venerdì, aprile 27, 2012


La strage di  Vigoponzo di Denice , Alessandria

Poco dopo le 22 del 13 settembre 1944, un camion militare con a bordo un reparto misto repubblicano, si mosse con una missione da eseguire, da lla Caserma di San Fruttuoso a Genova di Via Marina di Robilan, Distaccamento della Marina. Sull’autocarro che viaggiò tutta la notte, in direzione di Piacenza, c’era una trentina di giovani armati, diciotto erano marinai della Decima MAS, tredici erano militi della Guardia Nazionale Repubblicana a guidare il reparto scelto erano un tenente della Guardia Nazionale, un guardiamarina e anche un maresciallo delle forze armate Germaniche.
 I diciotto marinai della Decima Mas, appartenevano ad un battaglione d’elitè,  il “ battaglione risoluti”, acquartierato a Genova e inizialmente composto da personale della Marina che aveva perso l’imbarco e che venivano utilizzati come presidio alle attrezzature portuali del capoluogo Ligure. Il battaglione organizzato e  comandato dal Capo di prima classe Felice Bottero, alle dirette dipendenze del Principe Junio Valerio Borghese, venne anche impiegato come forza anti guerriglia di contrasto alle numerose formazioni partigiane che erano localizzate sulle alture di Genova.
Quindi, quella notte del 13 settembre, il gruppo operativo che viaggiava sull’ autocarro militare verso la val Trebbia, era una unità  in parte scelta , con compiti estremamente rischiosi. Quello che oggi viene identificato militarmente come R.A.O., reparto acquisizione obiettivi. In pratica il gruppo doveva attraversare le linee partigiane, infiltrarsi in territorio fortemente ostile, infestato da formazioni partigiane, acquisire informazioni e poi , se possibile, tornare alla base. Allo scopo di essere poco visibili, i militari non indossavano alcuna uniforme ma vestivano come civili, l’armamento era composto da mitra, mitragliatrici e bombe a mano. Il mezzo telonato superò Serravalle Scrivia e arrivato alle Strette di Pertuso, al confine della Valle Borbera, venne immediatamente avvistato dalle vedette partigiane che vigilavano sulle strade di collegamento con la provincia di Alessandria e con l’Emilia Romagna. In quel tratto di strada, il camion si arresta e scarica i componenti del gruppo. Il piano dei Repubblicani era quello si farsi passare per partigiani di una banda proveniente da Cuneo e diretti ad una zona di lancio alleato a Varzi. Inizialmente la cosa va a buon fine, infatti riesce ad infiltrarsi e a transitare oltre un primo posto di blocco, esibendo all’occorrenza lasciapassare falsificati. Tuttavia alcuni partigiani pedinano, da lontano, il gruppo e si rendono conto che è diretto verso Denice e non nella direzione dichiarata. A questo punto scatta l’allarme e la situazione per i militari Repubblicani si fa molto rischiosa. Entrare in una zona controllata da preponderanti forze partigiane è decisamente un azzardo soprattutto in un periodo in cui le azioni e le contro azioni erano molto frequenti. In breve tempo, numerose formazioni partigiane giungono e circondano l’unità nemica. Lo stop al gruppo repubblicano avviene presso la locanda di Denice, in direzione della località denominata Vigoponzo. Qui  circondati da ogni lato,vengono costretti a deporre le armi e saranno segregati nei locali della trattoria, i soldati separati dai loro ufficiali e interrogati separatamente e singolarmente. È facile intuire il trattamento che viene riservato loro.
Il comandante dei Repubblicani , il Tenente Croner , affiancato dagli altri due responsabili,regge il gioco con freddezza, tentando di impersonare la parte del partigiano, per trovare una scappatoia per sé e i suoi uomini, ma accade l’imponderabile : un militare del gruppo, sottoposto a forti pressioni, perde la testa, e inizia a collaborare con i partigiani, svelando praticamente tutto : dalla identità degli ufficiali, sino ai reparti di appartenenza dei componenti il gruppo ed al loro vero  obiettivo, la situazione diventa tragica. Questo personaggio Carlo M., in seguito sopranominato in zona “lo scampato”, servì  praticamente al plotone di esecuzione , su di un piatto d’argento la vita dei suoi trentatre commilitoni, sapendo benissimo che le intenzioni dei partigiani erano quelle di liquidare la questione con le armi e che avrebbe firmato la condanna a morte dei suoi camerati. I partigiani sono soddisfatti, in una notte hanno bloccato un reparto di odiati fascisti e si apprestano a processarli, a loro modo  ovviamente e il fatto che i nemici vestissero abiti civili li facilita nel loro lavoro. Nella notte una improbabile ma crudele corte di giustizia, formata da partigiani rossi, pieni di odio , viene convocata e riunita per  giudica a tamburo battente i poveri disgraziati e darsi una minima parvenza di legalità.
 I prigionieri prima del “giudizio” vengono legati ai polsi con del fil di ferro dietro la schiena. Il militare ,che ha tradito i propri compagni, verrà graziato e senza tante complicazioni potrà allontanarsi prima che inizi la mattanza dei suoi compagni di sventura.
Alla mattina del 14 settembre 1944, i ventinove militari di bassa forza della Decima e della Guardia Nazionale Repubblicana, esclusi  gli ufficiali e sottoufficiali, vengono trascinati attraverso diversi sentieri sino ad una fitta foresta, accanto all’abitato di Vigoponzo, frazione di Denice.  Trovata una radura i poveretti furono liberati dal filo di ferro, costretti a scavarsi la buca. I prigionieri, tra le lacrime e le botte, scavarono due grosse buche rettangolari profonde poco più di un metro. Prima di dare la voce alle armi, il comandante dei partigiani “Bruno”, fece convocare il prete di Vigoponzo, che non poté fare altro che impartire la benedizione a questi uomini che scavavano nudi, visto che erano anche stati depredati dei vestiti e delle scarpe. In seguito queste prete, testimone oculare della vicenda, scrisse una relazione alla Diocesi in cui raccontò lo svolgersi degli eventi.
Mentre i condannati a morte scavavano, uno di loro, in un impeto di disperazione, tentò di fuggire balzando fuori dalla buca e ingaggiando  una violenta colluttazione con alcuni partigiani armati. Giovane e forte il ragazzo mise in serie difficoltà i boia ma alla fine fu sopraffatto dal numero sovrastante.
 Per punizione fu picchiato selvaggiamente dai partigiani che usarono sadicamente le pale e le zappe, accanendosi con ferocia sul suo povero corpo, fin quasi a staccargli gli arti e la testa dal tronco. Pare che anche gli altri prigionieri, prima di essere passati per le armi, abbiano subito orrende torture , infatti molti dei corpi quando vennero riesumati, presentassero segni evidenti di profonde sevizie, addirittura numerosi caduti avevano la lingua vistosamente fuori dalla bocca come se qualcuno avesse voluto strappargliela. Appena il prete si allontanò, i mitra dei boia iniziarono a falciare i giovani militari, a gruppi di cinque venivano portati sul bordo delle fosse e poi mitragliati. Dopo pochi minuti le fosse erano stracolme, poche palate di terra sul groviglio di corpi insanguinati. Prima di andarsene gli assassini rossi, spararono diverse raffiche sul sottile strato di terriccio che ricopriva i morti.
 Questo l’epilogo , gli ufficiali non vennero giustiziati ma trasferiti ad un campo di prigionia, in seguito ebbero destini diversi, il comandante riuscì a fuggire e fu destituto, un secondo, il Guardiamarina  Allori fu passato per le armi in un periodo e situazioni diverse e l’ultimo il maresciallo Tedesco sparì misteriosamente senza lasciare alcuna traccia.
Nel novembre del 45 i famigliari dei caduti, riuscirono a riesumare i corpi e a trasportarli al cimitero di Vigoponzo, dove vennero composti Cristianamente. Infine negli anni 50, i loro resti vennero trasportati al Sacrario della Repubblica Sociale Italiana, presso Genova Staglieno, dove tuttora riposano in pace. Negli anni successivi, fu posta nel Campo santo di Vigopozo una lapide a ricordare i caduti, con un elenco dei nomi, per lo meno di quelli riconosciuti, infatti nove di essi non furono identificati e a tutt’oggi non hanno un nome. Un particolare agghiacciante : sulla lapide anche un nome di un adolescente di 14 anni, Mario Storace ex appartentente all’Opera Nazionale Balilla.

Roberto Nicolick

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