lunedì, febbraio 14, 2011

LA STRAGE DEI BIAMONTI: anche questa fu Resistenza ????


A distanza di 65 anni , ancora oggi, non si può nascondere lo stupore
e lo sdegno per la tragica sorte che toccò alla intera famiglia
Biamonti e alla loro domestica, eppure è tutto terribilmente vero e
reale oltreché documentato da rapporti dei carabinieri, denunce dei
parenti e degli amici e dalle varie sentenze emesse dai vari
tribunali. Nonostante una mole importante di materiale documentale
raccolta, alcuni “gendarmi della memoria” hanno cercato di minimizzare
i crimini perpetrati sui componenti della famiglia savonese dei
Biamonti, ma non ci sono riusciti.
L’anziano signore che mi ha narrato una parte della storia , Luigi
Rolandi, ha circa 85 anni, è un ex ufficiale delle truppe alpine, il
quale era il fidanzato di una splendida ragazza Angiola Maria, all’
epoca 24enne, inghiottita dal nulla assieme ai genitori, Domingo
Biamonti il padre avvocato, la madre Nenna Naselli Feo e la domestica
Elena Nervo.
La famiglia Biamonti, benestante, abitava in una villetta a Savona in
periferia, non era inserita nel sistema di potere della Repubblica
Sociale Italiana, quindi non erano fascisti in senso stretto, ma
vennero ugualmente, fermati dalla polizia ausiliaria partigiana, vera
volante rossa, ristretti in un campo di concentramento creato ad hoc,
per detenere i sospetti di collaborazionismo con i Nazi – fascisti.
Chi veniva portato in questi campi, non tornava più a casa, moriva in
presunti tentativi di fuga oppure spariva nel nulla, quest’ultima cosa
fu ciò che accadde ai Biamonti: sparirono semplicemente in una notte di
maggio.
Era accaduto l’imponderabile, i capi dei partigiani, sottoposti a
pressioni da parte dei parenti dei Biamonti, avevano decretato, una
volta tanto correttamente, illegale ed iniquo il fermo della famiglia
Biamonti e pertanto avevano già stilato un ordine di scarcerazione.
Sarebbe stato uno smacco fortissimo per la banda di partigiani
comunisti che li avevano arrestati, con delle finalità inconfessabili:
depredare le sostanze dei Biamonti, mobili, denari, oro e quant’altro
di valore che si trovasse nella villa incustodita.
Il piano dei predoni doveva essere attuato. Prima che l’ordine di
scarcerazione arrivasse al campo, una squadra armata con perfetto
tempismo, si recò, di notte, al campo e portò via i Biamonti. Su di un
furgone furono trasportati nei pressi del cimitero di Savona, nel letto
di un ruscello, dopo un feroce pestaggio per piegare la loro
resistenza, vennero passati per le armi, i loro assassini li
trasportarono all’interno della cinta del camposanto, minacciando il
personale se avesse parlato, buttarono i 4 corpi in una unica fossa,
come ultimo gesto di odio, senza neppure le bare e poi se ne andarono.
Uno di loro tornò, qualche giorno dopo, e fece mettere sulla fossa una
lapide con un nome che non c’entrava nulla con i quattro Biamonti. Per
tre anni, gli amici e i loro parenti lottarono fra minacce,
intimidazioni, contro la cappa di piombo che aveva coperto la scomparsa
della famiglia Biamonti e della Elena Nervo.
Poi qualcuno, pare uno dei necrofori, iniziò a parlare e prima
lentamente e poi sempre con maggiore forza, la verità venne a galla
inarrestabile.
Il 29 luglio del 49, i carabinieri trovano la famosa fossa e portano
alla luce i corpi , oramai decomposti, dei Biamonti, da quel momento la
Giustizia degli uomini, seppur con fatica, inizia il suo cammino:
partono le indagini, i fermi, gli arresti spesso movimentati, gli
interrogatori e vengono processati e condannati i responsabili, i quali
erano tutti appartenenti alla polizia ausiliaria partigiana, i quali
sotto lo scudo della resistenza, imperversavano sulla intera città di
Savona. Per la morte dei Biamonti, gli assassini scontarono un pena
irrisoria, a causa della amnistia che li mandò liberi o prosciolti.
Alcuni di loro ebbero il posto di lavoro assicurato nonostante le mani
sporche di sangue.
La giustizia di Dio, tuttavia, perseguitò il loro capo, il più
feroce, e lo fece morire ancora giovane tra atroci tormenti.
Da allora, molti anni sono passati, ma un innamorato, oramai molto
avanti negli anni, non dimentica il suo amore per la povera Angiola
Maria la cui vita fu spezzata a 24 anni, e fa officiare una messa ogni
mese in suffragio presso la Chiesa dei Salesiani di Savona..
Roberto Nicolick

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Gli omicidi della “pistola silenziosa” 1944 – 1947 Savona Rosanna Pirosu, Francesco Binaero, Clotilde Biestra, Giuseppe Wingler, Dottor Francesco Negro, Ernesto Francesco Lorenza, Lucio Guerra, Amilcare Salemi, Rosa Amodio , Giuseppina Ferrari detta Lucia o Luciana Dalla fine di aprile del 1945 sino al 1947 inoltrato, Savona fu teatro di 12 omicidi seriali, effettuati tutti con la stessa arma : una pistola automatica, cal. 7,65, fabbricata nel 1935,munita di silenziatore. Un’arma che, secondo accreditate versioni, era stata paracadutata dagli alleati alle formazioni partigiane, in Valle Bormida, durante la Resistenza. Di certo in questa vicenda ci furono solo le vittime, morte ammazzate, l’arma infatti non fu mai ritrovata e sulla identificazione giudiziaria dell’assassino sussistono molti dubbi. La pistola fu sicuramente usata da diversi autori , tutte le vittime erano connesse tra di loro, non ci furono mai testimoni. E se ci furono si guardarono bene dal parlare. Pare che l’arma venisse tenuta impugnata e nascosta alla vista da un quotidiano appoggiato all’avambraccio. Le vittime erano legate fra di loro da più fattori : avevano fatto parte a vario titolo della R.S.I. e quindi dovevano essere ammazzati in quanto fascisti, oppure erano benestanti da spogliare dei beni, o indagavano sui delitti e quindi dovevano essere fermati. L’arma che sparava, denominata dalla opinione pubblica e dai giornalisti dell’epoca con il nome di “pistola silenziosa” era solo lo strumento operativa di un gruppo di soggetti, molto coesi tra di loro. Unica eccezione nella lunga fila di assassinati fu il Commissario di Polizia che indagava sui delitti, Amilcare Salemi. La pistola silenziosa aveva sparso il terrore in Savona e appariva e spariva come per magia a seconda della necessità, assumendo caratteristiche da vera ed unica protagonista, spersonalizzando la figura dell’assassino. Dopo l’omicidio, qualcuno provvedeva a nasconderla in attesa di un altro utilizzo. Alcune voci indicavano il nascondiglio in Ospedale, murata nelle camere mortuarie, oppure in Questura, nello sciacquone di un bagno. All’epoca la Questura era profondamente inquinata da poliziotti ausiliari partigiani comunisti, lo stesso il personale ospedaliero, un infermiere ausiliario si vantava di aver “steso” venticinque fascisti sul Colle di Cadibona in una vicenda nota come “la corriera della morte”. Molto verosimilmente la pistola , già nelle mani dei partigiani, fu usata nel settembre del 44 da una SAP, squadra di azione patriottica, per ferire mortalmente Rosanna Pirosu, impiegata presso la sede del PFR Partito Fascista Repubblicano abbattuta in un rifugio antiaereo Vado Ligure. L’arma fu usata al buio e nessuno dei presenti sentì il rumore dello sparo coperto dal silenziatore. Era l’ideale per uccidere senza essere notati. Poi nel primo semestre del 45, cadde Francesco Binaero e a seguire, la prima donna ad essere uccisa, dopo la Liberazione, fu Clotilde Biestra il 10 maggio 1945 i cui genitori erano già stati massacrati dai partigiani. Quindi un medico di Quiliano nel novembre del 1945, Francesco Negro, omicidio anomalo, infatti egli era un antifascista che si era permesso di dissentire pubblicamente nei confronti di tutte queste stragi e ruberie che erano iniziati dopo il 25 aprile. Negro fu l’unico a poter vedere gli assassini , senza tuttavia identificarli, morì il giorno successivo per le ferite riportate all’addome. Poi toccò a Giuseppe Wingler il 4 dicembre 1945, ex squadrista già appartenente alle Brigate Nere, quindi Giuseppina Ferrari ex ausiliaria SAF( servizio ausiliario femminile ) uccisa il 15 gennaio 1946 mentre era uscita a comprare il latte e Lucio Guerra ex Brigata Nera assassinato sul treno mentre sostava ad Albisola il 10 settembre 46 sempre con l’arma silenziata . Un riferimento a parte merita Ernesto Lorenza ufficiale della G.N.R.( Guardia Nazionale Repubblicana)al momento della Liberazione, aveva in consegna la cassa dei valori , giunto in Valle Bormida ad un posto di blocco partigiano ad Altare, parrebbe che avesse barattato la sua salvezza consegnando la cassa. Questi valori cambiarono di tasca, ma bisognava tappare la bocca ai testimoni. Se ne incaricò il killer della pistola silenziata che raggiunse Lorenza ricoverato in ospedale a Savona e gli tappò la bocca con un colpo alla nuca, il Lorenza era bendato agli occhi e passò dalla vita alla morte quasi senza accorgersene. Nessuno dei presenti vide nulla, i poliziotti ausiliari partigiani che piantonavano gli ingressi del nosocomio, stranamente non si accorsero di nulla e l’assassino poté entrare, agire e uscire indisturbato. Alcuni dicono che molti infermieri del San Paolo fossero complici con il killer. Per indagare su questi omicidi e su altre atrocità che proseguivano senza sosta, arrivò un commissario di polizia da Como, Amilcare Salemi.Il funzionario iniziò ad indagare su alcuni personaggi legati al mondo della Resistenza e forse stava per raggiungere i colpevoli ma venne ucciso prima di concludere le indagini. Assassinato anche lui dal killer seriale della pistola con il silenziatore, che gli sparò alle spalle mentre cenava nella sala ristorante dell’Hotel Genova di Savona. I suoi collaboratori e la moglie ricevettero delle minacce e i documenti relativi alle indagini da lui condotte sparirono dal suo ufficio. Dopo il Commissario , fu eliminata Rosa Amodio, una maestrina di appena ventiquattro anni, una bella ragazza mora, che era stata ausiliaria della R.S.I., la giovane dopo il 25 aprile , stette lontana da Savona e poi , pensando di essere sicura da rappresaglie, tornò a casa e al suo lavoro di insegnante. Mentre una sera tornava a casa in bicicletta, fu affiancata da un’auto dal cui interno le spararono un solo colpo preciso, freddandola. La ragazza rimase a lungo sull’asfalto accanto alla sua bicicletta prima che alcuni passanti si fermassero a prestarle aiuto, ma era morta sul colpo, anch’essa colpita dalla pistola automatica con il silenziatore. Il suo fidanzato Lorenzo Calzia voleva trovare gli assassini per vendicarsi, ma una notte, qualcuno gli imbottì la porta di casa con un bel po di tritolo facendola esplodere e da allora smise di cercare chi gli aveva ucciso la fidanzata. Tutti questi omicidi avevano una regia ed un’apprestamento complessi, meticolosi e militari: c’era chi deteneva in custodia l’arma e la manteneva in efficienza, c’era chi decideva i bersagli, c’era chi consegnava lo strumento di morte e accompagnava il boia ad un sopraluogo prima dell’azione, c’erano gli osservatori che tenevano d’occhio il bersaglio e si allontanavano poco prima dell’azione e poi c’era chi riaccompagnava l’esecutore al sicuro creandogli un alibi e riprendendo la pistola in consegna. Pochi potevano contare su una simile organizzazione. A Savona l’opinione pubblica era terrorizzata , iniziarono le indagini, agli inquirenti arrivarono delle lettere anonime che indirizzarono i sospetti verso un Sanremasco, Pietro Dal Vento, 55 anni via Tafoletti 38, panettiere con precedenti ( 18 mesi per furto, 2 anni per appropriazione indebita e dopo la guerra ancora una condanna per truffa) , il quale appena interrogato si lasciò andare frettolosamente a una confessione, affermando di essere l’autore degli omicidi del Commissario Salemi e della Maestra Rosa Amodio, dicendo di esserne stato l’autore, per motivi ideologici, in concorso con altri soggetti. Dal Vento era una personalità molto particolare, soggetto a picchi caratteriali alti e bassi. Nel corso degli interrogatori, fece alcuni nomi di ex partigiani come complici e mandanti, i quali furono in parte, fermati e interrogati e successivamente in parte rilasciati e in parte prosciolti dopo un processo molto breve. Chi rimase sempre “ al gabbio “ fu invece lui, Pietro Dal Vento con l’imputazione di duplice omicidio aggravato. Egli sapeva molto di più di quanto volesse fare credere ai giudici. Era capace di violenti accessi d’ira, insultava spesso i suoi legali e la stessa Corte gridando ai Giudici “ burattini e fascisti” raccogliendo una condanna per ingiurie alla Corte, in carcere aggrediva il personale penitenziario e per questi gesti eclatanti, transitò e soggiornò in due manicomi criminali, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia dove tra l’altro venne curato per una grave forma di TBC. Dal Vento seguiva una strategia suggerita da altri, dichiarava e poi ritrattava l’indomani, destabilizzando la corte. Faceva nomi di complici che poi smentiva nelle udienza successive, sulla sue affermazioni si nutrivano molti dubbi. Seguiva il processo seduto in un angolo della gabbia, con i capelli neri tutti impomatati , un paio di baffetti e lo sguardo acuto da rapace, fumando una sigaretta dopo l’altra, nervosamente. Dal Vento affrontò due diversi gradi di giudizio, nel primo a Savona fu condannato, unico colpevole, per duplice omicidio a trenta anni in primo grado nel novembre del 1951, grazie alla sua riconosciuta semifermità di mente, quindi in appello alle Assise di Genova nel 53, gli verranno comminati vent’anni e otto mesi , di cui due anni condonati. Dal vento morirà di lì a poco divorato dalla tubercolosi , portandosi i nomi dei mandanti e degli altri assassini nella tomba. Pietro Dal Vento fece parte dell’intrigo della pistola con il silenziatore, con un ruolo parziale , ma ovviamente non aveva le caratteristiche per agire da solo. Gli altri personaggi, tutti ex partigiani comunisti, che ebbero la chiamata a correo da parte di Dal Vento, non subirono alcuna condanna, anzi alle udienze tennero un atteggiamento arrogante verso la corte, intimidirono i testimoni e i legali delle parti civili che furono anche malmenati.