quindi gli armati raggiunsero l’osteria del paese dove vi erano molti dei paesani e lessero l’elenco delle persone che stavano cercando da prelevare. I banditi entrano anche nelle abitazioni con i mitra spianati, Aldo Brasa e sua moglie, Elide Palmieri, che era incinta, sono seduti a prendere il caffè, Brasa coraggiosamente, si alza e inizia una colluttazione con il più vicino, ma viene colpito da una raffica di mitra, cade a terra morto, in una pozza di sangue mentre la moglie urla disperata.
L’oste del paese è costretto a salire nelle camere che vengono perquisite alla ricerca di un certo Capitani che non viene trovato subito, in questa occasione l’oste deve consegnare 70 mila lire, indumenti e altri oggetti.
Il rastrellamento del paese procede, tutti quelli che vengono incontrati dai criminali sono perquisiti e in qualche caso alleggeriti dei soldi che tengono nelle loro tasche, nel corso del rastrellamento sono prelevati : Adolfo Cecchelli, la moglie dell’oste Bianca Ramazzini, Guido Brasa, il cui fratello era già stato assassinato e Alfredo Capitani. Cecchelli ha la moglie gravemente malata, ma i suoi sequestratori non si lasciano commuovere e lo strappano da casa. Il sindaco Ferrari, che è di fede liberale, salva la vita perché in quelle ore non si trova al paese, ma anche il suo nome è nella lista di proscrizione che i gappisti hanno in mano.
I sequestrati sono obbligati sotto minaccia delle armi, a seguire il gruppo verso le colline, fuori dal paese, portando in spalla i sacchi pieni di refurtiva che gli ex partigiani hanno preso. Mentre il gruppo si allontana da Gaggio, il Parroco, tardivamente, batte le campane a martello per avvisare del pericolo ma oramai i bandidti hanno già colpito.
Dopo una marcia di qualche chilometro, il gruppo si ferma in un bosco, quattro criminali si allontanano per scavare delle fosse, vi fanno avvicinare i prigionieri e leggono loro una specie di sentenza che li condanna morte nel nome di altri che sono stati fucilati dai Tedeschi,  e in quel posto li assassinano a colpi di mitra, uno per uno, poi li seppelliscono con poche vangate di terra. In tutta l’evoluzione dell’azione a Gaggio Montano, gli ex partigiani dimostrarono una assoluta mancanza di umanità e un odio feroce verso coloro che vessavano e che poi avrebbero ucciso. A breve distanza di tempo,  dalla strage, le indagini iniziarono e tutti i responsabili, tranne Secondo Lenzi, il capo, che morì di TBC, vennero presi e interrogati, quindi detenuti in attesa di processo. Il loro arresto causò molto imbarazzo al PCI che non poteva negare la matrice comunista degli arrestati e delle loro azioni.
A luglio del 48, quasi tutti i responsabili effettivi e cioè, Mario Rovinetti, Ivo Gaetani, ideatore dell’azione nonchè responsabile locale del PCI,Giuseppe Torri e Antonio Camurri, erano da circa due anni, in custodia preventiva e rei confessi, e affrontarono il processo che si svolse in Corte di Assise a Bologna, tutti gli imputati furono difesi da un collegio di legali vicini al P.C.I. guidati da un avvocato espertissimo in queste questioni, la maggior parte di loro consideravano giusto moralmente, quello che avevano fatto, le vittime erano fascisti, si meritavano quello che gli era accaduto, le confessioni , a loro dire, erano state estorte dai carabinieri e dai questurini che li avevano percossi per farli confessare, quindi in tribunale ritrattarono tutto, di fronte alla indignazione del pubblico.
Impressionante fu la deposizione dell’imputato Rovinetti, detto “macchinino” per il lavoro di meccanico, che si disse sempre pronto ad aderire ad azioni dovunque ci fosse la presenza di “fascisti che ostacolassero l’azione dei proletari”, con un frasario stile lotta armata, oramai fuori dai tempi, tradendo una mentalità da burocrate stalinista afferma che nel paese ha sequestrato una macchina da scrivere che gli sarebbe tornata utile per il suo “ufficio stralcio” oltre , ovviamente a prelevare in una occasione  40 mila lire dal Credito Romagnolo e altri 150 mila sempre dalla stessa banca, da dividere , disse lui, tra coloro che vivevano alla macchia nella zona.  Tutta questa refurtiva non fu mai ritrovata.
Il presidente della Corte di Assise gli chiese se era giusto troncare così delle vite e “macchinino” rispose “per me era indifferente prelevare o uccidere dato che erano dei fascisti”.
Il 19 luglio il PM chiese, in primo grado, per tutti gli imputati, 30 anni per Gaetani, Torri e Camurri i Gaggesi che fecero da basisti alla banda, trenta per Rovinetti, Nanni e per i quattro contumaci perché in latitanza, Ropa, Lolli, Baldi e Franchi, 22 per Stefanini e per Mazzini gli esecutori materiali, 15 anni per Valentini, Dal Piai, Guidotti e i gregari un totale di 359 anni di pena detentiva e per un imputato la assoluzione per insufficienza di prove.
Il 24 luglio dopo 5 ore di camera di consiglio fu letta la sentenza che in linea di massima ha accolto le richieste del PM, Rovinetti anni 28, Gaetani e Torri 27 anni e 7 mesi, Camurri anni 23, Nanni, Stefanini e Mazzini anni 22, Valeriani, Guidotti, Del Piai e i 4 latitanti ( Ropa, Lolli, Franchi, Baldi )anni 7, liberando solo il vecchio Mattioli per insufficienza di prove, gli imputati non hanno voluto essere presenti alla lettura del verdetto, infatti la gabbia era vuota.
I parenti degli imputati alla lettura della sentenza inveirono contro la Corte gridando “maledetti fascisti”.
Roberto Nicolick ( ricostruzione e rielaborazione fedele dei fatti realmente accaduti attraverso la rilettura dei quotidiani dell’epoca)

L'omicidio del partigiano Renato Seghedoni





Renato Seghedoni
Seghedoni, è un giovane partigiano di 25 anni, di una brigata garibaldina, è comunista come tanti nel Modenese, opera nel famigerato triangolo della morte,  ha una onestà di fondo che lo distingue dai suoi compagni di brigata, è convinto che i civili non debbano patire le conseguenze di inutili vendette che hanno molto di personale. Quello che vede fare ai suoi compagni  non gli piace , è coraggioso ed istintivo, in particolare si trova ad affrontare un suo compagno, un soggetto molto pericoloso, Dante Bottazzi, ex seminarista, uomo dall’aspetto sfuggente, dogmatico e pronto a tutto. Tra i due avviene uno scontro verbale, Renato minaccia il Bottazzi, noto con il soprannome di battaglia  “beta”, di rivelare le atrocità che ha commesso e manifesta anche l’intenzione di cambiare vita, con queste parole firma la sua condanna a morte.
La  sera del 14 marzo 1945,  qualcuno lo trova morto, segato in due da una raffica di mitra, su un sentiero tra Castelfranco e  San Giovanni in Persiceto, gli hanno tappato la bocca. Le indagini in quel particolare momento non portano a nulla, al funerale i suoi compagni di lotta si presentano con particolare vicinanza alla famiglia e insistono addirittura per portare la bara sino al cimitero.
La sorella, vuole giustizia al che viene sparsa la voce e addirittura pubblicata su Rinascita di Bologna, che la causa dell’omicidio vada ricercata nella sparizione di una cifra di denaro e di quattro pneumatici di un autocarro, frutto di un “prelevamento” e da lui indebitamente trattenuti.
Lo si vuole delegittimare appositamente per fare apparire la morte come un regolamento di conti per il bottino da dividere, ma la sorella non si ferma e apprende, nella sua ricerca della verità che era stato giudicato colpevole di “deviazionismo” e isolato dai suoi compagni di partito. La donna va dai carabinieri e fa le sue denunce, partono le indagini , tra gli indagati Rino Govoni, Renato Cattabriga, Venusto Bottazzi, Giuseppe Stopazzini, Vittorio Bolognini e lo stesso Dante Bottazzi, tutti appartenenti alla polizia ausiliari partigiana di Castelfranco.
Ci sarà un rinvio a giudizio nel 1951, presso le Assise di Bologna ma solo a Govoni, Cattabriga e Venusto Bottazzi perché gli altri tre , gli imputati più importanti vengono giudicati in contumacia, in quanto evasi in modo clamoroso dalle carceri di Modena.
Dante Bottazzi, ritenuto responsabile anche dell’omicidio del maresciallo dei Carabinieri Attilio Vannetti,  del parroco di Riolo di Castelfranco, prelevato dalla canonica nella notte tra il 25 e il 26 maggio 1945, don Giuseppe Tarozzi il cui corpo non verrà mai ritrovato, sarà condannato all’ergastolo nel 52 in contumacia, perché fuggito in Jugoslavia, dove peraltro completerà gli studi e prenderà anche una laurea , insegnando nella scuola della minoranza italiana fino al 1960. Dal '60 all'83, ricoprì l’incarico di professore universitario alla facoltà di economia di Fiume. I suoi omicidi infine furono coperti dall'amnistia e rientrato in Italia,si iscrisse all'ANPI tanto per gradire.

giovedì, aprile 05, 2018

L’uccisione del Brigadiere dei Carabinieri Umberto Bertoli “partigiano Umberto”. Bosco di Rezzo, Imperia


L’uccisione del Brigadiere dei Carabinieri Umberto Bertoli “partigiano Umberto”.
Bosco di Rezzo, Imperia



Anche sul ponente della Liguri, le esecuzioni sommarie e le vendette puramente personali , compiute da partigiani comunisti erano frequenti sia prima che dopo il 25 aprile 1945. Nell’Imperiese erano operative sul territorio, due brigate garibaldine, la “Cascione” e la “Bonfante”.
Questa tragica storia di sangue, riguarda un brigadiere dei Carabinieri di 44 anni, persona onesta e scrupolosa, che dopo l’8 settembre 1943, aveva scelto di fare parte della Resistenza e quindi di combattere contro l’occupazione Nazifascista. Il graduato dei carabinieri durante il suo servizio nell’Arma Benemerita, era una persona inflessibile ed onesta, il quale non lasciava spazio ai delinquenti che imperversavano nella zona.
Nel corso della sua attività istituzionale , fra le altre cose, assicurò alla giustizia un ladro, che aveva sottratto a dei contadini alcune coperte, questo era il normale servizio di un brigadiere dei Carabinieri in un periodo storico molto difficile, proprio questo ladro di coperte che fu condannato dal Giudice ascontare sei mesi di galera, non si dimenticò facilmente di Bertoli e giurò vendetta in cuor suo, alimentando nel tempo dentro sé, un odio ottuso e feroce nei confronti del Carabiniere il quale bloccandolo aveva semplicemente compiuto il proprio dovere.
E così purtroppo accadde, infatti dopo l’otto settembre 1943, il carabiniere Umberto Bertoli sceglie la via dei monti , assume il nome di battaglia “Umberto” e per un fatale e tragico destino si trova a combattere nella stessa unità partigiana, dove milita proprio la persona che egli ha arrestato per il furto delle coperte. Il ladro, in quel momento partigiano comunista, ha la memoria lunga e riconosce immediatamente Umberto Bertoli, da quel momento, pianifica la sua vendetta, che non puo’ che essere sanguinosa e crudele oltreché ingiustificata, visto che egli ha commesso un furto ed era stato legittimamente fermato dal carabiniere.
Il ladro – partigiano è pure fratello del comandante della brigata partigiana e quindi ha una grande facilità a mettere in atto il suo progetto criminale: il povero Bertoli, nonostante abbia ampiamente dimostrato di essere un antifascista sicuro ed affidabile, viene accusato ingiustamente di essere un delatore fascista, con questa infamante accusa, sarà trascinato sino ad una vastissima foresta nell’entroterra dell’Imperiese, il bosco di Rezzo, un faggeto che copre ben 600 ettari, molto fitto e in alcune sue parti inesplorato.
Questa vera e propria foresta è stata usata dai partigiani comunisti per compiervi esecuzioni sommarie di prigionieri Repubblicani o di benestanti a cui , oltre ai beni materiali veniva tolta anche la vita. L’immenso faggeto è raggiungibile da Imperia, verso il passo di San Bernardino, per poi scendere verso Andagna ( Molini di Triora) passando per Passo Teglia.
Queste atrocità avvenivano proprio nel Bosco di Rezzo per una serie di motivi: nessuno poteva vedere quello che accadeva nel fitto del bosco, nessuno poteva ascoltare gli spari persi nell’immensità dell’area verde e soprattutto gli assassini potevano seppellire i corpi degli sventurati sotto un palmo di terra, sicuri che la notte gli animali da preda avrebbero, nel giro di qualche settimana , fatto sparire i corpi o gran parte di essi. Qualcuno ha affermato che in quel bosco ci sono più morti che alberi e questa affermazione non è del tutto campata per aria.
Il 20 settembre 1944, il Bertoli, ignaro del destino che lo attende, è prelevato mentre sta andando a comprare il latte, sarà portato in località Casa Rossa, costretto crudelmente come è d’uso dei boia comunisti, a scavarsi la fossa sotto la minaccia delle armi dei suoi assassini, in quel momenti molto probabilmente avrà riconosciuto il ladro e compreso le infami motivazioni della sua esecuzione. Secondo un rapporto dei Carabinieri, avrebbe urlato in faccia al suo assassino : “ sei un vigliacco”. Appena gridate queste parole, fu abbattuto senza pietà, da una raffica di mitra e i due criminali gettarono qualche palata di terra sul corpo del poveretto allontanandosi per tornare alla loro brigata ferocemente soddisfatti.
Il destino di sangue che colpì il brigadiere Bertoli è il medesimo che colpì il maresciallo dei Carabinieri Barbagallo, ammazzato nella pubblica piazza di Albisola ( Savona)da un partigiano comunista dopo un feroce pestaggio, accusato di essere una spia fascista. Il brigadiere dei Carabinieri, Carmine Scotti ucciso a Bargagli, nell’entroterra di Genova dalla banda dei vitelli,una banda di ladri che fra le altre cose, facevano affari con la borsa nera di Genova, anche Scotti fu obbligato a scavarsi la fossa dai suoi assassini che peraltro conosceva benissimo.
Bertoli, Barbagallo e Scotti, tre carabinieri coraggiosi e giusti, assassinati dalla stessa genia di criminali, che dovevano vendicarsi di fedeli servitori dello stato oppure volevano coprire la loro immoralità ed i loro crimini compiuti o in via di compimento e questo la dice lunga sulla qualità di tanti soggetti che si fecero scudo della Resistenza per raggiungere un veloce arricchimento.
Bertoli, inoltre, fu una delle tante vittime di esecuzioni sommarie, uccise e seppellite nel famigerato bosco di Rezzo, che in seguito divenne sempre di più un grande scannatoio particolarmente dopo il 25 aprile 1945, e soprattutto divenne un gigantesco cimitero .
Trascorsero alcuni decenni dall’omicidio di Bertoli e un coraggioso avvocato, Gino Sandei del foro di Milano parente dell’ucciso, presenta un esposto-denuncia alla Procura della Repubblica, nell’aprile del 1985. Nell’esposto l’avvocato indica come presunti assassini due fratelli, partigiani di Oneglia , entrambi militanti di una formazione partigiana comunista, Pippo e Massimo Gismondi, al momento pensionati, uno dei quali decorato con grande sfarzo, da Pertini per meriti militari.
Dopo pochissimo tempo, purtroppo, l’accusa verso i due soggetti, sarà archiviata e non ci saranno conseguenze penali di nessun tipo , che si diranno scandalizzati e indignati per questo “attacco strumentale contro la Resistenza”, qualcuno griderà: “ è una manovra strumentale pilotata dai fascisti per sporcare la Resistenza”.
Il fatto curioso, che fa molto riflettere è che uno dei due ammise effettivamente, di aver “sequestrato” delle coperte per proteggersi dal freddo a un certo Nicola Terrucco ma che in quella occasione rilasciò una “regolare ricevuta. alle persone a cui prese le coperte”, inoltre sulla morte del Bertoli qualcuno rilasciò diverse versioni a volte contrastanti: inizialmente i due ex partigiani dissero che non avevano “mai sparato ad un uomo a sangue freddo”, poi che “avevano saputo della morte del brigadiere solo ora” e le ultime due versioni sono un campionario di ipocrisia: “ Bertoli era un delatore giustiziato dopo un regolare processo” e infine “ che era morto in combattimento con onore contro i fascisti”.
Insomma si tentò di seppellire la verità sotto il solito cumulo di menzogne controverse e incrociate, che i comunisti sono così bravi a creare per proteggere se stessi e i loro interessi. Dopo questa buriana, si svolsero molte riunioni tra i “reducisti ad oltranza della resistenza” e si arrivò anche a minacciare le solite denunce per tutelare il buon nome dello stesso Bertoli (sic), dei partigiani imperiesi e della resistenza. Furono sicuramente dichiarazioni involontariamente comiche.
Nonostante l’impegno civile dell’Avvocato Sandei, i due fratelli uscirono indenni dalle accuse perche’ l’omicidio era prescritto e pertanto chi aveva ucciso Umberto Bertoli poté continuare a camminare libero tra la gente ma con la coscienza pesante e le mani lorde di sangue di un innocente ma soprattutto un giusto.
Roberto NicolickQQ

martedì, aprile 03, 2018

Radio Praga




Radio Oggi in Italia
Tra gli ultimi anni 40 e i primi anni 50, cominciò a venire a galla la terribile e vera verità sulle stragi compiute dai partigiani comunisti nel nord Italia, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Liguria, coraggiosi carabinieri e altrettanto coraggiosi magistrati iniziarono ad indagare e ad istruire processi per giustizie sommarie ed eccidi, ruberie e violenze ai danni di fascisti e di persone benestanti che comunque non avevano mai collaborato con il regime repubblichini.
A quel punto migliaia di appartenenti alle brigate garibaldine di ispirazione comunista rischiavano di essere condannati per reati infami che nulla avevano da invidiare alle brigate nere.
Si trattava di oscuri gregari, di commissari politici ma anche di capi partigiani molto rappresentativi che avevano responsabilità anche personali in fucilazioni, torture, violenze e ruberie. Il PCI non poteva permettere che questi uomini andassero alla sbarra quindi decise per il piano B : l'espatrio in una nazione oltre cortina dove non potessero essere raggiunti dalla giustizia Italiana e così avvenne, mentre nelle aule delle Corte di Assise si celebravano decine di processi in contumacia, tutti questi personaggi prendevano la valigia e con il viatico e un piccolo aiuto economico del PCI, partivano frettolosamente per la Cecoslovacchia, che era diventata una cosiddetta repubblica democratica popolare, prima che le sentenze diventassero esecutive e i carabinieri andassero a bussare alla loro porta. Generalmente tutti andavano nella triste e fredda Praga, dove venivano censiti e presi in carico dalla STB, Statna Bezpecnost, la sicurezza di stato, creata nel 1945, sino alla caduta del comunismo, un organo di spionaggio plasmato dai consiglieri sovietici del molto più efficiente KGB.
Il PCI, dopo averli fatti espatriare, non li lasciò soli. Qualcuno di loro lavorò alla Škoda di Mladá Boleslav, in Boemia centrale, a circa cinquanta chilometri a nord-ovest di Praga, alla linea di montaggio della “Spartak”, altri, invece alla fabbrica di birra “Staropramen”.
Ma soprattutto molti latitanti furono usati nel lavoro di disinformazione in “Radio Oggi in Italia”, una emittente mmeglio nota come radio praga, che di Italiano aveva solo il nome, la quale da un luogo segreto, trasmetteva dagli anni ’50.
La speaker dell’emittente, Stella Amici, tanto per fare un esempio, era fuggita dall’Italia all’indomani dei violentissimi scontri di Modena del 1950 tra gli operai delle fonferie riunite e la polizia. In particolare c’era Francesco Moranino, l’ex capo partigiano biellese “Gemisto”, responsabile in particolare della strage dell'ex ospedale psichiatrico di Vercelli e delle numerose esecuzioni sommarie presso il Canale Greggio . Ci fu anche una analoga emittente in lingua francese che però ebbe vita breve, una dozzina di mesi nel 1954 collegata ai comunisti francesi.
I testi delle notizie da trasmettere arrivavano a Radio Italia Oggi, dai giornalisti de “L’Unità” e di “Paese Sera” o, addirittura, da dirigenti del PCI. In particolare Sandro Curzi. Insomma pur se latitanti gli ex partigiani comunisti continuarono a concorrere, pur senza mitra e bombe a mano, ad attaccare l'Italia.
Tuttavia la loro vita non fu facile, dall'Italia il PCI nominò un comitato dirigente di una dozzina di persone per lo più ex partigiani comunisti di Modena e Reggio, vere e proprie “carogne”staliniste, uomini ottusi e molto aggressivi che controllavano e guidavano il gruppo dei latitanti con metodi violentissimi , senza badare troppo alla dialettica, pestando chi non si adeguava alle loro direttive, si era passati dal triangolo della morte di Bologna Modena e Reggio, al triangolo dei pestaggi a Praga. In seguito a queste violenze ripetute alcuni del latitanti si tolsero la vita per non dover sottostare a questi stalinisti che comandavano con il pugno di ferro gli Italiani.
Questa situazione andò avanti per alcuni anni, sino a quando alcuni presidenti della Repubblica, Saragat e Pertini, concessero la grazia a questi latitanti che poterono tornare in Italia e sfuggire alla morsa dei loro aguzzini. La quasi totalità dei latitanti di Praga sono morti e nessuno di loro si ricorda più neppure i nomi, tranne i parenti delle loro vittime innocenti che spesso non sanno neppure dove e come questi assassini hanno sepolto i loro cari.


Roberto Nicolick















lunedì, aprile 02, 2018

Renata Fonte





Renata Fonte

Vorrei ricordare l’impegno civile politico di una giovane donna, Renata Fonte di Nardò provincia di Lecce, assassinata a colpi di pistola da due sicari della  S.C.U. ( sacra corona unita ) ad appena 33 anni nel 1984. Renata nasce nel 1951 a Nardò, si impegna politicamente nelle istituzioni, aderisce al Partito Repubblicano e assume l’incarico di Assessore all’ambiente, in questa veste tenta di impedire la costruzione di alberghi e strutture turistiche in zone di alto interesse ambientale. Contraria alla cementificazione del parco di Porto Selvaggio pagherà con la vita il suo impegno ambientalistico, tre revolverate porranno fine alla sua vita mentre rincasa. Verranno arrestati due killer e i loro mandanti che saranno condannati nei tre gradi di giudizio in modo definitivo. Il suo ricordo attraverso le due figlie, si tramanda attraverso tutta una serie di eventi culturali e di spettacolo, sulla vicenda viene anche fatto un libro, un film , La posta in gioco, nel 98 nasce una associazione “donne insieme” con lo scopo di promuovere la cultura della legalità sul territorio della Puglia, nasce la Rete Antiviolenza Renata Fonte riconosciuta dal Ministero delle Pari Opportunità, a Nardò viene scoperta una stele in suo ricordo e il comune organizza ogni anno una manifestazione con la presenza di Don Ciotti, e alla donna Renata Fonte è stata dedicata un fiore, una orchidea. Se i criminali che l’hanno assassinata volevano anche farla dimenticare hanno assolutamente fallito al contrario hanno creato un mito che si alimenta ogni giorno diventando sempre più forte.
Roberto Nicolick