lunedì, dicembre 12, 2011

AD ERICA CORTESE IL PREMIO "ISTRIA AMATA"


AD ERICA CORTESE IL PREMIO “ISTRIA TERRA AMATA”

L’affermazione secondo cui i giovani sarebbero insensibili alla tragedia giuliana e dalmata, pur trovando conferme tanto tristi quanto frequenti, ha le sue brave eccezioni, fra cui vogliamo segnalare quella di Erica Cortese, giovane studentessa del Liceo Scientifico, nipote di Esuli da Pola, che ha voluto dedicare la sua tesi di maturità proprio alle Foibe ed al grande Esodo.
Ne è scaturita una monografia di ottimo valore, quale sintesi obiettiva e documentata di quanto accadde in quegli anni plumbei, che “L’Arena di Pola” ha ritenuto degna di pubblicazione in apposito opuscolo, distribuito agli abbonati e diffuso in occasione di alcune manifestazioni del Ricordo.
A riconoscimento della gratitudine e dell’apprezzamento per il suo lavoro, anche il Comune di Pola in Esilio ha voluto dare ad Erica, ora universitaria, un attestato ufficiale: il Premio “Istria Terra Amata” costituito da una bella targa personalizzata che il Sindaco, Prof. Argeo Benco, ha consegnato ad Erica in una commovente cerimonia  svoltasi il 4 dicembre a Torino, alla presenza di un folto gruppo di esuli e di amici.
Il nostro Comitato si unisce ai complimenti di rito, con l’auspicio che l’esempio di Erica venga seguito da altri e che il buon seme del suo generoso impegno possa rapidamente germogliare.


LICEO SCIENTIFICO STATALE
“L. LANFRANCONI”
GENOVA





L’ESODO  DIMENTICATO


“LA GUERRA E’ LA LEZIONE DELLA STORIA CHE I POPOLI NON RICORDANO MAI ABBASTANZA”



ERICA CORTESE






CORSO TRADIZIONALE

CLASSE QUINTA - SEZIONE “I”




ANNO SCOLASTICO 2009-2010









                                                                   Premessa



    Questa ricerca storica ha lo scopo di dimostrare che le foibe sono state certamente una delle cause prioritarie (assieme a tutte le altre persecuzioni, quali annegamenti e fucilazioni, e come l’eccidio di Vergarolla del 18 agosto 1946 in cui l’OZNA fece scoppiare un deposito di bombe in prossimità della spiaggia, causando oltre un centinaio di Vittime) dell’Esodo: mi sono limitata a riportare testimonianze pubblicate, italiane e slave, che dimostrano che gli infoibati non sono fantasmi inventati dai profughi per giustificare un “esodo sconsiderato”, ma che gli incredibili infoibamenti si sono realmente verificati in diverse parti dell’Istria.

     Tratterò la storia del calvario e del travaglio della Venezia Giulia durante l’ultima guerra e documenterò le cause che determinarono la fuga  di quasi  tutta la popolazione italiana: è una storia di sangue, di morti, di fughe, d’infoibamenti  barbari e crudelissimi.

   “Giudicate Voi, connazionali e stranieri, uomini di studio e d’azione, d’ogni classe e di ogni partito, se questa nostra terra istriana non sia degna di tutto l’amore che le portiamo, non sia  inconfondibile nel carattere della sua civiltà; e pertanto non sia un delitto spartirla, soffocarla, snaturarla”. Questo angoscioso appello di Giani Stuparich è l’eco del dolore di centinaia di migliaia di profughi che vissero e vivono nel silenzio più amaro e dignitoso.

   Inoltrarmi in queste vicende e nel voler conoscere il motivo dell’abbandono di terre amatissime vuol essere anche la ricerca delle mie radici per capire perché il mio bisnonno ha abbandonato lavoro, casa, tombe, amicizie, ricordi per andare verso l’ignoto con la sua numerosa famiglia (dieci persone,  tra cui un nipotino di pochi mesi e un suocero di 80 anni).

     Desidero conoscere questa terra nella sua posizione geologica e geografica e prima di tutto nella sua storia.


     e.c.


 
La penisola istriana nella sua attuale configurazione politica divisa tra la Slovenia e la Croazia.



     L’Istria, la più grande penisola adriatica, è un triangolo rovesciato di 4.956 chilometri quadrati. La base di 67 chilometri è attaccata alle radici del  Carso triestino. A nord e ad est è difesa dalla bianca cerniera delle Alpi Giulie e dalle creste dei monti Tricorno (2863 metri), Nevoso (1796 metri) e Maggiore (1396). Si allunga per 48 chilometri, si restringe fino ad immergere il vertice nel  Quarnero. E’ fasciata da una costa di 500 chilometri, frastagliata da porti e da baie sabbiose, circondate da rocce che catturano e difendono il tepore. Il fiordo di Leme ha le pareti strettissime, alte 150 metri e l’acqua profonda 20 metri. Il porto di Pola è lungo cinque chilometri ed è protetto da sette colli. I carghi per il carbone s’insinuano attraverso un canale industriale fino alle miniere dell’Arsa. A sentinella delle cittadine costiere, ingioiellate di logge,  bifore e  campanili veneziani, ci sono molte piccole isole che nelle pinete nascondono ville e monasteri. Dopo Fianona, sotto il mare, sgorgano numerose polle d’acqua tiepida a dieci gradi; tra Moschiena e Bersezio, da un fondo marino profondo 120 metri e largo 60, sgorga un getto violento di acqua calda che attira i bagnanti e i pesci.

     I geologi la dividono in tre settori. L’Istria bianca, così chiamata per le pietre nude e biancastre nella parte settentrionale, è un altopiano di circa 500 metri sul mare che costituisce il Carso istriano: “un’enorme spugna pietrificata”. L’Istria grigia, per i calcari sciolti nell’era terziaria, occupa la parte centrale: è costituita da dossi collinosi, solcati da valloni, coperti da una vegetazione bassa e contorta di roveri, querce, lecci, betulle, aceri e faggi. Si estende fino a Pola, “l’antico ager” che la legge agraria “Julia” del 49 d.C. aveva assegnato ai fanti, ai centurioni, ai veterani delle guerre di Augusto. Comprende tutta la valle del Quieto fino a Montona: è la più bella e la più ricca. C’è infine l’Istria rossa, per le terre argillose, che si estende per i centri di Parenzo, Orsera e Fontane: quanto al 60 per cento predomina il pascolo e quanto al 40 per cento il seminativo; il turismo vi ha installato villaggi ed alberghi.

     I geografi hanno scelto la nostra parola “Carso” per indicare un altopiano di petraia corrosa, che si  presenta come tante schiene taglienti di antichi dinosauri pietrificati. Le creste sembrano arabeschi di pietra, tra chiazze di sole e di vegetazione spremuta dalle fessure: una terra gialla, rossa, viola di arbusti, di argilla sanguigna. Ogni tanto si ripiega e si riposa in una collina di verde intenso, sprofonda improvvisamente nelle gole gibbose delle foibe, che si aprono in caverne tortuose e nere dove i torrenti scrosciano e urlano nel mistero.

     Un esempio classico è il Timavo, il fiume sacro del Carso, del quale parlano Livio, Strabone, Sempronio Tuditano e lo stesso Virgilio. E’ un’ondata di 230 mila metri cubi d’acqua che precipita da un’altezza di 670 metri dopo un breve percorso di 71 chilometri; l’ondata scende nelle gole sotterranee per 37 chilometri creando gallerie urlanti per esplodere in mare, come dice Virgilio, “con nove bocche che fanno rintronare i monti circostanti”. Pagani e cristiani l’hanno divinizzato costruendo templi alle sue foci in onore di Ercole, della “Spes Augusta” e di San Giovanni Battista. Anche i fiumi Risano, Quieto e Arsa corrono in superficie, precipitano scrosciando negli anfratti, scavano cunicoli, creano laghi e cupole, infine riappaiono freschi e veloci fra le rocce. Da questo manto argilloso e selvaggio la flora sboccia in un festa originale di colori tenui e fiammeggianti di essenze e di profumi.


















LA STORIA DELL’ISTRIA

     In queste terre, nella prima guerra mondiale italiani e austriaci  hanno sparato l’uno contro l’altro con le scarpe nel fango; nell’ultima guerra i soldati si sono inseguiti ed uccisi con rabbia. Almeno dodici mila persone, vive e morte, sono state gettate come rifiuti nelle voragini; centinaia di profughi, braccati dalle mitragliatrici, si sono mimetizzati tra le pietre e i cespugli, molti sono rimasti appesi al filo spinato. L’alito gelato e violento della bora, l’odio e l’eroismo degli uomini hanno graffiato, inciso storie folgoranti di colori e di tragedie, di preghiere e di maledizioni. Scrittori come Svevo e Slataper l’hanno celebrato come un altare sacro e maledetto, sotto un velo di sogni e di ricordi.
     L’Istria ha costituito durante la storia una frontiera difficile e tormentata tra la civiltà latino-veneziana e quella slava. La dinamica strutturale della popolazione è stata condizionata da particolari fattori storici, culturali e commerciali che ne hanno determinato il carattere.
     Possono essere individuati sei periodi principali. 



 1 - PREISTORIA

      Il nome Istria deriva da “Histrum”, un affluente del Danubio che scorre a nord della penisola. I primi abitanti, usciti dalle caverne nell’età del bronzo, costruirono i “castellieri”, costruzioni con pietre a secco con una cinta per la gente e una per custodire gli animali. Era popolata da Veneti nel nord, da Liburni lungo la costa, da Istri nel sud. Nel 400 a.C. ebbe luogo una rilevante infiltrazione celtica che si mescolò con gli Illiri e con i Giapidi.


2 - IMPERO  ROMANO (177 a.C. - 493 d.C.)

      Per sei secoli l’Istria visse nella “Pax Romana”: fondata Aquileia (Forum Julii), i Romani inviarono in Istria 15 mila coloni e fondarono le colonie di Trieste (Tergeste) e di Pola (Pietas Julia, dal nome della figlia di Augusto), i municipi di Parenzo (Parentium), i “Vici” (villaggi) di Fasana (Fasanum), Orsera (Ursaria),  Rovigno (Rubinium),  Umago (Humagum) e  Nesazio  (Nesathium); la grande via Flavia collegò Trieste, Pola e Fiume (Tarsatica).
      Nel 27 a.C. Augusto concesse loro la cittadinanza romana; nello stesso anno il Senato divise l’Italia in undici Regioni e creò la “Decima Regio Venetia et Histria” che si estendeva dall’Oglio all’Arsa e dalle Alpi al Po. Il “Magister militum” aveva la sua sede a Pola. All’età di Costantino ebbe inizio la costruzione dei “Clausura Alpium Juliarum”, uno sbarramento per bloccare le invasioni dall’Oriente: “si tratta di un poderoso ed unitario sistema difensivo, steso lungo i rilievi del Carso e delle Alpi Giulie, da Tarsatica (Fiume), sul golfo del Carnaro, fino a raggiungere la valle dell’odierna Carinzia. Articolato in torri di vedetta, castelli, installazioni militari, posti di controllo e lunghi muraglioni, veniva a sbarrare la strada diretta da Lubiana ad Aquileia”. La Provincia diede guerrieri, tribuni, consoli, senatori ed ammiragli, e Roma lasciò le orme nobilissime della sua arte: a Trieste il Colle capitolino, il Foro ed il Teatro; a Brioni terme e ville; a Parenzo il Palazzo Pretorio ed il lapidario; a Pola l’Anfiteatro, l’Arco dei Sergi ed il Tempio di Augusto, due teatri, la Porta Gemina e la Porta d’Ercole (il più antico monumento romano del nord Italia, costruito nel 40 a.C.); a Fiume l’Arco Romano; a Zara il Foro; a Spalato il Palazzo di Diocleziano.



3 - IMPERO  D’ORIENTE (553 - 830)

     L’ondata dei barbari attraversò le Alpi e fece tremare l’Impero Romano; gli istriani si rifugiarono sulle isole e sulla costa, non raggiungibili dai carriaggi. Sorsero così Isola, Capodistria, Pirano, Parenzo, Rovigno, poi gli abitanti costruirono dei ponti ed infine degli istmi. L’Istria passò sotto Ravenna: Teodorico la sfruttò “come dispensa della città reale” (Cassiodoro, ministro di Teodorico); sorse la Basilica eufrasiana di Parenzo, splendente di meravigliosi mosaici dell’arte ravennate. Il Cristianesimo, partito da Aquileia, si diffuse attraverso la via Flavia e fondò le diocesi di Parenzo, Pola, Cittanova, Capodistria e Pedena. Nel 788 l’Istria passò a Carlo Magno, sotto il quale si instaurò il sistema feudale nelle mani del Duca Giovanni, che soppresse le autonomie comunali.
     Gli slavi avevano tentato, ma con scarso successo, di insediarsi in Istria nel 599 a seguito degli Avari, nel 602 a seguito dei Longobardi e nel 611 da soli; apparvero poi in piccoli gruppi nei secoli IX e X.
     “La lotta per la conquista della regione giuliana si riassunse storicamente tra Romani e Germani e, nell’ultimo secolo anche fra italiani e slavi. Ciò mette in luce uno dei fatti fondamentali di questa storia: mai, o quasi, gli slavi del sud, i croati o gli sloveni, hanno preso parte direttamente in questo conflitto di sovranità, sino al 1918. Il regno croato ha potuto soltanto sfiorare la regione giuliana nei secoli  X e XI”. 
     Nell’804, su iniziativa del Patriarca di Aquileia, ebbe luogo il “Placito di Risano”, una riunione dei rappresentanti di tutte le città istriane, dei Vescovi e dei Giudici. Questi accusarono i “Missi Dominici” di Carlo Magno e il Duca Giovanni perché non rispettavano i loro diritti; chiesero così l’allontanamento dei “Paganos Sclavos”, altrimenti avrebbero preferito morire. Il Duca Giovanni, scosso dalle accuse, promise che li avrebbe espulsi: “Nos Eos Ejciamos Foras”. Egli fu allontanato, e furono ripristinati i diritti degli istriani, la magistratura e i tribunali secondo le tradizioni romano-bizantine, e gli slavi furono confinati in territori marginali.


4 - REPUBBLICA  DI  VENEZIA (830 - 1797)

     La presenza di Venezia incontrò difficoltà nello spirito d’indipendenza degli istriani, nell’opposizione dei duchi di Baviera (952), dei conti di Corinzia (976), dei Weimar, dei conti di Gorizia e dei patriarchi di Aquileia, ma col tempo, sia pure tra vivaci lotte, la presenza di Venezia si affermò su tutta l’Istria, i cui abitanti, sconfitti come nemici, prima diventarono sudditi irrequieti, poi amici, ed infine si integrarono nella cultura, nell’arte, nelle sventure e nelle vittorie di Venezia. Il Leone di San Marco è stato il simbolo della presenza veneziana: il primo apparve nel 1250 su una vecchia torre dell’isola di Veglia; da allora lo troviamo sulle facciate delle chiese, dei palazzi comunali, sulle porte d’ingresso.
     Il commercio, l’arte, la lingua e la comune amministrazione hanno creato fra le due sponde un ponte straordinariamente ricco di cultura, di civiltà e di religione: l’Istria e la Dalmazia hanno dato alla Serenissima dogi, capitani, magistrati ed equipaggi; hanno fornito la pietra bianca per le chiese, per i campielli, per Piazza San Marco, per il Palazzo Ducale, per le scalinate dell’Arena di Pola (una targa sull’Arena ricorda il Doge veneziano che ne impedì il completo smantellamento per ricostruirla a Venezia), per la Cà d’Oro, per molti edifici pubblici, e legname per i cantieri navali, per le vetrerie di Murano e per i focolari. Sono di pietra istriana le facciate di S. Giorgio, del SS. Redentore, di San Francesco della Vigna del Palladio, dei palazzi Pesaro, Rezzonico, delle Procuratie Nuove, la Basilica della Salute, i ponti, le vere dei pozzi, gli stipiti delle finestre, il Forte di S. Andrea del Sanmicheli. Nella prestigiosa architettura veneziana c’è una piccola Istria: le quattro colonne di marmo di marmo greco che sostengono l’arco trionfale del presbiterio della Madonna della Salute provengono dal teatro romano di Monte Zaro presso Pola. Alcuni storici affermano che anche le quattro colonne di alabastro, scolpite con storie sacre, che sostengono il ciborio di S. Marco, sono state tolte alla Basilica della Madonna del Canneto di Pola. Venezia esportò i suoi ordinamenti, le sue scuole, la sua architettura nelle chiese, nei palazzi, nelle logge. Quattordici galere istriane e dalmate, con propri equipaggi, parteciparono alla battaglia di Lepanto, grande vittoria della Cristianità, nel 1571.
     Dal 1347 al 1650 la peste s’abbatté sull’Istria: la peste nera, untuosa, corrodeva la pelle degli uomini e degli animali, la corteccia degli alberi e i germogli dei fiori. Poiché le guerre contro i turchi e le pestilenze avevano decimato la popolazione, Venezia importò tra il 1520 e il 1541 migliaia di slavi nelle campagne di Pisino, Rovigno, Parenzo e Pinguente:  per invogliare la loro immigrazione, li esonerò per cinque anni da tutti i tributi. Si trattava di gente povera, rozza e violenta, dedita alla pastorizia ed alla coltivazione dei campi. Nel 1625 la popolazione di tutta l’Istria si era ridotta a 39 mila persone spaurite; una relazione del Senato veneziano parla di “paese horrido et inculto”. Per ripopolarlo Venezia chiamò bosniaci, morlacchi, albanesi che però non coltivavano la terra, erano mandriani, ladri di buoi e di cavalli, grassatori di strada, devastatori di selve e di boschi per legname da fuoco.
     In Istria l’italianità non fu importata da un’immigrazione esterna, ma si sviluppò “in loco” sul ceppo romano e veneziano come è avvenuto in tutte le regioni italiane: nell’incontro tra due civiltà prevale la più ricca e moderna.
     Lo storico austriaco Veiter scrive: “Nei territori adriatico-dalmati gli italiani appartenevano fin dai tempi remoti a ceti sociali elevati. Il dislivello sociale tra italiani e slavi deriva dall’originario livello culturale, molto più elevato, dei veneziani rispetto agli slavi”.
     Quando nel 1797 la Repubblica di Venezia cadde, in Istria e Dalmazia gli stendardi della Serenissima vennero nascosti sotto gli altari e si continuò a celebrare la festa di San Marco. Con il trattato di Campoformio, Venezia ed i suoi territori furono ceduti all’Austria.


5 - MONARCHIA AUSTRIACA (1797 - 1918)

     Si tratta di un dominio di 121 anni, interrotto dal 1806 al 1815 dal Regno napoleonico d’Italia. L’Austria delle fredde nebbie danubiane spalancò con l’Istria una porta verso il mare caldo del Mediterraneo: i grossi mercanti tedeschi e austriaci, i conti e i baroni costruirono castelli e installarono agenzie d’affari con l’Oriente e con tutta l’Europa: l’Austria adornò Trieste di una sontuosa architettura, le diede il porto franco e nuove banchine trasformandola in un emporio mitteleuropeo (simbolo di questa grandiosità è rimasto il bianco Castello di Miramare). Il grande porto di Pola accolse la nuova flotta della “Imperiale Regia Marina”.
     A Pola si installarono 16 mila marinai e gli ammiragli con le loro famiglie; il cantiere militare diede lavoro a migliaia di altre famiglie. Fiume, come porto commerciale d’Ungheria, diventò un centro cosmopolita di affari: il benessere ed un certo orgoglio si estesero nel mondo degli affari, della marina e della gente.
     Sotto, fremeva l’irredentismo italiano che si espresse in manifestazioni eroiche come quelle di Oberdan, Sauro, Filzi, Rismondo. L’Austria lo teneva sotto controllo con la forca, con l’appoggio alla minoranza slava, con l’investitura di vescovi austriaci e slavi a Pola, Trieste e Gorizia, con le visite sfarzose di imperatori, di arciduchi e di principesse in occasione di inaugurazioni di ferrovie, degli impianti di luce elettrica, del varo di navi, di manifestazioni religiose; e con la libertà di lingua e di costumi.
     Nel 1915, allo scoppio della Grande Guerra, gli austriaci condannarono all’internamento di Wagna 22 mila italiani dell’Istria, perché ritenuti politicamente sospetti: era un campo di dodici baracche di legno, da cui molti prigionieri venivano smistati negli altri campi sparsi per tutto il Regno. A Wagna esiste una croce in pietra bianca che ricorda 2920  istriani: quelli che vi trovarono la morte lontano dalla loro patria.
     L’Austria, per dominare i vari popoli, spesso nemici tra loro, che facevano parte del suo impero, adottò la politica del “divide et impera”. In due lettere del 6 e del 21 luglio 1848 l’amministrazione austriaca di Capodistria scriveva a Don A. Pavsler, parroco di Crociata, che “l’imperatore aveva piena fiducia soltanto negli slavi, apprezzava la loro fedeltà e sentiva il prezioso suo dovere di esaudire i desideri degli slavi dell’Istria” (Androvic, “La questione croata”, 1903).
     L’Austria, nonostante la sua propaganda non fu capace di spegnere lo spirito italiano nemmeno negli operai dell’arsenale di Pola: non valsero i libri “zeppi di vittorie asburgiche e di sconfitte italiane”; l’esaltazione dell’ammiraglio Tegethoff, vincitore a Lissa; l’invio nelle scuole dei “ringhiosi ispettori slavi”; il parlare dell’Italia come sinonimo “di miseria, di sporcizia, di grettezza, di inettitudine  a qualunque seria occupazione, mentre l’impero austriaco era costituito da gloriosi ammiragli, da una lingua  che garantiva una carriera sicura; da ingegneri appartenenti ad una razza ritenuta superiore e privilegiata; da un popolo, destinato da Dio a condurre il mondo sulla giusta strada”. Un imperialismo che, sfruttando tutte le vocali, si sintetizzava nella sigla  AEIOU: “Austriae Est Imperare Orbi Universo”.
     Eppure questa politica non ha provocato esodi di massa come avverrà sotto Tito. Per gli italiani, però, l’Austria con i suoi gendarmi politici, i suoi colori e la sua cultura danubiana, era pur sempre straniera.


6 - MONARCHIA  ITALIANA (1918 - 1945)

     Il trattato di Versailles del 28 giugno 1919 assegnò la Venezia Giulia all’Italia; poi fu completato con quello di Rapallo del 22 novembre 1920 che assegnò all’Italia la città di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e da quello di Roma del 27 gennaio 1924 che le assegnò anche Fiume e cedette Porto Baross alla Jugoslavia.
     Il passaggio dall’Austria all’Italia ebbe ripercussioni profonde sul piano economico-sociale: il porto di Trieste non fu più lo sbocco al mare di un entroterra  europeo statualmente omogeneo, Pola non ebbe più il ruolo di scalo strategico di una grande potenza militare, l’agricoltura istriana soffrì subito la concorrenza delle ricche campagne venete e friulane.
     Ad applicare i nuovi ordinamenti arrivarono i funzionari statali, che la gente avvertiva diversi per cultura e tradizione e chiamava “regnicoli”. Con i contadini croati e sloveni, che in genere capiscono il dialetto istro-veneto, ma non la lingua italiana, l’incomunicabilità si tradusse in forme di ostilità, tanto più che il nuovo Stato si presentava anche con il volto, severo e inflessibile, del fisco. La gente dei campi era abituata al sistema fiscale austriaco, rigido nell’accertamento ma duttile nella riscossione e si trovò a dover affrontare il fisco italiano, molto più rigido.
     L’Istria è una terra povera di acqua e ricca di sassi; solo lungo la costa occidentale la terra è meno avara e i contadini seminano ogni appezzamento di terra sui fianchi delle colline e destinano i declivi più ripidi al pascolo; il reddito più consistente viene dal vino e dall’olio. Con le nuove condizioni fiscali le medie e piccole proprietà non poterono reggere: molte terre andarono all’incanto e passarono in proprietà di alcuni avventurieri politico-finanziari venuti da altre regioni, di commercianti creditori, ma soprattutto degli istituti di credito fondiario.  
     Nella Venezia Giulia il Governo fascista decise di attuare sin dall’inizio una politica della “mano dura”: nei confronti degli slavi, definiti allogeni, la parola d’ordine fu subito quella di “assimilazione”. Il Decreto regio che dispone di italianizzare tutta la toponomastica è del 1923 e quello relativo all’italianizzazione dei cognomi reca la data del 1928, ma si tratta di atti governativi che sanciscono processi di fatto, avviati da anni. Già dal 1919, in epoca prefascista, le autorità militari avevano impartito l’ordine di non usare le lingue slovena e croata nei luoghi pubblici.
La riforma della scuola varata dal ministro Giovanni Gentile (ottobre 1923) decreta (art. 17) la cessazione dell’insegnamento in lingua straniera entro i confini del regno.
     L’austriaco Veiter scrisse: “In tutto il territorio in questione gli italiani avevano avuto il predominio politico ed economico ed avevano dato il tono culturale, non solo sin dai tempi del dominio di Venezia, ma anche dove gli Absburgo dominavano dal primo Medio Evo. E questo predominio rimase intatto sino al 1918”. Infatti nel 1914, sotto l’Austria, c’erano in Istria 50 Comuni, dei quali 13 con amministrazione slava e 37 con amministrazione italiana. Tra questi ultimi figurano tutti i centri più importanti per numero di abitanti e per attività economiche e culturali, come  Trieste, Pola, Fiume, Capodistria, Rovigno, Cherso, Lussino, Albona, Dignano. Nel 1914 in 118 centri della Venezia Giulia erano state censite 69 scuole italiane, 26 slave e 15 mistilingui. Durante la guerra 1914-1918 ben 2107 giuliani, dei quali 1030 ufficiali, passarono clandestinamente la frontiera e si arruolarono nell’esercito italiano, rischiando la forca. Questo spirito d’italianità ha trovato conferma nel glorioso e doloroso primato dei Caduti giuliani durante l’ultima guerra, nei confronti di tutte le altre Regioni italiane. La Venezia Giulia ha avuto 30 Caduti ogni mille abitanti, seguita dal Friuli con 16, ma la media nazionale è di dieci Caduti ogni mille abitanti (Istat).


                                                                      * * *


                                    JUGOSLAVIA (1943 - 1947).


PRIMA OCCUPAZIONE: dal 9 settembre al 13 ottobre 1943.   

     Il 6 aprile 1941, a seguito del colpo di stato di Belgrado e del suo cambiamento di campo, l’Asse dichiara guerra alla Jugoslavia e dopo cinque giorni le truppe italiane entrano a Lubiana ed occupano tutta la Dalmazia: dopo solo 11 giorni la Jugoslavia capitola e chiede l’armistizio. L’Italia  istituisce il Regno di Croazia ed il Governatorato della Dalmazia.
     L’8 settembre 1943 l’Italia, dove il Governo del Maresciallo Badoglio ha sostituito quello di Mussolini, chiede l’armistizio agli Alleati e i partigiani slavi ne approfittano e dilagano nella Venezia Giulia: Trieste, Pola e Fiume dopo poche settimane vengono recuperate dai tedeschi. Questa prima occupazione slava dura 35 giorni, ma poi i tedeschi, appoggiati da gruppi italiani della nuova RSI, riprendono il controllo del territorio giuliano. Il 13 ottobre rigettano oltre il vecchio confine gli ultimi slavi e costituiscono a Trieste l’“Operations Zone Adriatisches Kùstenland” (Zona di operazione del  Litorale Adriatico) sotto il comando di un “Oberster Kommissar” (Supremo Commissario).
     L’Istria era rimasta in mano ai partigiani  per poco più di un mese, ma in quel periodo si ebbero una serie di processi da parte di improvvisati tribunali popolari, confische di beni, rappresaglie e sopra tutto uccisioni di massa, con l’eliminazione  delle Vittime nelle foibe del sottosuolo carsico o nei pozzi delle cave di bauxite. Gli eccidi ebbero il carattere di una rappresaglia brutale, ispirata da alcuni croati autoctoni che volevano indirizzare l’insurrezione partigiana sul binario di una rivincita nazionale e sociale contro l’Italia. L’elenco delle Vittime non è interamente conosciuto ed il quadro della tragedia istriana del settembre-ottobre 1943 non è del tutto definito. Nel ricordo di molti istriani resta una stagione di terrore  in cui gli uomini del nuovo potere si aggirano per i paesi armi in pugno, minacciano epurazioni e vendette e, soprattutto di notte, penetrano nelle case prelevando uomini e donne sulla cui sorte nulla dicono. La politica del potere popolare si abbatte su tutto il gruppo etnico italiano, e tende a colpire specialmente la classe dirigente di ogni attività, per eliminare coloro che erano stati i punti di riferimento comune.
      Il  Litorale Adriatico è considerato dai tedeschi, se non altro in via di fatto, come territorio appartenente al Terzo Reich: emanano nuove leggi, tentano di dare un nuovo assetto civile alle zone plurietniche, riaprendo scuole con l’insegnamento in sloveno e croato, inserendo traduttori negli uffici pubblici, affidando ad ufficiali germanici, che siedono accanto ai giudici ordinari, l’amministrazione della giustizia. Il controllo del territorio è per loro, naturalmente vitale e la repressione della lotta partigiana è condotta con i metodi più duri.
      Nei primi mesi del 1944 i tedeschi fanno affluire a Trieste un reparto specializzato nell’eliminazione dei corpi dei prigionieri uccisi, che ha fatto esperienza nel campo di sterminio di Treblinka. La vecchia pilatura di riso di Trieste a San Sabba, fino allora utilizzata come centro di smistamento di ebrei e di soldati italiani non collaborazionisti verso i “lager” allestiti in Austria, Polonia e Germania, viene trasformata in campo di concentramento con l’accensione di un forno crematorio. La Risiera di San Sabba è l’ultima meta per centinaia di ebrei rastrellati in tutta la zona, ma soprattutto il luogo di eliminazione di alcune migliaia di partigiani italiani, sloveni e croati catturati nei rastrellamenti, o di persone sospettate di far parte del movimento politico clandestino.


SECONDA OCCUPAZIONE: dal 1 Maggio al 15 Giugno 1945.

     Interessa tutta la Venezia Giulia da Gorizia a Zara.
     Verso la fine dell’aprile 1945 i tedeschi si ritirano, gli slavi occupano tutta l’Istria, comprese le città di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume; Zara è nelle loro mani già dal 30 ottobre 1944. Questa seconda occupazione dura 45 giorni per i principali centri urbani. Nel periodo tra il 12 e il 15 giugno gli jugoslavi, per ordine degli Alleati, abbandonano i centri urbani di Gorizia, di Trieste e di Pola, che passano alle dirette dipendenze del Governo Militare Alleato. Tutto il rimanente territorio giuliano, comprese le città di Fiume e Zara, rimane definitivamente sotto il controllo della Jugoslavia: si ritorna all’orrendo periodo dell’autunno 1943.
     Già da allora era iniziato l’esodo degli italiani, a cominciare da quelli che erano stati più in vista durante il passato regime. Tale esodo continuò negli anni successivi, ma raggiunse proporzioni bibliche dopo la firma del trattato di pace del 10 Febbraio 1947.


TERZA  E DEFINITIVA OCCUPAZIONE:  ha inizio il 15 Settembre 1947.

     Con l’entrata in vigore del trattato di pace gli Alleati abbandonano la città di Pola, che viene occupata dagli slavi. In attesa della costituzione del Territorio Libero di Trieste, il trattato  affida la Zona A (Trieste) all’amministrazione militare provvisoria alleata e la Zona B (Pirano, Capodistria, Umago, Buie, Cttanova ) a quella  jugoslava.



LA VIOLENZA SCONVOLGE L’ISTRIA

     “Mi hai gettato nella fossa profonda, in caverne tenebrose, in abissi. Fra i morti è il mio giaciglio” (Salmo 88). “Quante volte questo grido di sofferenza si è dovuto levare dal cuore di donne e di uomini dal 1^ settembre 1939 alla fine dell’estate 1945. Ma occorre parlarne? Bisogna far sì che quel tragico evento non cessi di essere un avvertimento. La generazione che l’ha sperimentato e sofferto vive ancora”: Vaticano, 26 agosto 1989 - Papa Giovanni Paolo II (Lettera Apostolica per il 50° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale).
     
      Con la tragedia giuliana una parola nuova viene inserita nel dizionario criminale: FOIBA.

      Il termine “foiba” deriva dal latino “fovea” e significa fossa, cava, buca. Le foibe sono voragini rocciose, create dall’erosione violenta di molti corsi d’acqua; raggiungono i 200 metri di profondità e si perdono in tanti cunicoli nelle viscere della terra. Le pareti viscide, nere, tormentate da sporgenze e da caverne, terminano su un fondo di melma e detriti.
 “Il sottosuolo dei vasti altipiani carsici - scrive il Prof. Battaglia - nasconde un mondo di tenebre. Abissi verticali e cupi cunicoli che si perdono nel silenzio delle profondità terrestri, caverne immense, tortuose gallerie percorse da fiumane urlanti, sale incantate rivestite da cristalli, antri selvaggi che la fantasia del volgo popolò di paurose leggende”.

La tragica imboccatura di una foiba istriana

      L’ Ing. Boegan  ha registrato in Istria l’esistenza di 1700 foibe: ognuna è numerata.
In principio le foibe venivano usate quali discariche, in cui era gettato ciò che non serviva più, come derrate alimentari avariate, carcasse di animali, macerie, e così via. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale furono utilizzate per infoibare (spingere nelle foiba) migliaia di istriani e triestini, ma anche slavi, antifascisti e fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista del Maresciallo Tito.
      Nessuno sa quanti siano stati gli infoibati. Stime ricorrenti esprimono valutazioni da un minimo di cinquemila ad un massimo di oltre 20 mila Vittime. Dopo atroci sevizie, i Martiri venivano condotti nei pressi della foiba, venivano legati loro i polsi e i piedi con filo di ferro e poi  uniti gli uni agli altri sempre tramite fil di ferro. I massacratori si divertivano a sparare al primo del gruppo che cadeva nella foiba trascinando tutti gli altri.
Lacci per legare gli infoibati

   Rino Alessi,  ( “Giornale di Trieste”, 7 settembre 1953): “La vendetta slava ha donato al lessico il verbo “infoibare”, il verbo della carneficina senza giudizio, dell’assassinio collettivo, indiscriminato”: è una lotta senza pietà che usa il terrorismo per seminare il panico.

   Già nel 1941 oltre cento alpini della “Pusteria” cadono prigionieri e vengono infoibati, dopo essere stati scannati ad uno ad uno sul ciglio dell’abisso. Le truppe slave, irritate dall’attacco di quelle italiane che erano arrivate fino a Lubiana, provocate dagli incendi e dalle fucilazioni ad opera dei tedeschi, logorate ed incattivite dalla fame, si precipitano sull’Istria con una terribile carica di vendetta. Le prime popolazioni che incontrano devono pagare per la dichiarazione di guerra ordinata da Berlino e da Roma: l’espiazione  peserà tutta sui giuliani. Il 16 agosto 1944 il “Gorski List” scrive: “Irroreremo queste terre con il nostro sangue, ma porteremo i confini all’Isonzo”.
     Winston Churchill, che è stato il primo a fornire aiuti militari a Tito e che ha fatto paracadutare il figlio Randolph fra i partigiani jugoslavi, il 23 giugno 1945 scrive a Stalin: “Grandi crudeltà sono state commesse in quella zona dagli slavi contro gli italiani, specialmente a Trieste e a Fiume. Le pretese aggressive del Maresciallo Tito devono essere stroncate”.
     Il Maresciallo Alexander scrive al Presidente Harry Truman il 12 giugno 1945: “il comportamento dei partigiani slavi sia in Austria, sia nella Venezia Giulia fece una cattiva impressione sulle truppe britanniche e americane. I nostri uomini furono costretti ad assistere, senza poter intervenire, ad azioni che offendevano il loro senso di giustizia; ed ebbero la sensazione di rendersi complici”.
     Lo scrittore Silvio Bertoldi (“1945 - L’anno del Mondo Nuovo”) scrive: “Trieste e l’Istria hanno pagato un prezzo disumano durante l’occupazione tedesca e l’abbandono agli slavi  dopo l’8 settembre. L’orrore delle foibe, ove migliaia di connazionali sono stati gettati dai “titini” con un colpo alla nuca (e talvolta precipitandoli senza neppure quello), documenta il cumulo di rancori, di odi, di vendette, di rappresaglie su “fascisti” che nella maggior parte dei casi erano soltanto italiani, ai quali fare finalmente pagare la colpa della loro nazionalità”.
      Il motorista navale Angelo D’Ambrosio, nella sua relazione del 13 luglio 1945, dice di “aver incontrato, in prossimità di S. Pietro del Carso, una colonna proveniente da Trieste, composta da circa 180 militari italiani, la maggior parte Guardie di Finanza, guidate da partigiani di Tito”. Gli stessi prigionieri, a domanda, risposero che ritenevano di essere diretti verso un campo di concentramento. Nella notte furono intesi degli spari ed il giorno dopo il D’Ambrosio con altri italiani, vide il passaggio di sei carri, carichi di cadaveri completamente spogliati. Nei giorni successivi i croati della brigata di Tito (compresi gli ufficiali) indossavano divise, calzature  e quanto altro era appartenuto ai militari della Finanza italiana.
      Il mondo civile dovrà inorridire, e quando sarà possibile, far luce su tutti gli orrori e i delitti di cui si macchiarono senza giustificato motivo i partigiani slavi. ”E’ vero che torturavano. E' vero che fucilavano senza ragione. Il supplizio di legare i prigionieri per le braccia ai pali e tenerli così sospesi per delle ore era all’ordine del giorno. Certe volte le grida di dolore dei torturati facevano impazzire noi poveretti che eravamo obbligati ad assistere al supplizio” (Relazione di Antonio Cau,  Appuntato della Guardia di Finanza - Maggio 1945 )
      Nel maggio del 1945 una missione del C.L.N. di Trieste, capeggiata da Don Marzari si reca a Roma e denuncia le violenze al Presidente Bonomi, all’Ammiraglio americano Stone, all’Ambasciatore inglese: “Sono stati operati arresti  in massa di fascisti, ma anche di patrioti italiani che con il fascismo non avevano nulla da spartire...”
       L’Ambasciatore Tarchiani (lettera a Grew del 19 maggio 1945) informa che De Gasperi protesta a Washington “contro le deportazioni e le fucilazioni a Trieste e a Gorizia e contro il regime di terrore: 4000 persone scomparse, 700 sembra siano state fucilate a Trieste. Le truppe anglo-americane finora hanno assistito alle scene passivamente.”
       Il Prof. De Castro, Consigliere politico del Governo italiano presso quello alleato, che ha esaminato gli archivi diplomatici italiani, offre una serie di notizie impressionanti: il 2 ottobre 1945 De Gasperi, ministro degli Esteri, invia a Parri, Presidente del Consiglio, una lettera nella quale afferma che, secondo notizie avute da un osservatore “altamente qualificato ed estremamente imparziale, l’occupazione di tutta la Venezia Giulia per quaranta giorni ha avuto un tale carattere di autentica barbarie, ha instaurato un tale regime di violenza, ha privato la popolazione così brutalmente dei diritti più elementari, ha dato esempio di ferocia disumana e tale prova di incapacità di amministrare quelle terre che nessun uomo di cuore che stima la civiltà può avere animo di costringere delle popolazioni che non ne vogliono sapere, sotto tale insopportabile giogo. Si avverte che, per quanto riguarda le autorità jugoslave, una nuova relazione documentata è già stata fatta pervenire a Londra e a Washington e alla Commissione Alleata da parte di questo Ministero”. Rispondendo ad una richiesta di Washington, De Gasperi il 6 Ottobre 1945 invia un elenco nominativo di 912 cittadini italiani deportati dalla zona di Trieste e di 1455 deportati da quella di Gorizia (escluse le zone dell’Istria, di Fiume e di Zara ) e conclude affermando che “è tuttora in corso una raccolta di numerose altre denunce per cui si ritiene che la cifra complessiva risulterà molto superiore a quella sopra segnalata”.
     De Castro commenta: “Difficilmente un uomo della serietà di De Gasperi avrebbe inviato ufficialmente a due Governi esteri l’elenco dei fatti che potessero venire facilmente smentiti. Infatti già nell’estate del  1945 si valutano in 10-12 mila le persone scomparse”.
     Manlio Cecovini, ex Sindaco di Trieste (“A quarant’anni dall’Esodo”) scrive: “Si verificano massicci prelievi notturni di cittadini inermi, conclusi per la maggior parte nell’orrore della foiba. La rabbia slava si accanì spietatamente. Si seppe di uccisioni di donne gravide, di estirpazione di occhi, di evirazioni. Le torture erano all’ ordine del giorno, la spaventosa realtà delle foibe era di comune dominio”.
     Enzo Biagi soggiunge: “Alla furia selvaggia dei suoi uomini (di Ante Pavelic, che nel 1941 aveva offerto la corona della Croazia a Vittorio Emanuele III ed il 9 settembre 1943 dichiara la guerra al Regno d’Italia) e alle vendette contro chi è ritenuto responsabile di voler impedire l’unione dell’Istria alla Jugoslavia si devono le tragiche foibe, fosse piene di cadaveri italiani strangolati, massacrati, fucilati a centinaia, che hanno coperto di sangue un’antica Patria e chiuso il conto di un irresponsabile odio razziale”.
     G. Miglia, antifascista (“Voce Giuliana” – n. 194 / 1976) testimonia: “La nostra terra era percorsa ogni giorno e ogni notte da vampate di terrore che si propagandavano di strada in strada, di casa in casa”.
     Il socialista Raimondo Manzin scrive da Pola: “L’armistizio catastrofico dell’8 settembre 1943 dava luogo al caos, alla resa di tutti i presidi di Pola e dell’Istria, alla prima ondata di massacri e di infoibamenti di migliaia di italiani ad opera delle bande sanguinarie scatenate dalla propaganda degli emissari jugoslavi calati in Istria e infine alla reazione altrettanto terroristica e feroce dei nazisti”. Poi: “Erano in corso nella prima settimana del maggio 1945 gli arresti e le deportazioni di centinaia di ex fascisti, ma anche di italiani non fascisti e il ricordo dell’infoibamento in massa che si era verificato nel settembre 1943 contribuiva a far aumentare il terrore per questi nuovi prelievi di tanta gente”. Ed ancora: “I massacri di italiani, infoibati o sepolti vivi nelle cave di bauxite ad opera degli slavi, avevano scosso la coscienza morale e ferito profondamente i sentimenti delle popolazioni istriane”. Infine: “Negli ultimi mesi del 1943 il recupero di alcune centinaia di salme di infoibati desta esecrazioni e reazioni. Per controbattere gli effetti di quegli eccidi orribili, i nuovi capi dell’organizzazione politica e partigiana jugoslava, sopraggiunti in Istria, si preoccuparono di diffondere la notizia che la colpa andava attribuita ad elementi nazionalistici locali irresponsabili, che nulla aveva a che fare con le formazioni partigiane e che pertanto i colpevoli sarebbero stati puniti. Si vedrà poi nel mese di maggio del 1945, quale valore aveva tale affermazione dal momento che i medesimi eccidi, ma su scala ben più vasta, si ripeteranno ad opera delle formazioni titine”.


     In sintesi, la maggior parte degli infoibamenti di italiani ha avuto luogo in due distinti periodi: il primo dal 9 Settembre al 13 Ottobre 1943 e cioè subito dopo l’armistizio, quando gran parte dell’Istria era caduta in balia dei partigiani slavi; il secondo dopo il ritorno degli slavi e cioè dal 1^ Maggio in poi.


 Settembre-Ottobre 1943



Maggio-Giugno 1945


  





    Notizie di infoibamenti e del recupero di salme, con particolari sconcertanti e con lunghi elenchi delle Vittime, si trovano in un documento eccezionale valore di 126 pagine e di 42 illustrazioni fotografiche. Esso riporta i verbali resi negli anni 1943-1945 alle autorità italiane e firmate da testimoni oculari: si  tratta quindi di testimonianze contemporanee e responsabili, non falsate da successivi ripensamenti. Il documento è stato pubblicato in italiano ed in inglese dal Governo italiano in edizione riservata, col titolo: “Comportamento delle Forze jugoslave di occupazione nei riguardi degli italiani della Venezia Giulia e in Dalmazia”. Il documento è stato presentato dal Governo italiano a Londra e a Parigi nel 1946 e 1947.
     L’antifascista G. Holzer scrive nel maggio 1946 (“Fasti e nefasti della quarantena titina a Trieste”): “Gli arresti in massa ebbero inizio subito, il 1^ maggio. Parecchie migliaia di giuliani, molti dei quali ex combattenti della libertà, vennero prelevati unicamente perché contrari al colpo di mano titino. Questi disgraziati furono in parte infoibati ed i rimanenti inviati in campi di concentramento in Jugoslavia. Sino al 15 giugno 1945 il campo di San Pietro del Carso raccoglieva circa 14 mila internati. La prima operazione era quella di depredare le Vittime. Quindi, legate loro le mani dietro la schiena con il filo di ferro, le obbligavano a suon di legnate ad incamminarsi verso il loro tragico destino, dove la morte era l’unica consolatrice”.
     Il 20 ottobre l949 il deputato goriziano On. Silvano Baresi dichiarava alla Camera: “Il maggio 1945 portò la morte nella Venezia Giulia. Solo a Trieste, a Pola e a Gorizia, nei quarantacinque giorni di occupazione titina, circa cinquemila persone furono prelevate. Nelle terre rimaste sotto il dominio slavo non si conosce, purtroppo, il numero delle Vittime. Io vi chiedo quanti di voi conoscono la tragedia che ha sconvolto questa regione e che ha portato la maggior parte della popolazione ad abbandonare la propria terra.”






















LE FOIBE

     Le Foibe di Basovizza e di Monrupino sono le due più grandi fosse comuni esistenti in Italia.

·        LA  FOIBA  DI  BASOVIZZA

 
     La Foiba di Basovizza si trova sul Carso a nove km da Trieste, entro l’attuale confine italiano. Si tratta di un pozzo di miniera scavato nel 1905 fino ad una profondità di 256 metri. Gli speleologi avevano assicurato che nel sottosuolo c’erano degli strati di carbone, ma non avendolo trovato a quella profondità, proseguirono con una galleria di 700 metri: il risultato fu ancora negativo.
     Nel 1939 alcuni speleologi si calarono dentro per ricuperare i corpi di due suicidi e constatarono che il fondo del pozzo si era elevato a 226 metri a causa delle strutture di legno della cava e di residuati bellici della prima guerra mondiale.
     Dal 1^ maggio al 15 giugno 1945 (periodo dell’occupazione titina) sono stati gettati in questa voragine circa 2500 Martiri tra civili, carabinieri, finanzieri e militari italiani, tedeschi e persino neozelandesi. Le Vittime sono state portate sul posto con camion, spogliate, legate a catena, sono state mitragliate sull’orlo della Foiba e precipitate. Nel 1945, con l’amministrazione alleata, alcuni speleologi hanno rilevato che la base di 226 metri era salita a 198, per complessivi 500 metri cubi, perché vi erano stati  gettati dentro i corpi, alcuni ancora vivi, dei condannati.
     Queste notizie trovano conferma nella relazione della Commissione d’inchiesta del Governo Alleato che nel 1946 effettuò vari sopraluoghi: “In località Basovizza esiste un pozzo artificiale della profondità di circa 256 metri per otto di lunghezza e quattro di larghezza, denominato pozzo della miniera. Questa voragine venne particolarmente usata nel maggio 1945. Testimoni oculari riferiscono che gruppi di 100-200 e una volta di 500 persone vennero fatte precipitare nel pozzo. Tra le Vittime risultano tantissime donne e anche bambini”.
     La Commissione, dopo le prime ricerche, venne alla determinazione che occorreva fare un lavoro bene organizzato per il recupero delle salme. Infatti, in breve tempo, furono tirate fuori centinaia di salme. Nella Foiba erano state gettate nel 1945 anche una sessantina di salme di soldati tedeschi e di 23 soldati neozelandesi della Seconda Divisione Neozelandese dell’VIII Armata Britannica. “Era il risentimento dei partigiani titini contro gli Alleati anglo-americani che li avevano costretti ad abbandonare Trieste”.
     Il recupero delle salme è stato tentato dagli inglesi, ma fu abbandonato per  ragioni tecniche. Il 21 agosto 1948 alcuni speleologi triestini si sono calati sul fondo, ma hanno constatato che l’aria era irrespirabile per la decomposizione dei cadaveri e che non era possibile operare.
     Nell’ottobre 1957 una guida tedesca, membro di una Commissione del Governo di Bonn, ha constatato che il livello del fondo si era elevato fino a 135 metri. Questa ultima variazione è dovuta allo scarico dei residuati dell’ultima guerra.
     Nella motivazione della Medaglia d’oro concessa alla città di Trieste si dice, tra l’altro: “Sottoposta a durissima occupazione straniera subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe”.
     Nel 1959 il ministro della Difesa Giulio Andreotti  dispose la copertura della Foiba con una pietra tombale con la seguente epigrafe dettata dall’Arcivescovo Antonio Santin: “Onore e cristiana pietà a coloro che qui sono Caduti: Il loro sacrificio ricordi agli uomini la via della giustizia e dell’ amore sulla quale fiorisce la vera pace”. A fianco è stato eretto un cippo, offerto dalla Cava Romana di Aurisina, che riporta la sezione interna della Foiba.



     Il 22 ottobre 1980 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali ha emesso il seguente decreto: “Ritenuto che l’immobile Foiba di Basovizza, sito in provincia di Trieste, Frazione di Basovizza, proprietà del Comune di Trieste, ha interesse particolarmente importante perché testimonianza di tragiche vicende accadute alla fine del secondo conflitto mondiale, divenuta fossa comune di un numero rilevante di Vittime in maggioranza italiani, uccisi e ivi fatti precipitare. Una zona larga 20 metri intorno alla enorme pietra tombale che ricopre oggi la Foiba di Bosovizza è da considerarsi parte integrante della stessa. Visto l’articolo 2 della legge del 1 giugno 1939 n. 1089 decreta l’immobile Foiba di Basovizza d’interesse particolarmente importante e viene sottoposto a tutte le disposizioni di tutela contenute nella legge stessa”.










·        LA FOIBA DI MONRUPINO

      


     La Foiba di Monrupino si trova in territorio italiano, a 11 km da Trieste a ridosso della scarpata ferroviaria, si apre in una dolina e con i suoi 175 metri è uno degli abissi più profondi del Carso. L’orifizio misura dieci metri per 15 e raccoglie le acque di un vasto impluvio; a 60 metri di profondità c’è un ripiano lungo dieci metri e largo due, poi il baratro continua per una profondità di 115 metri con una sezione quasi quadrata tra i sei ed i cinque metri. Il fondo misura sette metri quadrati. Le pareti viscide e nere sono di pietre sconnesse e friabili.
     Nel 1945 la Foiba aveva ingoiato circa 2000 Vittime tra civili e militari italiani e della Wehrmacht. I contadini raccontano di aver visto per varie sere il via vai dei camion, di aver udito le urla dei condannati e il crepitio delle armi che durava a lungo nella notte.
     Il recupero delle salme non è stato neanche tentato data la tortuosità, la friabilità delle pareti e la grande profondità. Nel 1959 il Commissariato per le Onoranze ai Caduti del Ministero della Difesa ha chiuso la Foiba con una grande pietra tombale. Il decreto del 22 ottobre 1980, analogo a quello emesso per Basovizza, ha dichiarato di interesse “particolarmente importante” la Foiba; inoltre, una zona larga 10 metri intorno alla pietra tombale e il viale d’accesso sono da considerarsi parti integrali della Foiba stessa.
      

·        LE  ALTRE  FOIBE

FOIBA DI VINES: ha una profondità di 146 metri. Le prime notizie certe degli infoibamenti giungono da Albona il 12 settembre 1943 quando “il territorio di Albona assistette a soppressioni violente e a crudeli infoibamenti. La sola Foiba di Vines accolse un centinaio di Vittime” (Sergio Cella). Scrive Bruno Coceani: “ La prima Foiba, ricolma di cadaveri, fu scoperta per caso da un ragazzo che cercava, perlustrando le cave di bauxite, suo padre che era stato arrestato dagli slavi ad Arsa. E’ la Foiba di Vines ed è il 6 ottobre 1943”; da questa foiba vengono recuperate 115 salme. Molte erano accoppiate mediante legatura con filo di ferro, ai due avambracci. Soltanto uno presentava segni di colpi d’arma da fuoco, ciò fa supporre che il colpito abbia trascinato nell’abisso il compagno ancora vivo. “Nel maggio 1945 (rapporto del CLN) in questa Foiba, sul cui fondo scorre dell’acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, furono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano all’interno”.

FOIBA DI SCADAICINA sulla strada per Fiume: gli abitanti del luogo hanno recuperato qualche salma.

FOIBA DI PODUBBO: ha una profondità di 190 metri, a imbuto, molto stretta con sporgenze aguzze e friabili. Gli esumatori constatano la presenza delle salme, ma non fu possibile il recupero.

CAVA DI BAUXITE DI GALLIGNANA: è profonda dieci metri: vengono recuperate 44 salme di Vittime massacrate nella prima quindicina del settembre 1943.

CAVA DI BAUXITE DI LINDARO: vengono esumate 31 salme di Vittime, massacrate il 19 settembre 1943; tra le salme anche quella di un Sacerdote.

FOIBA DI TERLI: il 1^ novembre 1943 il maresciallo di Vigili del Fuoco di Pola, Harzarich, aiutato da altri tre vigili, procede al recupero delle salme; sono presenti alcuni familiari delle Vittime. La Foiba è una voragine irregolare, tortuosa e con spuntoni di roccia; ci sono 55 salme che vengono trasportate a gruppi di tre-quattro, con un argano installato sull’imboccatura. Le salme sono devastate dalla caduta e dalla decomposizione: i parenti riconoscono 25 loro familiari. Un padre riconosce le tre figlie di  17-19-21 anni dai loro vestiti.

FOIBA DI DRENCHIA: il Prof. De Castro parla di 52 cadaveri di donne, ragazzi e partigiani della “ Osoppo”.

ABISSO DI SEMICH: Mons. L. Parentin racconta (“Voce Giuliana” - n. 299 del 16 dicembre1980): “Un’ispezione del 1944 accertò che partigiani di Tito nel settembre precedente avevano precipitato nell’abisso di Semich, profondo 190 metri, un centinaio di sventurati: soldati italiani e civili, uomini e donne, quasi tutti prima seviziati e precipitati vivi. Impossibile sapere il numero di quelli che vi furono gettati a guerra finita, durante l’orrendo 1945 e dopo. Questa è stata una delle tante foibe carsiche trovate adatte, con approvazione dei superiori, dai cosiddetti tribunali popolari, per consumare le loro nefandezze. Il famigerato tribunale di Pisino fu un esecutore spietato. Conosciamo i nomi dei suoi componenti, dei fiancheggiatori e di parecchi delatori. La Foiba ingoiò indistintamente chiunque avesse sentimenti italiani, avesse sostenuto cariche, o fosse semplicemente oggetto di sospetti e di rancori. Per giorni e giorni la gente aveva sentito urla strazianti provenire dall’abisso, le grida dei rimasti in vita, sia perché trattenuti dagli spuntoni di roccia, sia perché resi folli dalla disperazione. Prolungavano l’atroce agonia col sollievo dell’acqua stillante. Il prato conservò per mesi le impronte degli autocarri arrivati qua, grevi del loro carico umano, imbarcato senza ritorno”.

FOIBA BERTARELLI: “Gli abitanti del luogo vedevano ogni sera passare colonne di prigionieri, ma non ne vedevano mai il ritorno”. (G. Botteri) “Il numero delle Vittime precipitate in questa voragine ascende a migliaia”. (G. Holzer  1946)

FOIBA DI CASSEROVA sulla strada per Fiume: “Vi sono stati precipitati tedeschi, uomini e donne italiani, sloveni, molti ancora vivi. Poi, dopo avere gettato benzina e bombe a mano, l’imboccatura è stata fatta saltare”. (G. Botteri in un rapporto del CLN)

FOIBA DI VILLA ORIZI: è profonda 90 metri. La gente del circondario racconta che nel maggio 1945 vi furono trasportate circa 200 persone. Uomini e donne, dopo aver subito crudeli sevizie, vennero scaraventati nella vicina voragine; parecchi, per sfuggire alle torture, si gettarono spontaneamente nel precipizio. Nella zona di Santa Caterina (Pisino) fu vista nel maggio 1945 partire verso il supplizio una lunga fila di gente, legata con filo di ferro. Gli agenti erano armati di mitra e le Vittime, consapevoli della loro sorte, recitavano in coro e in italiano, il Padre Nostro.

FOIBA DI CERNOVIZZA (Pisino): le Vittime vennero gettate in massa nella foiba: pare che i cadaveri ascendano a qualche centinaio. Nel settembre 1945 l’entrata fu fatta franare con le mine allo scopo di far sparire le tracce del massacro.

MINIERE DI CARBONE DI VAL PEDENA (Pisino): presso la chiesetta di San Bartolo c’è una voragine profonda 100 metri. Testimoni oculari attestano le sevizie e l’infoibamento di oltre un centinaio di persone. Era fatto obbligo alla popolazione di rimanere in casa e di non affacciarsi alle finestre: le grida di quei disgraziati venivano udite a notevole distanza.

FOIBA DEI COLOMBI “Quasi ogni notte un’autocorriera si reca alle carceri. Si dice ai prigionieri che si tratta di un trasferimento. Poi giunti sul luogo del supplizio, con le mani legate dietro la schiena, vengono precipitati nell’abisso, talvolta con la grazia di un colpo di pistola alla nuca. Uno scaglione di prigionieri venne condotto verso Porto Remaz e lì, uniti a catena con il filo di ferro ed assicurati a grosse pietre, precipitati in mare.”

FOIBA DI VILLA SURANI: “Il Piccolo” del 15 ottobre 1943 informa che dalla voragine di Surani vengono estratte le salme di 26 italiani che erano stati massacrati la notte del 4 ottobre. Le Vittime hanno le mani saldamente legate con filo spinato; molti hanno colpi di baionetta in più parti del corpo. L’11 e il 12 novembre l943 vengono recuperate altre 126 salme.

                                                                    * * *
  
     E’ tragicamente emblematico il sacrificio di Norma Cossetto, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i Comuni dell’Istria allo scopo di preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “ L’Istria Rossa” (terra rossa di bauxite).
     Il 25 Settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Il giorno successivo prelevarono Norma che venne condotta nella caserma dei carabinieri di Visinada dove i capi banda la tormentarono promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse collaborato con loro. Al netto rifiuto, la rinchiusero nell’ex caserma della Finanza a Parenzo con altri parenti, conoscenti e amici. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero trasferiti nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo martirio: fissata a un tavolo con alcune corde, è stata violentata da diciassette aguzzini, ubriachi ed esaltati e quindi gettata nuda nella foiba di Surani, poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri. Suo padre era conosciuto e stimato per aver dedicato la sua vita allo sviluppo di quei paesi. In quei giorni si trovava a Trieste e informato dell’arresto della figlia, ma ignorandone la fine, si precipitò a S. Domenica con un parente. All’ingresso del paese i partigiani lo rassicurarono che gli avrebbero consegnata la figlia, ma verso sera li trascinarono in un agguato e li uccisero.
     Il 13 Ottobre 1943 a S. Domenica ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 Dicembre 1943 i vigili del fuoco di Pola recuperarono la sua salma: era caduta supina, con le braccia legate con il filo di ferro, aveva i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.
     La salma di Norma fu composta nella cappella del cimitero di Castellier. Dei suoi 17 torturatori, sei furono arrestati e costretti a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella per vegliare la loro Vittima. Veglia funebre di terrore alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro Vittima, forse con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.
     L’orribile sacrificio di  Norma provocò una profonda indignazione: l’unica sua colpa era di essere italiana. Per lei c’è stato un riconoscimento molto autorevole: su proposta del Prof. Concetto Marchesi, che l’aveva guidata nei suoi studi, l’Università di Padova nel 1949 le concesse la laurea “honoris causa”. A coloro che obiettavano come la Cossetto non fosse stata una partigiana, Marchesi rispose che essa  meritava il titolo più di ogni altro perché era morta per l’italianità dell’Istria.

                                                                   * * *
          
     Nelle foibe di Opicina, di Campagna e di Corgnale vennero infoibate circa 200 persone, tra queste una donna e un bambino, rei di essere moglie e figlio di un carabiniere.
     Altre foibe egualmente importanti, ma meno conosciute sono: Pozzo di Luppogliano; Foiba di Treghelizza Castellier; Foiba di Pucicchi; Foiba di Cregli; Foiba di Umago; Foiba di Canizza; Abisso di Semez; Foiba di Vescovado; Foiba di Gropada; Foiba di Villa Cecchi; Cava di Baxite a Villa Catturi; Foiba di Rozzo; Foibe di Saini, di Pogliacchi, di Nancovigi, di Picich; Brestovizza; Foiba di Podgomilla; Foiba di Gimino; Foiba di Gallignana; Foiba di Gramschi; Foiba del Risano; Foiba di Raspo; Foiba di Obrovo (Fiume); Foiba di Trebiciano; Foiba di Rupinpiccolo; Grotta del cane; Fous di Salanceta; Grotta N. 242 di Ternovizza; Foiba di Prosecco; Foiba N. 149 di Farnetti; Foiba di Focovizza; Foiba N. 294 Janka Oslinka.


     Non siamo in una Foiba, ma nel mare di Zara o di altre città e paesi della costa istriana: molte Vittime innocenti sono state precipitate in mare con una pietra al collo. La morte, infatti, si è presentata nella Venezia Giulia e in Dalmazia nelle versioni più dolorose. Oltre all’infoibamento e all’annegamento, ci sono state le lapidazioni, le impiccagioni, gli strangolamenti e le fucilazioni. L’Istria dal settembre 1943 e ancor più dal maggio 1945 (salvo nei pochi casi in cui le foibe si trovano in territorio italiano) è rimasta un cimitero senza croci.
     I padri, le madri e le vedove, delle Vittime sono ormai morti; sono rimasti gli orfani e i figli dei figli che non si sono mai rassegnati al silenzio e all’indifferenza e chiedono che giustizia sia fatta prima che il tempo e l’oblio ottenebrino la memoria. “L’Arena di Pola”, Organo del Libero Comune di Pola in Esilio, che tiene i contatti con gli Esuli in Italia e nel mondo, nel settembre 2009 ha proposto questo titolo: SULLE FOIBE IL TEMPO SI E’ FERMATO. Si legge tra l’altro: “Intitolare strade, piazze, parchi d’Italia o innalzare monumenti ai Martiri delle foibe non è sufficiente. E’ tempo che il mondo sappia dove e come sono stati compiuti quegli eccidi, per oltre sessant’anni tenuti nascosti, quasi fossero una vergogna per la nostra civiltà”.
     Lo stesso giornale ci ricorda la petizione riguardante le foibe, inviata dal Libero Comune di Pola in Esilio al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel maggio 2009.
     Dalle risposte sembra emergere la volontà di conoscere esaurientemente, da integrare con quella  di recarsi sull’orlo dell’abisso, erigere una lapide, inginocchiarsi e chiedere perdono ai Morti sacrificati, affinché il loro olocausto non rimanga nell’oscurità e nel silenzio per sempre.
     Quando si parla delle foibe non bisogna soffermarsi solo sul fenomeno specifico, ma occorre trattare anche le deportazioni e gli internamenti nei “Lager” jugoslavi. Il piano di Tito per l’annessione della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia prevedeva oltre alle eliminazioni di massa (pulizia etnica), anche i campi di prigionia e le pressioni sulla comunità italiana per costringerla all’abbandono della sua terra (epurazione). Oltre agli infoibati, agli annegati, ai fucilati, molti italiani persero la loro vita nei campi titini di Borovnica, Skofja Loka, Osseh, Stara Gradiska, Siska, Goli Otok  (Isola Calva): pochi conoscono il significato di questi nomi.
      Dachau e Buchenvald sono certamente più noti, eppure sono la stessa cosa: la sola differenza è che i primi erano in Jugoslavia e che gli internati erano migliaia di italiani, deportati dalla Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale ed anche successivamente, a guerra finita, durante l’occupazione titina.                                                



L’ESPIAZIONE  ITALIANA


     La guerra del 1939/1945 ha causato oltre 50 milioni di morti, tra militari e civili.
La Jugoslavia, secondo il Generale Dedijer, ha avuto 305 mila militari e un milione 395 mila civili uccisi. Chi è il maggior colpevole? Gli storici jugoslavi indicano nell’aggressione dell’Asse la causa principale: un’occupazione pesante di 700 mila soldati tedeschi, dall’aprile 1941 all’aprile 1945. Quattro anni di guerra implacabile, terrestre ed aerea, rappresaglie durissime.
     Lo stesso Dedijer (“Josip Broz - Tito”, Belgrado 1952) scrive: “la Jugoslavia era ridotta in pezzi, ma Hitler non si fermò soltanto qui. Da una parte spinse il Croato Pavelic a dare inizio a stermini in massa dei serbi in Croazia. Così cominciò una delle stragi più orrende della seconda guerra mondiale. Interi villaggi vennero portati davanti a grandi foibe e qui uomini, donne e bambini, venivano scannati e gettati dentro l’abisso. Dall’altra parte Hitler incitava i Quisling della Serbia ad effettuare stragi di mussulmani e di croati in Bosnia”.
     Una seconda causa va individuata nella lotta fra le stesse formazioni partigiane jugoslave. Lo sloveno Bogdan Novak ha scritto: “i comunisti, applicando il motto ‘chi non è con noi è contro di noi’, dichiararono  che ogni avversario politico era fascista o filofascista. Molti oppositori, che non avevano mai collaborato con i tedeschi, furono arrestati e sparirono. Decine di migliaia di uomini furono trucidati senza processo” (in specie i cetnici, i domobranci, i belagardisti, gli stessi cosacchi, e naturalmente gli ustascia: tutti anticomunisti, anche se spesso nemici fra di loro).
Anche l’esercito russo che combatté in Jugoslavia contro i tedeschi causò danni e morti.
    Resta l’ultima causa: la dichiarazione di guerra dell’Italia del 6 Aprile 1941 e la corresponsabilità con i tedeschi fino all’8 settembre 1943. Tito non era stato preavvisato dell’imminente resa dell’Italia, ma le sue unità agirono con velocità per essere le prime a raggiungere le truppe italiane in Jugoslavia in modo da accogliere la resa e impadronirsi del loro armamento ed equipaggiamento. Tito il 2 ottobre 1943 aveva piantato le prime basi militari jugoslave e i primi campi di addestramento nelle Puglie: a Bari, a Monopoli, a Carbonara ed a Gravina, con l’aiuto degli inglesi; inoltre, ebbe a Bari una rappresentanza del suo CNL (Governo provvisorio) e vi si recò lui stesso nel giugno 1944 per farsi curare una ferita. I trasporti venivano effettuati con aerei italiani, inglesi e sovietici, con alcune motosiluranti inglesi, con trabaccoli e con motopescherecci. Da Bari raggiungevano la Jugoslavia le prime armi, munizioni, viveri, benzina, vestiario e scarpe. Il  Quartier generale di Lissa ha ricevuto dall’Italia nel novembre e dicembre 1944 le prime 400 tonnellate di materiale. Dalle Puglie sono partite le prime due squadriglie jugoslave, di 16 apparecchi ciascuna.
     Nell’ottobre 1943 hanno raggiunto la Jugoslavia dall’Italia due brigate d’Oltremare con 2500 unità; nel marzo 1944 le ha seguite la terza Brigata di 1665 unità. Si trattava di ex prigionieri, di ex internati jugoslavi e di altri volontari; a queste forze faranno seguito altri contingenti, tra i quali la prima unità corazzata. Il Gen. Vladimir Dedijer, già capo della missione nelle Puglie, scrive che dall’ottobre 1943 alla fine del 1944, hanno raggiunto la Jugoslavia, provenienti dall’Italia, ben 30 mila uomini. “Grazie alle stazioni radio italiane la zona operativa è ora in grado di comunicare facilmente anche con il Quartier generale di Tito”(comunicato jugoslavo dell’ottobre 1943). La tempestività e la consistenza di questi aiuti  si sono rivelati determinanti per le operazioni militari di Tito il quale, deluso per i mancati aiuti sovietici, telegraferà a Stalin: “Se non potete aiutarci, almeno non dateci fastidio”.
     Scotti precisa che “l’Italia, dall’inizio dell’ottobre 1943 fino all’estate 1944, è l’unico territorio sul quale i partigiani jugoslavi feriti e ammalati possono trovare ospitalità e assistenza”. Dedijer aggiunge che “i primi trenta feriti gravi furono respinti dagli Alleati e furono invece accolti in un ospedale militare a Modugno” (10 chilometri da Bari). “Le cure dei sanitari italiani”- continua Scotti – “sono così sollecite che anche nei mesi successivi i feriti dalla Jugoslavia vengono trasportati a Modugno. L’ospedale militare italiano finisce per accogliere soltanto jugoslavi. A un certo punto non basta più e vengono ceduti agli jugoslavi anche gli ospedali italiani a  Taranto, a Grottaglie, a Santa Caterina, a Santa Maria di Nardò, a Maglie, a Lecce, a Barletta ed a Gravina: dieci ospedali con tutto il personale sanitario italiano e tutte le attrezzature e i medicinali a completa e gratuita disposizione degli slavi, quando gli ammalati italiani, militari e civili, non riuscivano a trovare né un letto, né medicine”. Nell’agosto 1944 gli Alleati, rispondendo ad un urgente appello di Tito, mandano in Jugoslavia, in un solo giorno, 25 aerei da trasporto che portano in Italia 900 feriti.
     Scotti conclude che “i feriti trasportati e curati in Italia fino alla fine della guerra saranno 11.842 dei quali 700 morti”. Dedijer rivela nel proprio diario che la sua missione ha cercato “ospitalità presso famiglie italiane per migliaia di profughi jugoslavi (donne, vecchi e bambini) evacuati dalla Dalmazia e dalle isole. Ben 30 mila persone saranno, infatti, ospitate nelle varie località della Puglia”.
     Tanta generosa collaborazione e ospitalità, testimoniata dalle stesse fonti jugoslave, è stata data ai partigiani di Tito in Puglia nello stesso periodo in cui i partigiani trucidavano nelle Foibe istriane oltre 12 mila inermi cittadini italiani. Purtroppo, l’Italia era un bersaglio facile, vicino e rassegnato. Ci sono state persone che hanno gonfiato le responsabilità dell’aggressione fascista e che hanno addossato all’Italia anche le responsabilità impunite dei nazisti e quelle degli stessi jugoslavi. Questa ostentazione, da parte italiana, di un permanente complesso di colpa e di un vittimismo espiatorio, ha gettato i giuliani sul banco degli imputati davanti all’opinione pubblica jugoslava e ha raggiunto il colmo nel 1975 con la cessione della zona  B  (trattato di Osimo).
                        

I VINCITORI E IL TRATTATO DI PACE

      I lavori per la stesura del trattato di pace con l’Italia sono cominciati a Londra l’11 settembre 1945. Il 2 marzo 1946 i 21 Ministri degli Esteri degli Stati partecipanti hanno affidato alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti, alla Francia e alla Russia l’esame della situazione etnica della Venezia Giulia per poter stabilire la nuova frontiera tra l’Italia e la Jugoslavia. Un’apposita Commissione ha visitato cinque città: Gorizia, Udine, Monfalcone, Trieste, Pola e ventisette paesi dell’Istria occidentale. A Fiume ha inviato una semplice delegazione economica: non ha visitato le isole di Cherso e Lussino per espresso rifiuto del rappresentante sovietico; ha assistito a 52 interviste con varie organizzazioni; ha raccolto quattromila petizioni: 3650 filo-slave e solo 350 filo-italiane. Ciò dimostra l’efficienza della propaganda jugoslava e la paura della popolazione italiana.      Robert Laffan, membro inglese della Commissione, ha raccontato che a Pisino, sul tavolo delle riunioni, è stato trovato un biglietto: “Non potendo interrogare i vivi, interrogate i morti”. La Commissione è andata in cimitero ed ha constatato che nel periodo 1870 - l918 le lapidi scritte in italiano erano 137, in latino sei, in croato cinque, in tedesco una. Nel periodo 1918 - 1945 quelle in italiano erano 127, in croato tre.  Dal 1943 al 1946 le lapidi scritte in italiano erano 162, in croato sette. 
     Quando le automobili della Commissione sono passate per Pirano e Montona, le donne hanno aperto le mani per mostrare le palme dipinte con i colori italiani. I quattro hanno concluso l’inchiesta con  decisioni conformi alle ipotesi di partenza, e cioè:
  • linea americana (Wilson del 1920, confine che comprendeva anche Zara): alla Jugoslavia, Zara, Fiume, le isole del Quarnero e tutta l’Istria orientale, comprese Fianona, Albona e Pisino.
  • linea inglese: ha aggiunto (alla precedente linea) per la Jugoslavia il territorio ad est di Dignano (Pola all’Italia).
  • linea francese: ha aggiunto alla Jugoslavia il territorio fino al fiume Quieto, compresa Cittanova (Trieste e Gorizia all’Italia).
  • linea russa: ha aggiunto alla Jugoslavia il territorio fino all’Isonzo (compresa Trieste e Gorizia. La Jugoslavia ha chiesto anche Grado e Monfalcone).

     Il 3 maggio 1946 il ministro degli esteri jugoslavo Kardelj ha protestato perché l’inchiesta era stata svolta su territorio slavo (invaso dagli slavi!) e le tre linee suggerite dagli Alleati non erano accettabili perché lasciavano troppi slavi in Italia. Quindi ha condannato le linee americana, inglese e francese, dalle quali  l’Italia avrebbe minacciato la piana di Lubiana e la Croazia.
     Il compito dell’Italia non era facile perché era uno Stato sconfitto, aveva di fronte a sé una Jugoslavia audace che occupava militarmente i territori e perché tutti le erano contro. Un libero plebiscito avrebbe potuto risolvere secondo il diritto internazionale il destino della popolazione giuliana, ma al plebiscito erano contrari tutti, compresa la Russia che aveva incorporato territori senza plebiscito, come i tre Stati Baltici.
     L’idea del plebiscito fu abbandonata, anche perché nell’ottobre 1945 la Jugoslavia ne aveva proposto uno che gli anglo-americani respinsero in quanto non avrebbe fornito garanzie nè credibilità. Scrive De Castro che il plebiscito venne rifiutato dallo stesso De Gasperi il quale aveva scritto il 25 agosto 1945 a Tarchiani che “rischierebbe di creare un precedente pericoloso per l’Alto Adige dove potremmo conseguentemente trovarci nella necessità di accettare una soluzione parallela”. Certamente, con un plebiscito libero De Gasperi avrebbe potuto salvare l’Istria, ma avrebbe forse perduto Bolzano e Trento.  L’aver posto il problema in questa alternativa così cruda, danneggiò la sua immagine negli ambienti giuliani, tanto più che il plebiscito libero non sarebbe mai stato attuato per l’opposizione della Jugoslavia e della Russia (Molotov, Parigi - 25 aprile 1946).


L’ISTRIA, FIUME E ZARA ALLA  JUGOSLAVIA

     Tra il 29 luglio e il 15 ottobre 1946 ha avuto luogo a Parigi la conferenza dei 21 Stati “vincitori” per la definizione del trattato di pace. Su tutti pesavano gli interventi dei “Quattro Grandi”, tanto che il rappresentante neozelandese Jordan ebbe a commentare: “Che razza di conferenza è questa in cui una minoranza di quattro tizi ha sempre ragione. Questa è roba da Hitler e Mussolini”. Il 10 agosto De Gasperi chiese la “linea Wilson” ed uno statuto speciale per le città di Fiume e Zara, mentre la Jugoslavia pretendeva con insistenza lo spostamento della frontiera oltre l’Isonzo.
      La delegazione italiana (De Gasperi, Saragat, Bonomi) era stata invitata ad assistere, ma non poteva interferire nella discussione. Erano le 16 del 10 agosto quando De Gasperi fu invitato a parlare, ma l’accoglienza fu fredda. Questo il suo esordio: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. Ha continuato dicendo che il sacrificio “di Pola e delle città della costa istriana implica per noi una perdita insopportabile. Voi rinnegate la linea etnica e la Carta Atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali”. Ha protestato perché si stava decidendo che gli italiani desiderosi di conservare la nazionalità italiana potevano essere espulsi nel giro di dodici mesi con la confisca dei beni, oppure potevano evitarlo soltanto “piegandosi ad accettare la nazionalità slava”.
     L’americano Byrnes ha commentato: “De Gasperi parlò con tatto, ma con dignità e coraggio.  Quando lasciò il podio per tornare al posto assegnatogli nell’ultima fila, passò accanto a molte persone che lo conoscevano, ma nessuno gli parlò. La cosa mi fece impressione e mi sembrò inutilmente crudele. Così quando mi passò accanto gli tesi la mano, strinsi la sua e lo invitai nel mio appartamento nel pomeriggio. Volevo fare coraggio ad un uomo che aveva sofferto sotto Mussolini ed ora stava soffrendo per opera delle  Nazioni Alleate”. Tito, invece, avrebbe commentato lapidariamente: “De Gasperi ha osato fare delle dichiarazioni assurde e provocatorie”.
     Il 29 settembre 1946 la Conferenza accolse definitivamente la “linea francese” che prevedeva la costituzione dello Stato Libero di Trieste e fissava la frontiera con la Jugoslavia all’altezza del fiume Quieto.
     Il 20 gennaio 1947 Pietro Nenni, ministro degli Esteri, ha dichiarato di “aver constatato che nessuna delle richieste del Governo italiano è stata accettata, che il trattato urta la coscienza nazionale specie per le clausole territoriali e che in queste condizioni si trova nella necessità di formulare le più espresse riserve e di chiedere che sia riconosciuto il principio di revisione del trattato sulla base di accordi bilaterali con gli Stati interessati e sotto il controllo dell’ONU”.
     Il trattato di pace del 10 febbraio 1947, composto da 90 articoli e 17 allegati, è stato “imposto” da 21 Paesi: esso premette che all’Italia “spetta la sua parte di responsabilità della guerra”, che essa si è arresa senza condizioni il 3 settembre 1943, che  dichiarò guerra alla Germania alla data del 13 ottobre 1943 e “divenne cobelligerante” e che pertanto gli Stati firmatari, “conformandosi ai principi di giustizia”, hanno concordato le seguenti condizioni:
·        cessione alla Francia dei Comuni di Briga e Tenda e degli archivi storici fino al 1860
·        cessione alla Jugoslavia dell’Istria con le città di Fiume e Zara, le isole di Cherso e Lussino e parte delle province di Trieste e di Gorizia
·        cessione alla Jugoslavia di tutti gli oggetti “di carattere artistico, storico, scientifico e religioso, compresi tutti gli atti, manoscritti, documenti e materiale bibliografico” che l’Italia aveva rimosso fino al 24 gennaio1924 e quello che aveva ricevuto dall’Austria e dall’Ungheria fino al 4 maggio1920
·        diritto da parte Jugoslava di requisire tutti i beni dei cittadini italiani
·        riparazioni di guerra che l’Italia dovrà pagare entro sette anni: 100 milioni di dollari alla Russia, cinque milioni all’Albania, 25 milioni all’Etiopia, 105 milioni alla Grecia, 125 milioni alla Jugoslavia, che ha nazionalizzato i beni dei profughi e li ha scontati sul debito italiano per un valore di 72 milioni di dollari, pari a 45 miliardi di lire (accordo del 18 dicembre1954). Contemporaneamente “il Governo italiano si impegna ad indennizzare le persone i cui beni sono stati requisiti dalla Jugoslavia”
·        assicurazione da parte Jugoslava di fornire a Gorizia l’acqua derivante dagli impianti di Fonte Fredda e di Moncarono, già italiani
·        obbligo dell’opzione, entro un anno, da parte di tutti gli italiani che vogliano conservare la cittadinanza italiana, con pieno potere alla Jugoslavia di accoglierla o di respingerla sulla base della lingua parlata
·        costituzione dello Stato Libero di Trieste: saranno cittadini del nuovo Stato coloro che vi abitano dal 10 giugno 1940
·        cessione alla Grecia delle isole del Dodecaneso che erano state occupate nel 1912 durante la guerra con la Turchia
·        non incriminazione di italiani che hanno collaborato con gli Alleati (anche slavi) a partire dal 10 giugno 1940
·        proibizione della rinascita di organizzazioni non democratiche
·        rinuncia a tutte le Colonie
·        riconoscimento dell’indipendenza dell’Albania e dell’Etiopia
·        arresto e consegna ai tribunali di coloro che hanno “commesso atti di tradimento e di collaborazione con il nemico” (è interessante notare che la Jugoslavia chiese un numero di “criminali” - oltre 700 - largamente superiore a quello di tutti gli altri Stati vincitori molto più grandi ed importanti della Jugoslavia medesima)
·        rimozione di fortificazioni militari “nel limite di 20 chilometri” dalla frontiera
·        rinuncia di possedere “alcuna arma atomica, proiettili ad autopropulsione, cannoni ad una portata superiore a 30 chilometri, alcuna torpedine umana e mine azionate mediante meccanismi ad influenza”
·        possesso di non oltre 200 carri armati
·        radiazione dei sottufficiali e degli ufficiali fascisti, salvo i riabilitati
·        riduzione della flotta militare e del personale a 25.000 uomini
·        riduzione dell’esercito a 165.000 soldati ed a 65.000 carabinieri
·        rientro dei prigionieri di guerra a spese dell’Italia.

     A Roma l’Assemblea Costituente sospese per mezz’ora la seduta, quale protesta contro la “pace ingiusta”: la città venne a trovarsi in uno strano silenzio (alle 11 il suono delle sirene ha fermato la vita, mentre tram, autobus e tutte le automobili sono rimasti bloccati nelle strade, coi portoni  chiusi  e le bandiere esposte a mezz’asta).  L’On. Fausto Pecorari, unico rappresentante della regione giuliana, invitò l’Assemblea a riflettere sul tremendo voto che stava per dare: “Con questo trattato la civiltà italiana della sponda orientale dell’Adriatico sparirà, come è sparita in Dalmazia”.


L’ESODO  DI  350 MILA  ITALIANI

      L’esodo si è presentato come l’unica soluzione per salvare la vita e la libertà: nel suo carattere plebiscitario ha assunto il significato ed il valore dell’autodecisione dei popoli, sancita dalla Carta Atlantica, e di una protesta collettiva contro l’ingiustizia internazionale che ha negato ai giuliani il plebiscito.
      “Migliaia e migliaia i deportati sotto gli occhi indifferenti degli anglosassoni; molti torturati, gli uccisi. Gli italiani erano semplice preda. Che cosa si poteva fare? Salvare le ragioni della vita, le ragioni dell’anima per non piegare, per non farsi semplicemente distruggere da gente imbestialita fuori da ogni legge. Il gesto degli antichi aquileiesi fu ripetuto con semplicità, con umana dignità, come avviene nelle grandi azioni necessarie. Pola fu abbandonata; Fiume, Rovigno, Parenzo, Pisino, Albona, Cherso, Lussino e via via, tutte le altre ne seguirono l’esempio”. (Biagio Marin).
      18 agosto 1946 - Sulla spiaggia di Vergarolla, presso Pola,  29 mine antisbarco, seppellite nella sabbia e collegate fra loro, scoppiano dilaniando 109 persone e disperdendo le loro membra in mare, contro i pini e contro la facciata della sede della Società Sportiva “Pietas Julia”, che aveva preparato una gara. Il Tribunale alleato accerterà che “l’esplosione non poteva essere accidentale” (tesi ribadita nel 2008 dopo l’apertura degli archivi del Foreign Office e la conferma di responsabilità dell’OZNA). Infatti le mine erano state disinnescate e lasciate in vista sulla spiaggia in quanto ritenute innocue: per gli abitanti di Pola fu l’ultimo tragico avvertimento. “Non è certo il caso di restare a Pola per fare da cavie, sacrificandosi per fare opera di italianità, come qualcuno ha detto a Roma. Nella capitale non si ha idea di cosa succede nell’Istria. Il pericolo è grande di fronte all’inerzia del Governo. La popolazione di Pola è angosciata e domanda se riuscirà a salvarsi.” (CLN di Pola, estratto dal verbale della seduta in data  27 dicembre 1946).
      I giuliani e gli istriani hanno affrontato l’esodo con determinazione fredda e responsabile: sapevano che l’Italia sconfitta, semidistrutta, mal vista internazionalmente, con tre milioni di disoccupati ed oltre, avrebbe offerto loro le baracche di legno, il pane nero ed ancora razionato, il sussidio dei poveri: non ci potevano essere certo interessi materiali nella loro scelta. “L’esilio ha rappresentato per noi l’abbandono di ogni cosa cara, la distruzione dei focolari domestici e delle comunità cittadine, per molti ha voluto dire la morte, la disperazione, la miseria”. (Sergio Cella).
Amedeo Colella  ha definito l’esodo come “una esigenza di sopravvivenza, di libertà, un bisogno di continuare a vivere nello spirito della civiltà latina, di praticare la religione dei padri, di educare i figli nelle tradizioni venete, un onesto e generoso amor di Patria”.
      Pasquale De Simone, segretario del CLN di Pola, antifascista, ha scritto nel 1961: “Il nostro esodo è stato ed è scarsamente capito; ma ci si risparmi almeno la puerilità di vederlo come un fenomeno di suggestione collettiva, di un’esaltazione retorica. Nacque come dolorosa necessità nella mente di ognuno per garantire una esistenza degna di essere vissuta, maturò a occhi bene aperti e si sviluppò a contatto dei grandi e piccoli problemi creati dal trasferimento in massa di una popolazione. Respingiamo il richiamo alle suggestioni che per tiepidezza o frettolosità sono state da qualche parte ricercate per infirmare il valore di una pagina di storia che ha, invece, il significato inalienabile di protesta, di rivolta contro il disprezzo della volontà popolare con cui si è voluto disporre del destino di una terra”.
       Nessun settore dell’opinione pubblica pensò ad un esodo tanto massiccio: la stampa si era  occupata del problema giuliano, ma identificandolo quasi sempre con la questione di Trieste. Pochi inviati dei giornali (tra i quali Indro Montanelli) arrivarono fino a Pola nei momenti caldi del 1946; quasi tutti si fermarono a Trieste, senza penetrare nella realtà particolare, quanto a condizione sociale ed a situazione psicologica, dei 30 mila abitanti di Pola, arroccati nei confini cittadini e collegati a Trieste soltanto via mare, con una linea a frequenza trisettimanale. Nessuno si azzardava a fare uso della ferrovia che attraversa l’Istria, in quanto occupata militarmente dalla Jugoslavia. Neppure De Gasperi credette allo spopolamento quasi completo di Pola. Quando il CLN di Pola fece compilare ai cittadini le schede per l’esodo e ne furono presentate oltre 28 mila, il Presidente del Consiglio pensò ad una forzatura propagandistica per contestare l’iniquo verdetto di Parigi, ma subito dopo, rendendosi conto di essere in presenza di un moto di popolo irrefrenabile, si preoccupò per il danno derivante sul piano nazionale dalla slavizzazione immediata di una città a seguito della partenza di quasi tutti i suoi abitanti. Cercò di prendere tempo chiedendo - invano - il rinvio di un anno dell’attuazione del trattato di pace, al fine di rendere possibile il raffreddamento delle contrapposizioni e lo stemperamento dei contrasti in un clima più rasserenato, sia pure per forza di rassegnazione. Intanto invitava a non precipitare, ma il messaggio portato a Pola dai delegati del CLN che facevano la spola con Roma accrebbe il timore dell’abbandono ed accentuò nei 28 mila che avevano sottoscritto la scheda dell’esodo, l’ansia di partire senza indugio.
      Sotto questa pressione, la fase dell’esodo fu dichiarata aperta dall’apposito Comitato di Assistenza istituito dal CLN che provvide a noleggiare i primi bragozzi per il trasporto delle masserizie. Alcune settimane dopo le autorità di Governo presero atto dell’evidenza. Fu possibile avvalersi anche della ferrovia per l’inoltro del mobilio, accatastato per lo più a Trieste. Trascorsi Natale e fine d’anno del 1946 in una corale esplosione di festosità (per reazione all’angoscia, per un fermo grido dell’ animo popolare, per l’ultimo ritrovarsi prima della dispersione), le partenze ebbero inizio nel 1947 subito dopo l’Epifania, con le corse normali della motonave “Pola” verso Trieste, che prese ad effettuare i viaggi stracolma di passeggeri. La linea fu poi rafforzata con il “Grado” per consentire l’effettuazione di corse giornaliere nel periodo dell’emergenza..
     Gli Alleati, non essendo più in grado di gestire il grande afflusso di profughi a Trieste, sollecitarono l’Italia ad intervenire. Il Governo, allora, mise a disposizione il piroscafo “Toscana” per una serie di collegamenti con Venezia e Ancona, protratti fino a marzo, quando Pola rimase quasi deserta: poco più di tremila coloro che restarono, comprese alcune centinaia di “indispensabili”, intendendo per tali gli impiegati pubblici che erano trattenuti sul posto dai doveri d’ufficio ed ai quali il Governo Militare Alleato aveva garantito il viaggio di trasferimento al momento del passaggio di sovranità alla Jugoslavia (15 settembre). Gli Alleati si adoperarono per facilitare l’esodo degli abitanti di Pola, ma anche dalle zone circostanti (già sotto la dominazione slava) che giungevano in città con ogni mezzo.
      Tutti gli altri istriani, fiumani e dalmati abbandonarono le loro case sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi.  Molti, in base al trattato di pace, ottennero il visto di partenza, ma ebbero la possibilità di portare con sé solo una valigia di indumenti e cinquemila lire. Ad altri, invece, il visto venne negato per ragioni politiche, per vendetta, per non privarsi di personale specializzato: ebbero così origine tante fughe drammatiche e pericolose. Sul Carso di Gorizia e di Trieste funzionava a pagamento un servizio di “spalloni” che guidavano i fuggiaschi attraverso passaggi clandestini; purtroppo non mancarono coloro che vennero colpiti da  raffiche di mitra, dallo scoppio di mine, o non riuscirono a superare il filo spinato. Alcuni, provenienti dalle coste istriane o dalle isole, affrontarono l’Adriatico con fragili barche a remi e raggiunsero l’Italia stremati dalla fatica, con le mani spellate e sanguinanti; altri, meno “fortunati”, vennero intercettati dalle vedette slave e  condannati fino a dieci anni di lavori forzati, per non dire delle salme di fuggiaschi travolti dalla bufera, restituite dal mare sulle coste venete e romagnole.


NELLE  BARACCHE  DI 109 CAMPI PROFUGHI

      I profughi arrivavano in Italia a ondate, ma dove e come sistemare tanta gente? Gli Esuli chiedevano di non essere dispersi e proposero una sottoscrizione nazionale per creare delle piccole città.  Luigi Einaudi sostenne l’idea del CLN di Pola per un forte insediamento in Alto Adige dove le attrezzature alberghiere offrivano una decorosa collocazione provvisoria e dove le industrie avrebbero potuto offrire diverse sistemazioni definitive. I Comuni del Gargano si riunirono in assemblea ed offrirono la terra per fondare una “Nuova Pola” affinché “i fratelli polesi possano riaffacciarsi su quel mare da dove incomprensione ed ingiustizia li hanno cacciati” (Deliberazione della Giunta Municipale di Vieste del 18 aprile 1947).


Esodo dai Pola

       Il parlamentare giuliano Antonio De Berti, dal canto suo, indicò la località di Castel Porziano per fare risorgere Pola e presentò un progetto dettagliato, ma il Governo si oppose a tutte le concentrazioni e preferì chiaramente la dispersione. Le autorità non si rendevano conto delle ragioni per cui tanta gente aveva  rifiutato una Jugoslavia “democratica” e vincitrice, ed aveva preferito l’Italia sconfitta, distrutta e umiliata: “Questi giuliani - pensarono - devono essere dei nazionalisti pericolosi. Disperdiamoli da Trieste alla Sicilia, da Torino a Bari”.
       Ed agirono di conseguenza.  Si erano appena vuotati i campi dei prigionieri e le caserme dei soldati, ed in questi locali si allestirono alla meglio 109 accantonamenti che vennero chiamati Campi di Raccolta. La burocrazia risolse il problema nella forma meno impegnativa: “I profughi sono dei poveri senza casa e senza lavoro, si mettano in fila dietro gli altri poveri”. Una massa di 350 mila persone richiedeva, invece, una soluzione globale e razionale: costoro, già abituati a soffrire ed a rischiare, hanno cominciato a costruirsi una nuova vita con tenacia silenziosa; non sono scesi in piazza ad urlare sotto le finestre delle autorità quando si sono visti intruppati nelle baracche recintate da filo spinato, decaduti nella miseria, con una gavetta in mano, in fila davanti ad una marmitta militare; quando per mesi ed anni hanno visto i loro figli e i loro vecchi tremare di freddo su una brandina.
      Non si poteva risolvere un problema così grave mettendo i profughi in fila con tre milioni di disoccupati e con quattro milioni di senza tetto. Un gruppo ardimentoso di istriani, fiumani e dalmati diede vita a vari enti: a Roma sorse l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, articolata in Comitati Provinciali ed in varie delegazioni all’estero, con diverse iniziative di assistenza morale, giuridica ed economica, e nel 1947 entrò in scena l’Opera per l’Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati. Era necessario impostare un programma assistenziale agile e funzionale, acquisire la fiducia dello Stato e degli Istituti finanziari, e naturalmente, quella dei profughi. A tale scopo furono chiamate a far parte dell’Opera eminenti personalità che misero a punto un programma articolato su tre settori principali: casa, lavoro, assistenza ai minori ed agli anziani. Alla presidenza si sono succeduti uomini di alto valore nel campo industriale e finanziario che hanno sempre dimostrato una generosa attenzione per il problema giuliano: Oscar Sinigaglia, fondatore delle Acciaierie di Cornigliano, Enrico Manuelli, Presidente del Gruppo Finsider, Giusto Carra, alto funzionario industriale, e via dicendo. L’Opera, con 50 miliardi di lire, ha costruito 8.326 case in 39 Province, creando spesso dei veri borghi e quartieri giuliani come a Trieste, Gorizia, Roma, Venezia, Varese, Udine, Milano, Brescia, Catania, Genova.

             

Campo Raccolta Profughi - Brescia





     Il collocamento al lavoro si à svolto attraverso varie fasi: l’Opera ha censito tutti i disoccupati, ha organizzato corsi di qualificazione per i giovani, ha preso contatto con importanti industrie che presentavano la possibilità di assunzioni; ha trasferito i lavoratori, a proprie spese, nella zona di lavoro, pagando loro l’alloggio ed un sussidio di mille lire giornaliere. Non appena il collocamento del profugo ha evidenziato una garanzia di stabilità, essa ha costruito gli alloggi e vi ha trasferito le famiglie dei lavoratori; con questo sistema è riuscita a collocare al lavoro 62 mila giuliani.
      Altri, che in Istria erano dipendenti dello Stato, ebbero ripristinato il loro posto di lavoro. Ad esempio, a Sestri Ponente (Genova), nella Manifattura Tabacchi furono collocati parecchi profughi, che però non furono bene accolti ed ebbero  momenti di vero sconforto: basti pensare che durante la campagna elettorale del 1948 alcuni candidati comunisti qualificarono i profughi, proprio in Liguria, come “banditi” che avevano osato abbandonare il “paradiso” di Tito.
     L’Opera ha creato, per l’infanzia e la gioventù, 14 istituti scolastici: sette Case del fanciullo, due Convitti femminili, due maschili, un pensionato per gli studenti universitari. L’assistenza ai giovani ha registrato 76.285 presenze con una spesa complessiva di 11 miliardi e 590 milioni di lire. I titoli di studio e le qualificazioni professionali conseguiti hanno consentito a decine di migliaia di giovani di tutelare i valori culturali della Venezia Giulia e di inserirsi brillantemente nella vita dello Stato. Particolare menzione meritano i due Preventori di Sappada: la salubrità della bellissima conca alpestre, la funzionalità dei locali, l’assistenza medica, l’attrezzatura scolastica e ricreativa si sono rivelate provvidenziali per l’infanzia profuga, debilitata da una lunga degenza nei Campi di Raccolta.
     Inoltre, l’Opera ha realizzato nove moderni centri per anziani con  942 posti letto, tutti ubicati nella Venezia Giulia, da Trieste ad Udine e Pordenone, permettendo una serena convivenza di persone provenienti dalle stesse terre, che avevano vissuto lo stesso dramma dell’esodo. Per la realizzazione di questo programma, così molteplice ed impegnativo, l’Opera si è avvalsa dei contributi dello Stato, dei mutui bancari, della collaborazione di Enti locali, della generosità di cittadini privati ed in particolare della famiglia Mayer Sinigaglia. Il successo è stato determinato dalla forte capacità programmatrice e realizzatrice dei suoi dirigenti.
     Tuttavia, oltre 80 mila Esuli abbandonarono l’Italia e si sparsero per le vie del mondo: cominciava per loro un nuovo esilio, più spesso in Paesi lontani quali Australia, Argentina, Canada, Stati Uniti, Venezuela.

    Ed i miei parenti? Come tutti, si erano preparati alla partenza da Pola. Il 2 marzo 1947, con il settimo viaggio del piroscafo “Toscana”, hanno visto la loro città che si allontanava, quasi nascosta dalle brume del mattino e dalle loro lacrime. Essi sapevano dove andare, non partivano alla ventura, perché avevano due punti di riferimento. Giunti a Venezia la famiglia dovette separarsi: i tre figli maggiori, la nuora e il nipotino dovevano recarsi a Verona, ospiti di un convento di Francescani. Il mio bisnonno e il resto della famiglia partirono per Genova dove furono ospitati dal fratello della moglie. La famiglia si sarebbe nuovamente riunita quando a Genova fosse stato possibile trovare un’attività adatta alle sue capacità professionali: era una famiglia di sarti. Furono abbastanza fortunati, perché riuscirono a rilevare una sartoria già avviata in un appartamento molto grande. Richiamati i figli da Verona, che si recarono a Venezia per spedire i mobili giacenti in magazzino, furono di nuovo insieme dopo una breve separazione. All’inizio, la padrona dell’appartamento non voleva riconoscere il contratto stipulato dal precedente inquilino e non accettava l’importo della pigione, che però veniva versato su un conto bancario. In seguito la signora comprese: si trattava di persone che desideravano vivere in pace e lavorare, accettò la  pigione ed offrì al mio prozio un appartamentino dove avrebbe potuto trasferirsi con la sua famiglia. Il lavoro aumentava, con una buona clientela (anche vecchi clienti della sartoria di Pola provenienti appositamente da altre città)) e poterono vivere in modo decoroso e tranquillo.
     Ma a Pola era un’altra vita !!!



Il piroscafo “Toscana”



Bibliografia:

- P. Rocchi Flaminio, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Anvgd 1990
- De Castro Diego, Trieste, Bologna, Cappelli 1953
- De Castro Diego, Questione di Trieste, Trieste,  Lint 1981
- Molzer, Fasti e nefasti della quarantena titina a Trieste, Trieste,  Moderno Grafica 1946
- Veiter, Aspetti sociali dei profughi delle regioni costiere dell’Adriatico
- Molinari Fulvio, Istria contesa, Milano, Mursia 1996
- Alberi Dario, Istria: storia, arte, cultura, Trieste, Lint 2006



1 commento:

  1. Peccato che mancano le foto!
    Ottima tesina per una sensibile giovane studentessa.

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