venerdì, luglio 18, 2008

ESPOSTO DEL PADRE DELLA PINUCCIA GHERSI ASSASSINATA DAI GLORIOSI PARTIGIANI



Il 29 aprile del 1949, il padre della povera Giuseppina Ghersi, Pinuccia, rapita, stuprata ed assassinata da tre partigiani comunisti nella notte del 30 aprile 45, prende carta e penna e mosso dalla rabbia e dalla disperazione per cio’ che la sua famiglia ha subito, torture, percosse, espropri, omicidi, minacce, scrive un esposto alla Procura della Repubblica di Savona.

Ne ho una copia, manoscritta e mi pare giusto divulgarlo. Rappresenta uno spaccato di inferno…che descrive con parole semplici e pesantissime tutte le atrocita’ subite da egli stesso, dalla moglie e dalla piccola Pinuccia Ghersi, martirizzata dalla polizia partigiana.. Cose comuni a tantissimi altri in quegli anni di piombo, dove regnava l’arbitrio, l’arroganza dei partigiani comunisti, che potevano fare e disfare a loro piacimento tutto.

I valori della Resistenza non erano quelli degli assassini e del briganti che avevano diritto di vita e di morte su chiunque.

Il pover’ uomo si chiamava Giovanni Ghersi, dall’aprile del 1945 dovette subire di tutto e di piu’, pur non essendo un torturatore o un rastrellature fascista: arrestato lui e la moglie, percosso, imprigionato nel famigerato campo di concentramento di Legino, gestito dai partigiani comunisti, spogliato di ogni avere, persino epurato e costretto ad fuggire da Savona per evitarsi la morte per lui e la moglie…morte che non pote’ evitare per la piccola figlia di tredici anni, Giuseppina.

Ecco l’esposto , indirizzato al Procuratore di Savona e firmato dal Signor Ghersi, consta di sei cartelle, manoscritte con una grafia fitta, con delle correzioni, pieno di sofferenza:
Ne approfitto per chiedere alla attuale Procura della Repubblica, se non ritienga che sussistano gli elementi oggettivi per riaprire un caso molto spinoso che necessita di molti chiarimenti a tutt’oggi…

“…Il 25 aprile 45, alle 5 pomeridiane, sono arrivati a Savona, i partigiani, noi stavamo alla finestra, ci venne chiesto del materiale di medicazione che noi fornimmo volentieri.
Il 26 ci recammo al lavoro alle 6, al nostro ingrosso di frutta e verdure, accompagnati da un vetturino, Meriggi, abitante in Via Saredo, accanto a casa nostra.
Arrivati a San Michele, fummo fermati da due partigiani armati di mitra, uno rimase a guardia di noi e l’altro ando’ a telefonare in un garage, del Signor Filippo Cuneo. Venne un tale che si qualifico’ come tenente, della polizia partigiana.

Uno dei partigiani, De Benedetti Giuliano, volle che fossimo tradotti al campo di prigionia di Legino sotto scorta armata. Venni disarmato del coltello da lavoro che abitualmente portavo dietro.
Arrivati a campo di Legino, luogo di morte di tanti poveretti, fummo contattati da un certo Piovano, abitante a Savona in Via Valletta San Michele attualmente operaio delle FS, il quale ci sequestro’le chiavi di casa e del magazzino della nostra merce. Dopo circa mezz’ora fu tradotta al campo, anche mia cognata, coabitante con la mia famiglia. In questo modo la casa e il magazzino furono depredati di tutto senza testimoni, per portare via tutto sono stati usati camion e carretti. Anche dalla casa sparirono oro, argento e denari…”

Ora arriva il peggio, che riporto testuale dall’esposto :
“ il 27 aprile, verso le 10 del mattino, i partigiani del campo, minacciarono di morte mia moglie per sapere dove fosse la mia bambina, di appena 13 anni, terrorizzati, acconsentimmo ad accompagnarli a prenderla dove essa era, presso dei conoscenti in via Paolo Boselli 6/8 Savona. Accompagnata da un “brutto ceffo” certo Guerci, abitante a Zinola, operaio ILVA, la presero e la condussero al campo.

Nel pomeriggio cominciarono le nostre torture, presero la bambina, e ci giocarono a pallone, portandola in uno stato comatoso, perdendo tanto sangue che non aveva piu’ la forza di chiamare suo papa’, poi si sfogarono su mia moglie, malmenandola e percuotendola in modo che lascio alla vostra immaginazione, poi in cinque cominciarono a battermi con il calcio del moschetto, sulla testa e sulla schiena, tutto cio’ perche’ rivelassi dove avevo nascosto altri soldi e altro oro.

Dopo aver conciato per bene io e mia moglie, da fare pieta’, verso le sei, mentre pioveva a catinelle, fummo condotti in via Niella, dal Comando partigiano, dove ci fu detto che a nostro carico non era emerso nulla. Nonostante cio’ fummo portati al Carcere di S. Agostino arbitrariamente da tale Serra, nato a Spotorno e residente a Legino.

Mia moglie dopo 12 gg. Fu rilasciata e si reco’ presso la sede Comunista delle Fornaci, dove chiese le chiavi di casa, che dopo grandi insistenze le vennero restituite. Ma per poco, infatti arrivo’ un certo Ferro abitante in Via Bove, che per ordine della sezione del PCI delle Fornaci, le riprese.

L’indomani, mia moglie torno’ al Comando Partigiano in Via Montenotte e riebbe le chiavi di casa nostra, ma appena in casa, entro’ anche un caporione del PCI tale Peragallo, abitante in Via Tallone 9/12, il quale sigillo’ tutte le camere tranne la cucina e una cameretta.

Il giorno 11 giugno, senza mai essere stato interrogato fui liberato, appresi della uccisione della mia bambina, Pinuccia, e ebbi grande sconforto da questa notizia. Andai in questura e chiesi di far togliere i sigilli alle camere, cosa che fece un agente. A causa delle ruberie subite l’intendenza di finanza mi corrispose un acconto di 150.000 lire.

Gli animali che avevo, conigli e galline, furono venduti ad un pubblico ristorante; essendo senza lavoro ed indigente, venni assunto per compassione presso il consorzio ortofrutticolo dove percepivo il necessario per poter vivere con mia moglie e sua sorella, era un periodo quasi sereno…

Ma una notte, l’11 luglio 45, un gruppo di persone tento’ di forzare la porta di casa per prelevarmi e farmi fare la stessa fine di mia figlia e di molti altri. La porta per fortuna non cedette. E quella notte, salvammo la vita…
Per questo motivo, abbiamo dovuto scappare all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra citta’ , senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in poverta’ e miseria, pur sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.

Signor Procuratore,
mia figlia fu assassinata il 30 aprile del 45, dopo mezzanotte, alle 4 del mattino a Legino e fu portata al cimitero di Zinola, e buttata come un sacco di patate nel mucchio dei morti amazzati che tutte le notti riempivano il piazzale davanti al cimitero, assieme a lei fu ammazzata Teresa Delfino , Vico Crema 1/1 Savona. Pare che l’autore degli assassini sia stato Gatti Pino di Bergeggi.

Sono arrivato alla determinazione di sottoporre alla S.V. i fatti, affinche’ sia fatta luce su questa faccenda, e vengano puniti i responsabili del delitto commesso in persona della mia bambina oltreche’ di tutti i furti che abbiamo dovuto subire.

Segue firma

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Gli omicidi della “pistola silenziosa” 1944 – 1947 Savona Rosanna Pirosu, Francesco Binaero, Clotilde Biestra, Giuseppe Wingler, Dottor Francesco Negro, Ernesto Francesco Lorenza, Lucio Guerra, Amilcare Salemi, Rosa Amodio , Giuseppina Ferrari detta Lucia o Luciana Dalla fine di aprile del 1945 sino al 1947 inoltrato, Savona fu teatro di 12 omicidi seriali, effettuati tutti con la stessa arma : una pistola automatica, cal. 7,65, fabbricata nel 1935,munita di silenziatore. Un’arma che, secondo accreditate versioni, era stata paracadutata dagli alleati alle formazioni partigiane, in Valle Bormida, durante la Resistenza. Di certo in questa vicenda ci furono solo le vittime, morte ammazzate, l’arma infatti non fu mai ritrovata e sulla identificazione giudiziaria dell’assassino sussistono molti dubbi. La pistola fu sicuramente usata da diversi autori , tutte le vittime erano connesse tra di loro, non ci furono mai testimoni. E se ci furono si guardarono bene dal parlare. Pare che l’arma venisse tenuta impugnata e nascosta alla vista da un quotidiano appoggiato all’avambraccio. Le vittime erano legate fra di loro da più fattori : avevano fatto parte a vario titolo della R.S.I. e quindi dovevano essere ammazzati in quanto fascisti, oppure erano benestanti da spogliare dei beni, o indagavano sui delitti e quindi dovevano essere fermati. L’arma che sparava, denominata dalla opinione pubblica e dai giornalisti dell’epoca con il nome di “pistola silenziosa” era solo lo strumento operativa di un gruppo di soggetti, molto coesi tra di loro. Unica eccezione nella lunga fila di assassinati fu il Commissario di Polizia che indagava sui delitti, Amilcare Salemi. La pistola silenziosa aveva sparso il terrore in Savona e appariva e spariva come per magia a seconda della necessità, assumendo caratteristiche da vera ed unica protagonista, spersonalizzando la figura dell’assassino. Dopo l’omicidio, qualcuno provvedeva a nasconderla in attesa di un altro utilizzo. Alcune voci indicavano il nascondiglio in Ospedale, murata nelle camere mortuarie, oppure in Questura, nello sciacquone di un bagno. All’epoca la Questura era profondamente inquinata da poliziotti ausiliari partigiani comunisti, lo stesso il personale ospedaliero, un infermiere ausiliario si vantava di aver “steso” venticinque fascisti sul Colle di Cadibona in una vicenda nota come “la corriera della morte”. Molto verosimilmente la pistola , già nelle mani dei partigiani, fu usata nel settembre del 44 da una SAP, squadra di azione patriottica, per ferire mortalmente Rosanna Pirosu, impiegata presso la sede del PFR Partito Fascista Repubblicano abbattuta in un rifugio antiaereo Vado Ligure. L’arma fu usata al buio e nessuno dei presenti sentì il rumore dello sparo coperto dal silenziatore. Era l’ideale per uccidere senza essere notati. Poi nel primo semestre del 45, cadde Francesco Binaero e a seguire, la prima donna ad essere uccisa, dopo la Liberazione, fu Clotilde Biestra il 10 maggio 1945 i cui genitori erano già stati massacrati dai partigiani. Quindi un medico di Quiliano nel novembre del 1945, Francesco Negro, omicidio anomalo, infatti egli era un antifascista che si era permesso di dissentire pubblicamente nei confronti di tutte queste stragi e ruberie che erano iniziati dopo il 25 aprile. Negro fu l’unico a poter vedere gli assassini , senza tuttavia identificarli, morì il giorno successivo per le ferite riportate all’addome. Poi toccò a Giuseppe Wingler il 4 dicembre 1945, ex squadrista già appartenente alle Brigate Nere, quindi Giuseppina Ferrari ex ausiliaria SAF( servizio ausiliario femminile ) uccisa il 15 gennaio 1946 mentre era uscita a comprare il latte e Lucio Guerra ex Brigata Nera assassinato sul treno mentre sostava ad Albisola il 10 settembre 46 sempre con l’arma silenziata . Un riferimento a parte merita Ernesto Lorenza ufficiale della G.N.R.( Guardia Nazionale Repubblicana)al momento della Liberazione, aveva in consegna la cassa dei valori , giunto in Valle Bormida ad un posto di blocco partigiano ad Altare, parrebbe che avesse barattato la sua salvezza consegnando la cassa. Questi valori cambiarono di tasca, ma bisognava tappare la bocca ai testimoni. Se ne incaricò il killer della pistola silenziata che raggiunse Lorenza ricoverato in ospedale a Savona e gli tappò la bocca con un colpo alla nuca, il Lorenza era bendato agli occhi e passò dalla vita alla morte quasi senza accorgersene. Nessuno dei presenti vide nulla, i poliziotti ausiliari partigiani che piantonavano gli ingressi del nosocomio, stranamente non si accorsero di nulla e l’assassino poté entrare, agire e uscire indisturbato. Alcuni dicono che molti infermieri del San Paolo fossero complici con il killer. Per indagare su questi omicidi e su altre atrocità che proseguivano senza sosta, arrivò un commissario di polizia da Como, Amilcare Salemi.Il funzionario iniziò ad indagare su alcuni personaggi legati al mondo della Resistenza e forse stava per raggiungere i colpevoli ma venne ucciso prima di concludere le indagini. Assassinato anche lui dal killer seriale della pistola con il silenziatore, che gli sparò alle spalle mentre cenava nella sala ristorante dell’Hotel Genova di Savona. I suoi collaboratori e la moglie ricevettero delle minacce e i documenti relativi alle indagini da lui condotte sparirono dal suo ufficio. Dopo il Commissario , fu eliminata Rosa Amodio, una maestrina di appena ventiquattro anni, una bella ragazza mora, che era stata ausiliaria della R.S.I., la giovane dopo il 25 aprile , stette lontana da Savona e poi , pensando di essere sicura da rappresaglie, tornò a casa e al suo lavoro di insegnante. Mentre una sera tornava a casa in bicicletta, fu affiancata da un’auto dal cui interno le spararono un solo colpo preciso, freddandola. La ragazza rimase a lungo sull’asfalto accanto alla sua bicicletta prima che alcuni passanti si fermassero a prestarle aiuto, ma era morta sul colpo, anch’essa colpita dalla pistola automatica con il silenziatore. Il suo fidanzato Lorenzo Calzia voleva trovare gli assassini per vendicarsi, ma una notte, qualcuno gli imbottì la porta di casa con un bel po di tritolo facendola esplodere e da allora smise di cercare chi gli aveva ucciso la fidanzata. Tutti questi omicidi avevano una regia ed un’apprestamento complessi, meticolosi e militari: c’era chi deteneva in custodia l’arma e la manteneva in efficienza, c’era chi decideva i bersagli, c’era chi consegnava lo strumento di morte e accompagnava il boia ad un sopraluogo prima dell’azione, c’erano gli osservatori che tenevano d’occhio il bersaglio e si allontanavano poco prima dell’azione e poi c’era chi riaccompagnava l’esecutore al sicuro creandogli un alibi e riprendendo la pistola in consegna. Pochi potevano contare su una simile organizzazione. A Savona l’opinione pubblica era terrorizzata , iniziarono le indagini, agli inquirenti arrivarono delle lettere anonime che indirizzarono i sospetti verso un Sanremasco, Pietro Dal Vento, 55 anni via Tafoletti 38, panettiere con precedenti ( 18 mesi per furto, 2 anni per appropriazione indebita e dopo la guerra ancora una condanna per truffa) , il quale appena interrogato si lasciò andare frettolosamente a una confessione, affermando di essere l’autore degli omicidi del Commissario Salemi e della Maestra Rosa Amodio, dicendo di esserne stato l’autore, per motivi ideologici, in concorso con altri soggetti. Dal Vento era una personalità molto particolare, soggetto a picchi caratteriali alti e bassi. Nel corso degli interrogatori, fece alcuni nomi di ex partigiani come complici e mandanti, i quali furono in parte, fermati e interrogati e successivamente in parte rilasciati e in parte prosciolti dopo un processo molto breve. Chi rimase sempre “ al gabbio “ fu invece lui, Pietro Dal Vento con l’imputazione di duplice omicidio aggravato. Egli sapeva molto di più di quanto volesse fare credere ai giudici. Era capace di violenti accessi d’ira, insultava spesso i suoi legali e la stessa Corte gridando ai Giudici “ burattini e fascisti” raccogliendo una condanna per ingiurie alla Corte, in carcere aggrediva il personale penitenziario e per questi gesti eclatanti, transitò e soggiornò in due manicomi criminali, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia dove tra l’altro venne curato per una grave forma di TBC. Dal Vento seguiva una strategia suggerita da altri, dichiarava e poi ritrattava l’indomani, destabilizzando la corte. Faceva nomi di complici che poi smentiva nelle udienza successive, sulla sue affermazioni si nutrivano molti dubbi. Seguiva il processo seduto in un angolo della gabbia, con i capelli neri tutti impomatati , un paio di baffetti e lo sguardo acuto da rapace, fumando una sigaretta dopo l’altra, nervosamente. Dal Vento affrontò due diversi gradi di giudizio, nel primo a Savona fu condannato, unico colpevole, per duplice omicidio a trenta anni in primo grado nel novembre del 1951, grazie alla sua riconosciuta semifermità di mente, quindi in appello alle Assise di Genova nel 53, gli verranno comminati vent’anni e otto mesi , di cui due anni condonati. Dal vento morirà di lì a poco divorato dalla tubercolosi , portandosi i nomi dei mandanti e degli altri assassini nella tomba. Pietro Dal Vento fece parte dell’intrigo della pistola con il silenziatore, con un ruolo parziale , ma ovviamente non aveva le caratteristiche per agire da solo. Gli altri personaggi, tutti ex partigiani comunisti, che ebbero la chiamata a correo da parte di Dal Vento, non subirono alcuna condanna, anzi alle udienze tennero un atteggiamento arrogante verso la corte, intimidirono i testimoni e i legali delle parti civili che furono anche malmenati.