domenica, febbraio 28, 2010

AGITAZIONE AL ALTARE DI SERA



Un piccolo comune della Valle Bormida , Altare, ostaggio di un giovane in stato di agitazione psicomotoria.

Sabato sera, ore 20,30 circa, sto transitando per la strada che attraversa il Comune di Altare, nell’oscurità, vedo un giovane, a torso nudo, in evidente stato di agitazione psicomotoria, in mano ha una maglietta che oscilla come fosse una banderuola, il tipo urla a squarciagola parole incomprensibili miste ad urla animalesche.
Il giovanotto è piazzato sulla mezzeria della strada e tira calci e pugni alle auto che gli passano accanto, poi si avvicina alla pensilina della ACTS e inizia a colpirla selvaggiamente sempre urlando.
Nella piazza dove il ragazzo da il suo spettacolo, vi sono tre locali, i cui avventori sono tutti usciti sulla porta ad osservare il tipo, ma nessuno si avvicina per cercare di capire le motivazioni del suo comportamento aggressivo verso le auto e l’arredo urbano.
Lo filmo a debita distanza, poi mi avvicino per tentare di parlargli e capire le sue ragioni, ammesso che ve ne siano: lo sguardo è chiaramente folle, barcolla, l’alito puzza di alcool, sull’addome ha numerosi tagli diagonali, bercia in modo strano ed incomprensibile, afferma di essere straniero, mi pare Rumeno poi mi minaccia con i pugni chiusi, al che decido di allontanarmi prudentemente.
Dopo pochi minuti arriva una autovettura dei carabinieri, ne scendono due militari che iniziano a dialogare con il giovane, il quale alla loro presenza, molto scaltramente si tranquillizza ed ascolta la ramanzina dei due militari. Sembra che si sia calmato, ma appena l’auto dell’Arma parte e sparisce verso Cairo Montenotte, inizia ancora a dare fuori di matto, urla, calci alle auto e anche ad un autobus che passa.
I pochi passanti che si recano alla piccola sala del cinema di Altare, gli girano alla larga per evitare di venire a contatto con il tipo che continua a dare in escandescenze.
Chiedo ai baristi e mi confermano che il giovane è straniero, Rumeno, abita ad Altare con la sua famiglia, ha circa una ventina d’anni, beve in quantità industriale e le sue scenata sono all’ordine del giorno, appena ha fatto il pieno inizia a gridare per la strada.
E’ uno spettacolo abituale per gli Altaresi che sono costretti ad assistere loro malgrado a queste scene molto sgradevoli, anche i ragazzini che passano devono prendere contatto con queste cose decisamente poco educative.
Perché nessuno interviene? perché le Autorità non prendono una posizione decisa verso queste situazioni ? Perché la convivenza civile in un piccolo centro come Altare deve essere colpita in questa maniera ?

Roberto Nicolick

venerdì, febbraio 26, 2010


La Francia verso il braccialettoelettronico per i mariti violenti




Il ministro della Giustizia insiste:«Entrerà in vigore da metà 2010»
PARIGIUn braccialetto elettronico per sorvegliare a distanza il partner o il marito violento. È l’idea del ministro della Giustizia francese Michele Alliot-Marie, che la prossima settimana dovrebbe presentare in Parlamento questo nuovo dispositivo - già adottato in Spagna - per contrastare le violenze domestiche. Questo sistema, che dovrebbe applicarsi anche agli ex-mariti, potrebbe entrare in vigore in Francia «entro la fine del primo semestre» 2010, ha detto da parte sua il segretario di Stato alla famiglia Nadine Morano. «È urgente occuparsi delle donne vittime di violenza», dice ancora la Morano in un’intervista pubblicata oggi sul quotidiano Le Figaro, nel giorno in cui l’Assemblea nazionale si appresta ad esaminare un pacchetto di legge per aumentare la sicurezza delle donne vittime di violenze e soprusi. Un vero e proprio arsenale di norme che prevede, tra l’altro, anche la criminalizzazione delle molestie psicologiche.

mercoledì, febbraio 24, 2010


La mutilazione dei genitali femminili è una pratica tremenda che riguarda 130 milioni di donne in tutto e che viene considerata, sbagliando, legata alla religione islamica anche se in realtà non è così; infatti viene giustificata da una società patriarcale che crede che la donna sia portatrice insana di male e dunque, per essere purificata, le debbano essere "ritoccati" gli organi genitali.Mutilazioni genetiche, e infibulazione, che si riflettono sull'intera condizione di vita di una donna, costretta a patire le pene dell'inferno la prima notte di nozze, durante il parto, nella gestione della vita quotidiana a causa dello sviluppo di disturbi che spesso portano alla morte, specie nelle bambine.Gli effetti psicologici delle mutilazioni genetiche sono ancora più difficili da classificare e vanno dall'ansia al terrore, accompagnati da senso di umiliazione permanente.L'Unione Europea vieta la mutilazione genetica dal 2001 e l'Italia ha deciso di approvare un'apposita legge nel 2006 in base alla quale rischia da 4 a 12 anni di carcere chiunque "in assenza di esigenze terapeutiche, cagioni una mutilazione degli organi genitali femminili. Si intendono come pratiche di mutilazione la clitoridectomia, l'escissione e l'infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo". La pena aumenta di un terzo se a subire la mutilazione è stato un minore o se il fatto è stato commesso per fini di lucro.Hannah Koroma di Amnesty ricorda in questo modo la sua infibulazione: "subii la mutilazione quando avevo 10 anni. Mia nonna mi disse che mi portavano al fiume per una cerimonia particolare e che dopo avrei ricevuto molto cibo da mangiare. Ero una bambina innocente e fui condotta, come una pecora, al massacro. Entrate nella boscaglia fui condotta in una casupola buia, e spogliata. Fui bendata e denudata completamente. Due donne mi trascinarono nel luogo dell’operazione. Fui costretta a sdraiarmi sulla schiena da quattro donne robuste, due mi afferrarono saldamente ciascuna gamba. Un’altra si sedette sul mio petto per impedire che la parte superiore del mio corpo si muovesse. Mi ficcarono a forza un pezzo di stoffa in bocca per impedirmi di urlare. Poi fui rasata. Quando l’operazione iniziò, cominciai a lottare. Il dolore era terribile ed insopportabile. Mentre mi divincolavo fui mutilata malamente e persi molto sangue. Tutte quelle che prendevano parte all’operazione erano mezze ubriache. Altre danzavano e cantavano ,


Fui mutilata con un temperino spuntato".

martedì, febbraio 23, 2010

PEDOFILO


Centotre bambini sono stati molestati e violentati, nell'arco di dodici anni, da un pediatra del Delaware, Earl Bradley, arrestato con l'accusa di stupro, abusi sessuali su minori e violenze. Il grand Jury della Contea del Sussex ha riscontrato oltre 400 reati a suo carico. Il dottor Bradley, 56 anni, era stato arrestato già in dicembre, perchè sospettato di avere commesso abusi su nove giovani pazienti nel suo studio a Lewes. Ma nel corso delle indagini è emersa l'atroce verità: in 12 anni di carriera, dal 1998 a oggi, le sue vittime sono state oltre un centinaio. Il procuratore che sta continuando a occuparsi del caso non esclude che questa cifra possa ancora lievitare. A inchiodarlo tantissime prove digitali e alcuni video registrati da lui stesso mentre violentava i suoi piccoli pazienti, tutte bambine e un solo maschietto. Secondo gli inquirenti, il suo caso è unico nella storia dello Stato, ma anche uno dei più gravi nella storia degli Stati Uniti. L'intera comunità di Lewes, graziosa cittadina turistica di 3000 anime sulla costa atlantica, è sconvolta. Da anni alcuni genitori avevano manifestato alcuni dubbi sulla correttezza del medico, ma nessuno poteva immaginare che si trattasse di uno stupratore seriale. L'ufficio del procuratore sta indagando ora come mai; nonostante le segnalazioni dei genitori, il Board of Medical Practice, l'organismo americano che ciclicamente autorizza l'abilitazione alla pratica medica, non ha mai fatto alcuna verifica in questi 12 anni. L'ultimo esame il dottor Bradley lo ha superato nel 2005, quando aveva cominciato a commettere violenze sui suoi piccoli pazienti da almeno 7 anni. Il suo avvocato, Eugene Maurer Jr, fa sapere che la linea difensiva punterà sull'instabilità mentale. Tuttavia sarà complicato dimostrare come un malato di mente abbia potuto organizzare in maniera così precisa le riprese video delle sue violenze. Al di là dei risvolti giudiziari, la vicenda ha aperto un dibattito pubblico sullo scarso controllo di molte famiglie americane nei confronti dei loro figli. Nel forum di commenti sul sito della Cnn, molti lettori si chiedono sbigottiti dove fossero i genitori dei bambini mentre il dottore durante le visite abusava di loro.

lunedì, febbraio 22, 2010

PER LE DONNE SOTTOPOSTE A MOLESTIE SESSUALI

I resoconti giornalistici e radiotelevisivi ci propinano quotidianamente episodi di violenza tanto che è quasi impossibile prendere un quotidiano, sfogliare un settimanale o ascoltare un notiziario senza venire a conoscenza di nuovi e spaventosi atti di violenza pubblica e privata, verso le cose e verso le persone. Proprio per l'importanza che la violenza ha raggiunto nella vita quotidiana in vari ambiti della vita sociale dobbiamo rassegnarci a considerarla come una delle espressioni, purtroppo sempre più numerose, dell'interazione sociale. Espressione di un'interazione disturbata e deviante, come lo è quella forma di violenza che spesso non trova spazio tra la cronaca nera quotidiana, ma pur si riscontra in tante storie di quotidiana sopportazione che tendono a rimanere relegate nei meandri della psiche femminile: la molestia sessuale.
Senza arrivare allo spettro di una violenza fisica evidente la molestia sessuale è pur sempre violenza, una violenza psicologica, insidiosa, strisciante, sempre più diffusa e sempre più sommersa che intacca la dignità personale dei soggetti socialmente più vulnerabili. La gamma delle situazioni di molestia sessuale, che portano la vittima ad un logoramento psicologico progressivo, è molto varia: si va dalla frase equivoca con doppio senso al fraseggio volgare, dall'apprezzamento pesante alla proposta diretta, dalla minaccia subdola ed imbarazzante ripetuta più volte fino ad arrivare al gesto osceno o alle avances più meschine, al ricatto e all'intimidazione sul posto di lavoro. Si consuma di preferenza in quegli ambiti in cui si determina da una parte una condizione di bisogno e vede dall'altra parte una condizione sociale contrattualmente più forte che abusa del suo potere o della sua autorità verso chi è gerarchicamente subordinato, solitamente donna. Pur tuttavia l'ambito della molestia si allarga pure al rapporto tra pari nell'ambiente di lavoro fino a portarsi sulla strada ed in certi ambienti pubblici dove prevale la convinzione maschilista che giustifica il complimento pesante alle passanti, la proposta insistente fino al contatto fisico impudente in una sala cinematografica e all'atto esibizionista. In tutti i casi il molestatore (quasi sempre di sesso maschile) conta sulla complicità del silenzio di una vittima psicologicamente indifesa. Infatti chi subisce la molestia solitamente è impreparata a difendersi al primo, inatteso, attacco: la mancata reazione favorisce l'innescarsi di un'escalation da cui sottrarvisi risulta sempre più complicato, soprattutto se la persona ritiene di non essere tutelata giuridicamente da provocazioni che non comportino aggressione fisica e possiede ad un tempo una bassa autostima e altrettante basse abilità sociali di autodifesa. Così la vittima di molestie è maggiormente esposta a crisi depressive, a stati di agitazione ed irritazione permanenti, insonnia, emicrania e a vari disturbi psicosomatici che si associano ad una minore efficienza lavorativa e minore fiducia nelle proprie capacità. Come difendersi ed evitare le possibili conseguenze psicologiche e psicosomatiche della molestia passivamente subìta?
La legge viene oggi in aiuto anche a chi, a vario titolo, sta subendo molestie sessuali in quanto ogni atto che disturba anche in minima parte la sfera sessuale altrui costituisce un reato penale. Attraverso la presentazione di una querela di parte che in tali casi, non può più essere revocata, l'interessata inizia così il suo atto difensivo con facoltà di essere pure risarcita di danni psicologici (biologici e morali) correlati alla molestia subìta.
Ma se l'attuale giurisprudenza protegga, a posteriori e su querela, la donna molestata, la difesa immediata è solamente psicologica. Le molestie, a differenza delle violenze sessuali vere e proprie, sono in definitiva pressioni psicologiche, a vari livelli, di tipo verbale e non verbale (sguardi insistenti, ammiccamenti, contatti interpersonali, esibizionismi non richiesti) e pertanto la risposta immediata si basa su di un repertorio competente di abilità cognitive, comportamentali ed emozionali di protezione e di fronteggiamento della situazione molesta attraverso una serie di mosse psicologiche per reagire, colpire nelle zone più vulnerabili e difendersi in varie situazioni interpersonali, anche complesse, affrontando il molestatore armate di sofisticate tecniche di dissuasione ed autodifesa psicologica paragonabili ad un ben assestato colpo di judo o di karate che spiazzano e mettono a terra l'avversario senza sentirsi in colpa, provare eccessiva ansia e senza compromettere la relazione sociale, mantenendo comunque un buon rapporto interpersonale con l'altro. Certamente tali strategie e tecniche dissuasive vanno apprese, con l'aiuto di uno psicoterapeuta esperto, attraverso un programma di protezione psicologica individualizzato da acquisire con una serie role playing e role reversal in studio e prove comportamentali sul campo con supervisione continuativa finché le abilità psicologiche di difesa diventano abitudini. E' possibile pure attraverso un programma di Harassement inoculation training preparasi preventivamente ad affrontare possibili molestie future al fine di ridurre la durata e l'intensità dell'emozione spiacevole, bloccare la molestia sul nascere, sottrarsi alla pressione sociale del molestatore con conseguente incremento del senso di autoefficacia e dell'autostima personale.

Nel frattempo alcuni suggerimenti spiccioli sottoforma di un decalogo antimolestie potranno risultare utili in varie situazioni interpersonali difficili.

1. Reagisci tempestivamente al primo segno di invasione della tua privacy per evitare che la non reazione venga colta come un segno di debolezza tale da indurre il molestatore a continuare la sua opera più pesantemente.

2. A richieste moleste specifiche evita di rispondere in modo troppo generico offrendo al molestatore una, seppur vaga, speranza di raggiungere il suo laido scopo.

3. Ogni qual volta che non sei d'accordo con le proposte del molestatore di' apertamente e decisamente di no senza alternative.

4. Di' di no guardando il molestatore, tranquillamente e seriamente, negli occhi ed usa un tono di voce deciso e sufficientemente alto.

5.Di' di no senza giustificazioni cioè senza sentirti in dovere di dire perché non accetti la sua proposta

6. Rispetto allo sproloquio e alla volgarità gratuita e disturbante va detto apertamente, direttamente, decisamente e tempestivamente al molestatore che tale comportamento ti infastidisce e che desìderi che la smetta.

7. In caso di insistenza da parte del molestatore ripeti, in modo conciso ma fermo e tranquillo, come un disco rotto il tuo rifiuto (preferisco di no, non mi va) oppure il desiderio di smettere (basta, finiscila!) finché l'altro non modifica il suo atteggiamento insistente.

8. In caso di molestie tattili attiva un contatto oculare intenso, fulminante e cattivo, poi grida con tonalità vieppiù crescente: vergognoso, giù le mani!

9. Davanti ad un esibizionista evita di fare il suo gioco urlano ed insultandolo (è proprio quello che cerca) ma piuttosto ti conviene guardare con indifferenza dicendo: ho visto di meglio

10. In ogni caso concentrati sul comportamento molesto e sgradevole dell'altro piuttosto che farti preconcetti e dar giudizi, sulla persona che attua il comportamento sgradevole.

sabato, febbraio 20, 2010

LA GLADIO ROSSA, L'APPARATO MILITARE DEL P.C.I.


da Wikipedia




Apparato paramilitare del PCI









indica una struttura paramilitare di natura clandestina, presumibilmente organizzata nel 1945 e sciolta nel 1974, costituita da ex partigiani e militanti del Partito Comunista Italiano.

Prima fase: 1945-1954

La formazione dell'apparato paramilitare
Secondo le ricerche di Gianni Donno (consulente della Commissione Mitrokhin e Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università di Lecce), al momento del disarmo delle disciolte formazioni partigiane imposto dagli alleati, le armi più moderne ed efficienti non furono restituite.Venne invece costituito un nucleo di azione clandestino, con base soprattutto nel centro e nel nord del paese (teatro della guerra di liberazione dopo l'8 settembre), nucleo costituito in maggioranza di ex-membri delle brigate partigiane «Garibaldi». Tale forza clandestina sarebbe stata direttamente dipendente dalle strutture dirigenti del Partito Comunista Italiano, in particolare da Pietro Secchia, braccio destro di Palmiro Togliatti .
Secondo i dirigenti del PCI tale forza poteva essere utilizzata con successo in un intervento armato volto alla costituzione di uno stato comunista in Italia, che doveva essere appoggiato da un sollevamento della popolazione. In seguito agli accordi di Jalta avvenuti nel febbraio 1945, l'URSS avrebbe tuttavia considerato che, se fosse scoppiata in Italia una guerra civile, i Paesi occidentali sarebbero intervenuti in forze. E l'URSS non era ancora pronta per fronteggiare un confronto con l'Occidente.Mosca indicò quindi a Palmiro Togliatti quale dovesse essere la nuova linea strategica da tenere Il fatto che Mosca fosse costantemente informata dell'esistenza della forza paramilitare è confermato in un rapporto dell'ambasciatore sovietico ai suoi superiori, 15 giugno 1945, il quale riferisce che "i partigiani del Nord continuano a nascondere le loro armi".L'organizzazione fu approntata al momento della smobilitazione delle formazioni partigiane ufficiali, nel 1945 .La prima relazione "occidentale" conosciuta sull'articolazione dell'organizzazione venne redatta a Milano, nel (febbraio 1947), dal console degli USA:

« A capo dell'apparato vi sarebbero Longo, Sereni e Grieco, a loro volta comandanti dalla sezione Comintern di Lubiana-Ginevra-Lisbona. Le operazioni militari sono gestite dall'ex-partigiano Cino Moscatelli. L'articolazione interna è suddivisa in vari nuclei e settori comandati dalla legazione sovietica in Milano di Via Filodrammatici 5.[5] »


Secondo le fonti americane la forza così costituita avrebbe contato tra i 130.000 e 160.000 miliziani, mentre altre stime ritenute più attendibili valuterebbero circa 77.000
L'organizzazione paramilitare comunista avrebbe ottenuto aiuti di uomini, armi e mezzi dalla Jugoslavia e sarebbe stata guidata da combattenti addestrati dai sovietici o da ex-comandanti partigiani.. Secondo altre fonti l'apparato ebbe contatti anche con la Politická škola soudruha Synka, formazione armata attiva in Cecoslovacchia .Che le strutture paramilitari del partito fossero finalizzate a compiti offensivi lo dimostra il fatto che i militanti comunisti italiani venivano militarmente addestrati oltre cortina a tre livelli (guerriglia, sabotaggio, intercettazione), del tutto sproporzionati se si accettasse l'ipotesi dei soli compiti difensivi
La struttura paramilitare del Pci fu predisposta al fine di sostenere una possibile insurrezione armata; ad operare come "quinta colonna" in caso d'attacco da parte dell'Unione Sovietica sul continente europeo .
Il 28 novembre 1947 si verificò uno degli episodi più gravi di quell'anno, descritto da alcuni cronisti dell'epoca, ma anche dagli storici successivi, come una vera prova di colpo di stato. A Milano Giancarlo Pajetta organizzò l'occupazione della prefettura, adducendo come motivazione la rimozione del prefetto Troilo, ultimo tra i prefetti politici della Resistenza ancora in carica. Il ministro dell'Interno, Mario Scelba non esitò a conferire pieni poteri all'esercito; la decisione finale del governo, invece, fu di trattare. Venne inviato a Milano l'on. Marazza, conosciuto e ben visto dai partigiani, il quale ottenne lo sgombero della prefettura senza spargimento di sangue. «Non si può negare che si trattò comunque della prova della tenuta della DC di fronte a situazioni di rottura»
Una seconda prova, questa volta di azione di massa, venne messa in atto poche settimane dopo con lo sciopero generale della FIOM proclamato a Roma l'11 e 12 dicembre 1947.Il 5 febbraio 1948 il governo emanò nuovi provvedimenti per l'ordine pubblico. In particolare pene più severe per i detentori di armi e per le manifestazioni che vedono l'uso di armi o di esplosivi; inoltre, il divieto assoluto di dar vita ad associazioni paramilitari e la condanna per omessa denuncia dell'ospitalità data agli stranieri .
Dal 1948 al 1954
Il 1948 fu un anno cruciale per la stabilità politica dell'Italia. In quell'anno elettorale avvenne il primo determinante scontro tra le forze centriste (in primo luogo la Democrazia Cristiana) e quelle della sinistra, coalizzate in un'alleanza social-comunista, denominata Fronte Democratico Popolare creata per vincere le elezioni politiche del 18 aprile.Il Fronte era dato nettamente per favorito, come confermarono alcune elezioni locali tenutesi nei mesi precedenti nel centro Italia e vinte largamente.Tra i due schieramenti non c'era riconoscimento reciproco. Il PCI credeva fermamente che la DC non avrebbe riconosciuto la probabile vittoria. L'apparato paramilitare fu quindi tenuto in stato di allerta per tutta la durata della campagna elettorale, pronto ad intervenire nel caso in cui la vittoria elettorale del Fronte popolare fosse stata negata dalle forze avversarie. Nell'imminenza delle elezioni Togliatti chiese un incontro con l'ambasciatore sovietico Kostylev per chiedere «se si deve, nel caso di una o più provocazioni da parte dei democristiani, iniziare l’insurrezione armata delle forze del Fronte democratico popolare per prendere il potere». Nel corso del colloquio, che ebbe luogo il 23 marzo in un luogo segreto fuori Roma, riferì che i membri dell'apparato paramilitare erano stati allertati (soprattutto nell'Italia settentrionale), rassicurandolo sul fatto che prima di lanciare un'eventuale insurrezione armata avrebbe chiesto il consenso di Mosca. La risposta del governo sovietico giunse il 26 marzo: Mosca fece sapere che soltanto in caso di attacco alle sedi del PCI i militanti avrebbero dovuto imbracciare le armi, ma «per quanto riguarda la presa del potere attraverso un'insurrezione armata, consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo».Alle elezioni politiche del 18 aprile la Democrazia cristiana vinse con il 48,5% dei voti, battendo il Fronte popolare, che si fermò al 31%. La sconfitta fu un duro colpo per le forze social-comuniste, soprattutto per le proporzioni con cui si verificò.
La regola di obbedienza a Mosca rischiò di incrinarsi in occasione dell' attentato a Palmiro Togliatti, compiuto il 14 luglio dallo studente Antonio Pallante.L'organizzazione paramilitare del partito ritenne che fosse giunto il momento di agire, tutto il Paese fu teatro di disordini. Vennero occupate fabbriche ed edifici pubblici, furono attuati blocchi stradali, scioperi, requisizioni di mezzi militari, assalti alle forze dell'ordine, con un bilancio di morti e feriti
Dall'ospedale, il capo del PCI mandò un messaggio ai propri compagni di partito: «State attenti, non perdete la testa» Il gruppo dirigente comunista, riunitosi la sera stessa, ribadì il no ad ogni ipotesi di insurrezione armata, che pure aveva cominciato a manifestarsi. Di quella riunione non esiste tuttavia alcun verbale: secondo la testimonianza del figlio Matteo, fu Pietro Secchia a dare le direttive per bloccare ogni tentativo rivoluzionario, argomentando che «non vogliamo la guerra civile, anche perché non la vogliono i nostri amici» .Lo stesso Secchia indicherà la posizione del PCI riguardo la ipotesi insurrezionale in un dettagliato resoconto di quelle giornate:

« Il compagno Togliatti ha avuto occasione di spiegare ripetutamente e l'ultima volta alla Camera nel suo discorso del 10 luglio 1948 che "quando un Partito Comunista ritiene che le circostanze oggettive e soggettive pongono all'ordine del giorno la necessità per le forze popolari avanzanti di prendere il potere con le armi, cioè con un'insurrezione, esso proclama questa necessità, lo dice apertamente. Così fecero i bolscevichi nel 1917 e marciarono alla insurrezione a vele spiegate, così abbiamo fatto noi comunisti italiani a partire dal settembre 1943, senza nascondere a nessuno la via che avevamo presa e proponevamo al popolo" "Non si portano - ha detto giustamente il compagno Longo nel forte discorso alla Camera - milioni di uomini alla battaglia e alla vittoria con circolari segrete e ridicoli piani K". Per mobilitare e portare alla lotta armata milioni e milioni di uomini, anche quando le circostanze oggettive e soggettive pongono all'ordine del giorno tale necessità, occorre che l'appello alle armi sia lanciato apertamente a tutto il popolo. »


Nella riunione del Consiglio dei Ministri del 29 luglio 1948 si affermò:

« Il tentativo insurrezionale c'è stato, tanto che a Milano i carabinieri hanno fatto denunce per atto di insurrezione contro i poteri dello Stato. Dopo aver visto in un'ora assumere dai comunisti posizioni di battaglia, non si può negare l'esistenza di programmi prestabiliti. »

(Aldo G. Ricci, «I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi», in (a cura di) Fabrizio Cicchitto, L'influenza del comunismo nella storia d'Italia, Rubbettino, 2008, pag. 86.)
Nella successiva riunione del Consiglio dei Ministri, Mario Scelba, titolare degli Interni, portò un'imponente documentazione che mostrava non solo i reati compiuti dai singoli, ma rendeva evidente che essi poggiavano sull'esistenza di una rete organizzata. Si pose il problema di un partito, quello comunista che, con la sua organizzazione ed i suoi metodi di lotta politica, si allontanava da un piano di legalità. La questione della messa al bando del partito venne chiusa dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, che si mostrò subito contrario l'ipotesi
Che l'organizzazione fu mantenuta in vita anche dopo la mancata presa del potere nel 1948 lo dimostra un rapporto del Sifar. L'ampia relazione, datata 28 febbraio 1950, descrive nel dettaglio la struttura di comando dell'organizzazione, suddividendola per regioni
I capi politici che sovraintendevano all'apparato militare erano Luigi Longo (per le formazioni garibaldine), Sandro Pertini (per le brigate "Matteotti"), Emilio Lussu (per le formazioni "Giustizia e Libertà"), Ettore Troylo (per gli indipendenti), Arnaldo Azzi (per le formazioni all'estero).I capi militari erano indicati in Arrigo Boldrini, Ilio Barontini, Gisella Floreanini, Fausto Nitti e Mario Roveda "I documenti attestano in modo inequivocabile che l'organizzazione paramilitare era parte integrante del partito e rimase subordinata alla sua autorità"


Seconda fase: 1955-1974

Dopo la costituzione nel 1955 del Patto di Varsavia, il PCI decise di riorganizzare il suo apparato militare clandestino, formando squadre ristrette di specialisti addestrati nei campi oltre Cortina, destinate a fungere da "quinte colonne" a sostegno di forze d'invasione del Patto .Al vecchio esercito di massa di derivazione partigiana si sostituì una struttura più agile e coesa. Parallelamente, nel partito la responsabilità dell'organizzazione passò dalle mani di Secchia a quelle di Giorgio Amendola.
Nel 1958, documenti di Questure e Prefetture dimostrano che l'organizzazione, alla fine degli anni Cinquanta, era ancora in vita.Solo a partire dagli anni sessanta la struttura perse importanza strategica; fu quindi lasciata ad un lento, ma continuo, declino. I depositi di armi esistenti furono liquidati dai detentori, senza peraltro chiederne l'autorizzazione alle forze di polizia

Documenti, ricerche ed inchieste sulla struttura militare clandestina del PCI in Italia

Dossier del Sifar
Il primo documento in possesso del Ministero dell'Interno sull'organizzazione clandestina del PCI è il dossier del Sifar (allora servizio segreto militare), risalente al febbraio del 1950. Nel documento sono riportati i nomi dei quadri dirigenti e gli obiettivi da colpire, la dislocazione delle forze in campo regione per regione, le strutture d’appoggio. Secondo il Sifar , nel dopoguerra il PCI poteva contare su un esercito occulto di 250 mila unità, che sarebbero quadruplicate in caso di invasione da Est da parte delle forze del Patto di Varsavia.
La rivelazione de L'Europeo: la «Gladio rossa»

Con la caduta del muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell'Unione Sovietica è stato possibile accedere a documenti in precedenza coperti da segreto che provano l'esistenza di un'organizzazione segreta composta da fiancheggiatori del Partito Comunista Italiano con l'appoggio del KGB. Tale apparato esclusivamente operante in Italia, ma presente in modo autonomo in altri paesi occidentali senza legami reciproci, sarebbe stato organizzato immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale e ristrutturato circa un decennio dopo con forti riduzioni degli organici

Su questo aspetto nascosto della storia comunista si sono cominciate ad avere notizie più approfondite a partire dal 1991 per uno scoop del settimanale L'Europeo. L'articolo, uscito nel n° 22 del 31 maggio, s'intitolava Di Gladio ne esisteva un'altra: quella rossa. A partire da questo momento l'apparato paramilitare del PCI è stato giornalisticamente denominato Gladio rossa.
Firmata da Romano Cantore e Vittorio Scutti, l'inchiesta rivela quanto segue:«Suddivisi in nuclei autonomi, ognuno dei quali composto da dieci elementi, i gladiatori rossi erano distribuiti in tutte le più importanti federazioni provinciali del partito, dove figuravano come semplici attivisti. Ma solo gli uomini dell'ufficio organizzazione conoscevano il loro vero ruolo e potevano mobilitarli e provvedere a mantenerli in addestramento. Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria e Toscana erano le regioni dove esisteva il massimo concentramento di gladiatori rossi».«I depositi clandestini di armi erano in caverne, casolari abbandonati e cimiteri».
L'articolo comprende un'intervista a Siro Cocchi, ex dirigente della federazione fiorentina del PCI.Cocchi rivela che i membri del partito chiamavano la struttura Vigilanza rivoluzionaria. Cocchi sostiene che l'organizzazione avesse solo compiti difensivi. Nei primi anni dopo la fine della guerra, in Francia era stato arrestato uno dei segretari del PCF, Jacques Duclos; i comunisti erano stati messi fuori legge in Grecia. L'organizzazione doveva proteggere i dirigenti del PCI in caso di messa al bando del partito in Italia.Per quanto riguarda chi dava gli ordini, Cocchi premette che «PCI e Vigilanza si muovevano su due piani paralleli, senza alcun punto ufficiale di contatto».Poi aggiunge che i capi della Vigilanza «erano i dirigenti dell'ufficio organizzazione, diretto fino al 1955 da Pietro Secchia, vicesegretario generale del partito e fautore della lotta armata. Con lui c'erano ex partigiani di grande esperienza militare e clandestina come suo fratello Matteo». Poi Cocchi elenca alcune personalità locali; l'elenco finisce con «Pietro Verga, uno dei vice di Secchia, e Giulio Seniga, ex partigiano della Val d'Ossola, braccio destro di Secchia».
L'anno in cui ci si avvicinò di più ad imbracciare le armi fu il 1948, non solo per le elezioni politiche, ma anche per l'attentato a Togliatti. [I capi del partito] «Volevano avere la capacità di difendersi militarmente senza che gli avversari lo sapessero». L'Europeo però fa notare come, «nonostante l'assoluta segretezza, il controspionaggio Usa aveva intuito l'esistenza dell'organizzazione». «Le corrispondenze riservate inviate nel 1950 al Dipartimento di Stato da due agenti che operavano in Italia dicevano che l'armata clandestina del PCI era forte di 75 mila uomini, i quali si addestravano sull'Appennino tosco-emiliano».«Un rapporto del Ministero dell'Interno denuncia che negli anni tra il 1955 e il 1965 vennero ritrovati casualmente 73 cannoni, 319 mortai, 3.500 mitra, 3.700 pistole, 250 mila bombe a mano, molti chili di esplosivi di ogni tipo e ben 109 radiotrasmittenti». A cosa servissero le radiotrasmittenti, lo spiega ancora Siro Cocchi: servivano per comunicare di nascosto con i compagni rifugiati a Praga, cui venivano chiesti «aiuti e consigli per addestrare e tenere in efficienza la macchina militare della Vigilanza rivoluzionaria». Cocchi stesso trasportò per anni con la sua automobile un membro della Vigilanza da Firenze fino al Passo della Futa, punto da cui lanciava i segnali radio in Cecoslovacchia.
Nel numero successivo, uscito il 7 giugno 1991, giungono nuove rivelazioni relative agli ultimi anni dell'organizzazione paramilitare del PCI
Nel 1969 esistevano ancora dei depositi di armi, in luoghi imprecisati dell'Appennino ligure (forse anche nella parte appenninica compresa nella provincia di Pavia);
Luigi Longo era il "capo ideale" dell'organizzazione. Sosteneva in privato che bisognasse "organizzarsi" per resistere contro "un golpe della reazione". Dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet in Cile nel 1973, si diffuse infatti nel PCI l'idea che un golpe di destra fosse possibile anche in Italia. Scrive L'Europeo: "La doppiezza comunista ebbe di nuovo una sua grande stagione in quel "radioso" 1973. Da una parte Enrico Berlinguer e il suo riformismo; dall'altra la vecchia base stalinista-partigiana e la nuova, gruppettara-operaista, unite nella paura autoritaria e pronte a reagire militarmente contro le provocazioni "da qualunque parte provenienti
L'inverno 1973-1974 trascorse nella costante vigilanza operativa, uno o due gradini sotto il livello di allarme.

Il 12 ottobre 1974 il generale Vito Miceli, al vertice del SID, il servizio segreto militare, fu arrestato, accusato di cospirazione contro lo Stato. "Secondo la rete informativa del PCI occultata dentro le forze armate, vi era la possibilità di un tentativo autoritario"
Nell'organizzazione clandestina scattò l'allarme rosso. L'ordine di mobilitazione partì l'1 novembre 1974 direttamente da Via delle Botteghe oscure (sede nazionale del PCI), emesso dall'ufficio organizzazione del partito. "Tutti i compagni più sicuri dovevano dormire fuori casa, in rifugi insospettabili".Fu dato ordine alle cellule occultate nella Rai e nel Corriere della Sera di sabotare telecomunicazioni e giornale in caso di golpe. I "gladiatori scarlatti" misero sotto tiro il trasmettitore Rai di Monte Penice, mentre i "compagni" nascosti sull'appennino si schierarono nelle zone di rispettiva competenza, ritirando fuori le mitragliatrici Sten e i mortai.Tutto ciò fu fatto all'insaputa di Enrico Berlinguer e di molti dirigenti regionali a lui fedeli. Quando il segretario venne a sapere della mobilitazione, ordinò un'inchiesta. E alla fine dell'indagine Berlinguer decise di sciogliere le "Commissioni antifascismo" (dietro le quali si celavano gli uomini dell'apparato paramilitare del partito). Era il novembre del 1974.


L'inchiesta della Procura di Roma

A seguito delle rivelazioni del settimanale L'Europeo, la Procura della Repubblica di Roma ha deciso di avviare un'inchiesta (8393/92 poi 8393/92B), che si è protratta dal 1991 al 1994. I PM Luigi de Ficchy e Franco Ionta hanno potuto indagare solo su fonti di tipo indiretto, in cui l'organizzazione è descritta nella sua articolazione generale. Da esse non è stato possibile individuare reati attribuibili a singole persone. Eventuali richieste di rinvio a giudizio per banda armata si sarebbero comunque scontrate con i tempi di prescrizione, già ampiamente scaduti. L'indagine si è conclusa nel maggio 1994 con la proposta di archiviazione.Nella richiesta si legge anche che "l'accertata predisposizione da parte del Pci di meccanismi difensivi in vista del temuto cambiamento del clima politico in Italia" non avrebbe assunto "dimensioni tali da costituire un serio, concreto pericolo per lo Stato"
Rimane peraltro ineludibile che i dossier esaminati dai PM, sia quelli dei servizi sia quelli della polizia hanno dato della Gladio Rossa descrizioni analoghe. Apparve quindi indiscutibile per i due magistrati l'esistenza di una banda armata occulta.Anche il GIP che nel luglio di quell'anno dispose l'archiviazione dell'indagine, Claudio D'Angelo, rilevò come fosse fuori di dubbio che una struttura armata facente capo al PCI sia realmente esistita fin dall'immediato dopoguerra e che molti dei suoi militanti siano stati addestrati al sabotaggio ed alla guerriglia al di là della Cortina di ferro
Della struttura paramilitare del PCI si è occupata inoltre la "Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi" (Commissione stragi), che nel 1998 ha affidato ricerche a Victor Zaslavsky e a Bradley Smith rispettivamente sugli archivi del KGB e della CIA.
Le relazioni della "Commissione stragi"
Nel 1999 venne divulgato da parte della stampa inglese il cosiddetto "dossier Mitrokhin", consistente in una serie di schede trascritte dall'archivista Vassilij Mitrokhin dagli archivi del KGB, relativi alle attività di questo in Italia. Il dossier, conosciuto anche come "materiale" o "rapporto Impedian", venne trasmesso dai servizi segreti britannici a quelli italiani tra il 1995 e il novembre del 1998, e venne quindi inviato dal Governo alla "Procura della Repubblica" e quindi da questa alla "Commissione stragi".
La Commissione stragi ha quindi affidato ulteriori incarichi di ricerca nel 1999 a Victor Zaslavzky e altri, si è inoltre pronunciata a favore dell'istituzione di una nuova separata commissione d'inchiesta parlamentare su questo argomento. La nuova commissione ("Commissione parlamentare d'inchiesta concernente il "dossier Mitrokhin" e l'attività d'intelligence italiana") è stata in seguito costituita nella successiva legislatura nel 2002
Nel 2000 la "Commissione stragi" constatata l'impossibilità di produrre un'unica relazione condivisa, al termine dei suoi lavori, ha pubblicato 18 diverse relazioni firmate da singoli membri o da gruppi di essi, rinunciando a trarne una sintesi unitaria.
La relazione di un altro consulente della commissione, Gianni Donno, consegnata nel 2001 e riguardante la "Gladio rossa", fu trasmessa dal vicepresidente della Commissione stessa, Vincenzo Manca (Forza Italia) alla Procura della Repubblica di Roma: fu aperta una seconda inchiesta che si concluse nuovamente nel 2002 con una richiesta di archiviazione.
Audizione dell'ammiraglio Fulvio Martini
Secondo l'ammiraglio Fulvio Martini, già direttore del Sismi, ascoltato dalla Commissione stragi, lo stesso KGB aveva interesse che in Italia, Paese assegnato dagli accordi di Jalta alla sfera d'influenza statunitense, ci fosse un partito comunista molto forte, ma che questo mai andasse al potere per non sconvolgere gli equilibri ottenuti con gli accordi stessi:

« MARTINI. "Krjuchkov (il capo del KGB) mi disse, ad esempio, che loro erano i più precisi osservanti degli accordi di Jalta. Ed era verosimile per il semplice motivo che i tre paesi confinanti, Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, che si erano ribellati, loro non volevano che fossero aggrediti dalla propaganda americana. A loro faceva comodo che ci fosse in Italia un forte Partito comunista. Mi disse Krjuchkov: il Partito comunista in Italia non arriverà mai al potere perché noi cominceremmo a preoccuparci veramente, visto che è stato assegnato a Jalta agli americani, non è un paese grigio come la Jugoslavia, è un paese bianco; noi arriveremmo persino a prendere misure attive. Misure attive nel gergo dei servizi significa fare la disinformation: introdurre documenti falsi ed altre cose del genere. Quindi loro avevano interesse che ci fosse un forte Partito comunista, ma non che potesse arrivare al potere perché avrebbe turbato l'equilibrio al quale loro tenevano molto, perché secondo loro l'Italia non valeva i tre paesi confinanti, che si erano già ribellati a loro." »

(Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 54a seduta, Audizione dell'ammiraglio Fulvio Martini, già direttore del Sismi, su recenti notizie concernenti attività spionistiche collegate a fenomeni eversivi e sul caso Moro
La forza militare clandestina sarebbe stata tuttavia mantenuta per intervenire contro un eventuale opposizione armata ad una legittima vittoria elettorale del PCI: in tal caso sarebbero potuti intervenire in appoggio anche gli eserciti della Jugoslavia e dell'Ungheria senza disattendere gli accordi di Jalta.

VOLONTARI SILENZIOSI

Preghiera del volontario del silenzio


Eterno, onnipotente e onniscente Iddio,fonte di misericordia e di amore,
proteggi questi tuoi figli,proteggi noi volontari del silenzio,
posti al servizio della Patria.
Fortificati dalla tua presenza amorosa,aiutaci a compiere,

con coscienza illuminatae pura, l'arduo dovere.
Siamo sentinelle vigili nel difficile compitoassegnatoci.

Aiutaci a sventare le tenebroseinsidie del nemico, le trame ele macchinazioni dei suoi complici.
Noi lottiamo per la concordia, per la pace,per l'unione, per il bene della Patria adorata.
Se sangue dobbiamo spargere, sia seme disperanza e di luce.
Benedici i nostri focolari lontaniche trepidano per noi.
Benedici questi tuoi figli infaticabili e puri,

o Dio onnipotente e onnipresente.
Benedici.



P. SILVERIO1974

lunedì, febbraio 08, 2010

UN SERIAL KILLER LIGURE DONATO BILANCIA


L’infanzia.Donato Bilancia nasce a Potenza, il 10 luglio del 1951. Suo padre lavora come impiegato all’Inam, sua madre, invece, come molte altre donne in questi anni, è casalinga; ha un fratello di diciotto mesi più grande di lui.Nel 1954 la famiglia si trasferisce ad Asti, di qui poi a Genova. Nel capoluogo ligure, Bilancia inizia a frequentare le scuole elementari, mentre a casa il rapporto tra i genitori va lentamente, ma progressivamente, deteriorandosi. A lui e al fratello capita spesso d’essere picchiati per insignificanti trasgressioni alle regole dettate dal padre.È in questo periodo che il piccolo Donato comincia a mostrare i primi segni di disagio. Alla comparsa dell’enuresi, però, i genitori reagiscono in maniera del tutto inappropriata, mortificandolo di continuo: il materasso bagnato viene messo in bella mostra su un poggiolo, cosicché i dirimpettai possano vederlo. Bilancia ne soffre molto, e anche a distanza di anni ricorderà questi episodi con enorme dolore. In una lettera scritta allo psichiatra Vittorino Andreoli (con cui dopo l’arresto inizierà una lunga corrispondenza), infatti, scriverà: «Ricordo che morivo di vergogna anche perché nell’appartamento di fronte abitava un signore con una o due figlie (non ricordo bene) che avevano all’incirca la mia età e questo per me era ancora più insopportabile. A volte mi svegliavo di notte perché mi accorgevo di aver fatto la pipì nel letto e cercavo di asciugarla con il calore del corpo, in modo che al mattino la mamma non procedesse all’esposizione esterna.»La manifestazione del suo malessere interiore, dunque, non soltanto viene ignorata, ma addirittura è derisa e punita con una pubblica messa alla gogna: ciò non può far altro che innestare nuove insicurezze nella sua già fragile personalità.Il vilipendio assurdo a cui è sottoposto raggiunge l’apice durante le vacanze estive, trascorse ogni anno a Potenza, in casa di una sorella del padre. Al momento di andare a letto, quest’ultimo, con la scusa di aiutarlo a svestirsi, gli tira giù le mutandine dinanzi alle tre cugine e mostra loro il suo pene poco sviluppato. «In quel momento, io mi attorcigliavo su me stesso, cadendo in ginocchio sul letto, morto di vergogna... Questo è stato l’evento che mi ha crocefisso per il resto della vita» dirà Bilancia.Gli anni delle scuole elementari trascorrono segnati da una serie di umiliazioni, ma nonostante questo Donato riesce a terminare le cinque classi ottenendo anche dei buoni risultati. Il suo rendimento scolastico cala invece, improvvisamente, durante le medie: piuttosto che studiare preferisce andare in piscina e gli altri ragazzini che frequenta lo iniziano al furto, attività che diventerà in futuro l’unica fonte di guadagno e di “soddisfazioni”.Raggiunta a fatica la terza media, Bilancia si scopre ossessionato dal denaro: rincasa tardi per dedicarsi alla vera e propria carriera da ladro che ha intrapreso. Nonostante le botte, non cambia atteggiamento, anzi, avendo preso l’abitudine di chiudersi in camera dei genitori per sfuggire al battipanni, inizia a sottrarre piccole somme in casa senza che nessuno se ne accorga. I soldi trafugati li spende con le prostitute, oppure li perde a carte.A quattordici anni, stanco del proprio nome, a suo modo di vedere brutto e insignificante, decide che d’ora in poi si farà chiamare Walter.Riesce a ottenere il diploma dopo due bocciature, s’iscrive al liceo nautico e l’abbandona nel giro di qualche mese, iniziando a lavorare. Cambierà parecchi mestieri: meccanico, barista, fornaio, ragazzo delle consegne.
Walter Bilancia, alias Arsenio Lupin.I primi guai di Bilancia con la legge arrivano a sedici anni: ruba le Alfa Romeo Giulietta Super per impossessarsi delle autoradio e rivendersele. Viene scoperto e arrestato; poiché è ancora minorenne, viene rinchiuso per il periodo estivo in un istituto di rieducazione. L’incontro con altri giovani delinquenti non fa altro che indirizzarlo ancor di più verso il crimine.Due anni dopo, infatti, finisce in galera. Un maldestro tentativo di furto in una chiesa si conclude con l’arresto del suo complice, che fa il suo nome e lo fa arrestare. Anche in questo caso, però, l’esperienza carceraria si rivela per lui soltanto fonte di nuove e cattive amicizie. Dopo questo primo episodio, comincia un lungo periodo fatto di colpi andati male, arresti, condanne e rilasci. Bilancia pare non riuscire a stare lontano dalle prigioni: addirittura, sconta due anni e mezzo di reclusione anche in Francia.Il salto di qualità da semplice topo d’appartamento a vero e proprio professionista del furto avviene nel 1984, grazie a un incontro casuale con un esperto ladro. L’uomo diventa in breve tempo il suo maestro e gli insegna tutti i trucchi del mestiere.Nella carriera criminale di Bilancia si registra dunque un “salto di qualità”: i numerosi colpi che mette a segno all’estero gli fruttano una disponibilità economica così vasta da sembrare inesauribile, nonostante le considerevoli somme perse al gioco. I debiti contratti coi gestori delle bische sono poco più che fastidi: basta rubare un po’ di più e tutto si risolve. Falsi amici prendono a frequentarlo unicamente per interesse; qualcuno addirittura dice: «Basta che gli vai dietro, a quello lì, raccogli quello che perde dalle tasche e diventi ricco.»Negli anni successivi è vittima di tre disgrazie: il suicidio del fratello, nel 1987, un grave incidente, da cui esce più morto che vivo, e il fallimento del negozio che aveva comprato.Reagisce nell’unico modo che conosce: ruba, gioca e va a letto con ragazze a pagamento. La sua vita, si può dire, si condensa in queste sole attività, ma per lui va bene così, anche se a volte ha l’impressione di non aver combinato niente di buono e di non aver costruito nulla dal punto di vista affettivo.«Andava tutto bene» dirà. «Fino al giorno del tradimento del mio amico fraterno Maurizio. L’ennesimo, e il più inaspettato.»Il tradimento.Bilancia, come egli stesso ammetterà, ha sempre avuto la tendenza a ricompensare i favori ricevuti in maniera spropositata: dà tre in cambio di uno, e chiunque gli dimostri un minimo di simpatia e di considerazione diventa per lui un “amico fraterno”. Vittorino Andreoli parlerà a tal proposito di un’enorme svalutazione del sé, che deve essere poi compensata con gesti di generosità altrettanto enorme.Ovviamente, la scoperta dell’errata valutazione delle persone che gli gravitano attorno giunge inesorabile, a volte dopo pochi giorni, a volte invece dopo anni. A ogni “tradimento”, però, Bilancia chiude un capitolo e ne apre un altro, comprando nuove amicizie che non sa conquistarsi, regalando e offrendo, animato dal desiderio dirompente di sentirsi accettato e di uscire dalla solitudine che ogni sera lo attende al ritorno a casa.Maurizio Parenti è stato l’amico più fidato, quello su cui non ha mai avuto dubbi, quello da cui non si sarebbe mai aspettato di essere pugnalato alle spalle.Almeno fino alla sera in cui capisce d’essere stato usato di nuovo.Siamo all’inizio dell’estate del 1997. Bilancia sta giocando a dadi, quando a un tratto Maurizio lo raggiunge al tavolo e gli chiede il favore di accompagnarlo alla bisca in cui lavora come buttafuori. Bilancia molla tutto e lo segue. Giunto nella bisca, constata che lì si gioca forte, proprio come piace a lui, e decide allora di provare qualche mano. Vince parecchi soldi. Le volte successive in cui ci torna, però, perde molto di più, quasi cinquecento milioni di lire in quattro sedute. La cosa non lo preoccupa eccessivamente: in questo periodo gli passano per le mani cifre da capogiro, svariati miliardi. Il raggiro emerge poche sere dopo, quando, in bagno, sente Maurizio dire a Giorgio Centenaro, il proprietario della casa da gioco: «Hai visto in che modo sono riuscito ad agganciarlo e a portarlo qui da noi?»Per Bilancia è un colpo durissimo. Torna a casa e passa la notte a piangere, si sente “il più scemo del mondo”.Nonostante cerchi nei giorni seguenti di cancellare l’episodio come già ha fatto mille altre volte, il tradimento di Maurizio lo tormenta, diventa un’idea fissa che lo induce a continui e fallimentari bilanci della propria vita. Incontrando Parenti e Centenaro, che continuano a trattarlo come un amicone, sente l’odio aumentare incontrollato, e il desiderio di ucciderli si sedimenta poco alla volta nella sua mente.Per la prima volta nella sua vita, Bilancia sente il bisogno di reagire.
Il primo della lista: Giorgio Centenaro.Ormai schiavo dell’idea di vendicarsi, il 14 ottobre del 1997 Bilancia imbocca, forse senza esserne consapevole, una strada che lo porterà a uccidere diciassette persone e a diventare il serial killer italiano che ha mietuto più vittime.Dopo essersi appuntato il numero di targa dell’auto di Centenaro, si reca agli uffici dell’ACI e risale all’indirizzo dell’uomo, poi lo aspetta sotto casa. Sono le quattro del mattino quando lo vede parcheggiare e dirigersi verso il portone. Lo raggiunge alle spalle e gli dice: «Ciao, come stai? Adesso andiamo a casa tua e ci facciamo una partitina, io e te.» Arrivati nell’appartamento, gli ordina di togliersi tutti i vestiti, tranne le mutande e la canottiera. Bilancia sa che usare la pistola non sarebbe saggio: Centenaro abita in una mansarda e il rumore dello sparo si sentirebbe in tutto il palazzo.Lo lega allora con del nastro adesivo, poi gli tappa naso e bocca con le mani. Ogni tanto gli permette di respirare, intanto gli spiega perché lo stia facendo. Alla fine, senza esitazioni, lo soffoca. Si accerta che sia morto dandogli un calcio nei testicoli.Apre la porta e se ne va.Il secondo della lista: Maurizio Parenti.Come già ha fatto con Centenaro, Bilancia attende che Parenti rientri a casa per mettere in pratica il suo piano. Fa finta di passare per caso in macchina da quelle parti, e nel vederlo gli dice: «Ho delle cose da farti vedere, degli orologi, se ti può interessare.» Parenti, che è un collezionista, lo invita a raggiungerlo. Parcheggia, allora, e scende dall’auto con in mano un sacchetto, all’interno del quale, invece degli orologi, ci sono guanti e nastro adesivo.Entrati nel portone, estrae la pistola e imbavaglia l’amico. Lo conduce all’interno dell’appartamento e lo lega a una sedia in cucina, si fa dire dov’è che tiene i soldi.La moglie di Parenti, Carla Scotto, si sveglia e si accorge di ciò che sta accadendo. Viene immobilizzata anche lei.Bilancia si appropria del contenuto della cassaforte (tredici milioni e mezzo in denaro, una scatolina piena di orologi, assegni) soltanto per sviare le future indagini, getterà poi ogni cosa tranne i contanti.Parenti e la moglie sperano intanto che col furto finisca tutto, che Bilancia abbia solo bisogno di soldi, ma quest’ultimo li conduce in camera da letto e inizia a parlare. Se sta agendo in questo modo un motivo c’è, e Maurizio lo conosce bene.Parenti comprende di non avere speranze e poggia il capo sulla pancia della moglie. Bilancia gli stende sopra il copriletto, poi spara due volte. Alla donna destina un solo proiettile, al petto.Prende la borsa con l’attrezzatura e gli oggetti sottratti e lascia l’appartamento.Furti col morto.Uccisi Centenaro e Parenti, Bilancia ha ottenuto la propria vendetta, ma una volta provata l’esperienza dell’omicidio non riesce più a controllarsi: la violenza che ha scoperto essere parte integrante della sua personalità ha bisogno di venir fuori e prevarica ogni freno razionale. «Penso che in me convivano due personaggi, che chiamerò B1 e B2» dirà ad Andreoli. «Fino al giorno del mio primo delitto, fortunatamente, B1 è sempre riuscito a controllare, anche se parzialmente, B2, quello più trasgressivo... Nei mesi in cui ho commesso gli omicidi era B2 a dominare su B1...»Il 27 ottobre 1997 segue Bruno Solari fino a casa, con l’intento di rapinarlo. Poco dopo che l’uomo è salito nel proprio appartamento, citofona e con la scusa di avere una raccomandata da far firmare si presenta alla porta e viene invitato a entrare. «Abbiate pazienza» dice a lui e alla moglie, «questa è una rapina.» Quando Maria Luigia Pitto inizia a urlare, perde la testa e la uccide. Spara poi anche al marito. Se ne va senza toccare niente, e ha il sangue freddo per fischiettare con noncuranza di fronte a una ragazza che incrocia scendendo le scale.Il duplice omicidio è stato lo sfortunato epilogo della rapina andata male, ma ciò che accade pochi giorni dopo conferma che Bilancia non ha più considerazione per la vita altrui. Non avendo soddisfatto il proprio bisogno urgente di soldi, egli decide infatti di derubare il cambiavalute Luciano Marro. Ne studia i movimenti per alcune sere e si accorge che l’uomo va a gettare l’immondizia lasciando aperto il blindato. Il 13 novembre gli sottrae circa quarantacinque milioni di lire, poi l’uccide, per evitare che possa testimoniare contro di lui. Coi soldi in tasca, s’allontana dal luogo del delitto.Siamo giunti così a sei vittime: tre uccise per vendetta, tre per soldi. Da questo punto in poi, però, qualcosa cambia: l’omicidio diventa un fine e Bilancia ammazza perché non può più farne a meno.
Guardiani e prostitute, metronotte e treni in corsa.Gennaio 1998: sta guardando la televisione, si alza dal divano per andare in bagno e decide che deve assassinare qualcuno. Esce per individuare un bersaglio, sceglie Giangiorgio Canu, guardiano notturno. Lo segue per un paio di sere per capirne le abitudini e gli spostamenti, poi, la notte del delitto, lo aspetta nel portone della palazzina che sorveglia. Quando lo vede uscire dall’ascensore gli mette il giubbotto sulla testa e gli spara. Gli ruba il portafoglio, ma poi lo butta.Passa poco più di un mese. Il 9 marzo si reca a Cogoleto, a trovare suo padre; dopo la visita carica in auto Stella Truya, una prostituta. La conduce in una galleria, qui hanno un rapporto sessuale, quindi la invita a scendere su una piazzola. «Guarda il mare» le dice. Le mette un asciugamano sulla testa, spiegando che non vuole che lei veda la sua targa. Le spara un colpo alla nuca, raccoglie l’asciugamano, ritorna all’auto e parte.La sua corsa all’assassinio è ormai lanciata: in due mesi uccide altre nove persone. Il 17 marzo tocca a Ludmilla Zubckova, passeggiatrice di Albenga. Bilancia la raccoglie sul rettilineo della cittadina ligure e la convince ad andare a casa sua, con la promessa di un milione di lire. Dopo una fellatio la fa scendere dall’auto e la fa voltare. Spara anche a lei alla nuca.Enzo Gorni, cambiavalute, muore tre giorni dopo, il 20 marzo.Come già accaduto con Luciano Marro, Bilancia entra nel blindato per rapinarlo, poi lo uccide; dopo l’omicidio va a giocare al casinò di Sanremo.A Novi Ligure, il 24 marzo, colpisce due metronotte: Candido Randò e Massimiliano Gualillo. Dopo aver individuato una villa con un cancello dotato di apertura a telecomando, che da esperto ladro sa forzare facilmente, si reca sul posto col transessuale John Zambiano, noto anche come Juli Castro. Lungo il vialetto che porta alla casa, parcheggia l’auto accanto a un albero, in modo che la portiera del lato passeggero non possa essere aperta. I due guardiani giungono a controllare. Bilancia spiega loro che ha trovato il cancello aperto e si è appartato con Juli, ma il viado, invece, avendo notato la pistola, dichiara che voleva usargli violenza. Uno dei sorveglianti dice all’altro di chiamare la centrale. A questo punto Bilancia spara a entrambi, poi tira due colpi al ragazzo che s’è nascosto dietro un cespuglio. I metronotte non sono ancora morti, li finisce con un proiettile ciascuno. Solo la vittima designata si salva: spinto forse dall’istinto di sopravvivenza, Juli Castro attacca e costringe Bilancia a una colluttazione. Alla fine il killer gli spara tre colpi, senza riuscire a ucciderlo. Da questo tentato omicidio scaturirà il primo identikit dell’assassino che sta terrorizzando la Liguria.Messo in guardia dal fallimento dell’ultima aggressione, Bilancia decide di rubare un’auto per commettere il delitto successivo: invece della sua solita Mercedes, il 29 marzo usa una Opel Kadett per portare a Cogoleto Terry Asodo, prostituta nigeriana. Dopo il rapporto sessuale, la fa scendere dalla macchina: la ragazza forse lo vede prendere l’arma e cerca di scappare. Lui le spara, poi termina l’opera con un colpo alla testa.Alcuni giorni dopo, su un giornale raccoglie un’inserzione che nasconde un’attività di prostituzione. Telefona e si reca all’indirizzo con l’intenzione di uccidere: ci va due volte, la prima per studiare il campo, la seconda per l’esecuzione. La donna, però, dinanzi alla pistola puntata alla testa scoppia in lacrime e chiede pietà: ha un bambino di due anni. Bilancia non ce la fa a premere il grilletto. Scappa lasciando Luisa Cimminelli viva: una testimone fondamentale.Passano solo altri due giorni e siamo al 12 di aprile. Bilancia sale sul treno La Spezia-Venezia. Individua una donna sola in uno scompartimento e attende nel corridoio finché lei non si reca in bagno: la segue e apre la porta con una chiave falsa. Il suo rituale è ormai consolidato: giacca sulla testa e colpo di pistola. Le prende il biglietto, perché non ne ha uno, e attende venti minuti in bagno col cadavere finché il pendolino non ferma a Voghera. Scende e aspetta un altro treno per tornare a Genova.Il delitto mette in allarme l’opinione pubblica ancora di più, in quanto la vittima è stata scelta a caso e al di fuori di ogni possibile “schema”. Non sono più soltanto le prostitute, o i cambiavalute o i metronotte, a essere in pericolo. Elisabetta Zoppetti era una persona comune, la prossima vittima potrebbe essere chiunque.Ma Bilancia il giorno dopo, a Pietra Ligure, sceglie di nuovo una passeggiatrice: Mema Valbona, di ventidue anni. Le chiede da dove venga: quando si sente rispondere “Albania”, decide che può morire. Nel suo progetto, infatti, le prostitute uccise devono essere tutte di nazionalità diversa.Con questo assassinio, la psicosi collettiva destata dall’esecuzione sul treno si attenua: pare che il serial killer sia tornato a colpire determinate categorie di persone e che quanto avvenuto il 10 aprile sia stato solo un episodio.Questa timida speranza crolla in meno di una settimana. Maria Angela Rubino perde la vita sul treno Genova-Ventimiglia, il 18 aprile, uccisa da un colpo alla testa sparato attraverso la giacca. Bilancia questa volta si masturba accanto al cadavere, cosa che non aveva mai fatto in precedenza. Scende a Bordighera e con un taxi rientra a Sanremo, dove aveva lasciato la macchina.La sua ultima vittima è Giuseppe Mileto: il 20 aprile, dopo una cena non pagata in un ristorante, Bilancia imbocca l’autostrada in direzione Genova e si ferma per fare rifornimento. Al benzinaio dice di non avere al momento denaro ma promette che tornerà a pagare il giorno dopo. L’uomo insiste per avere i soldi, la cosa gli manda il sangue alla testa. Lo minaccia con la pistola e si fa consegnare l’incasso della giornata. Intanto giunge una macchina e Mileto deve servirla, questi però cerca di comunicare al cliente cosa stia succedendo. Appena l’auto si allontana, Bilancia spara, si cambia d’abito, e va a saldare il conto al ristorante. Alle ventitré si reca al casino di Sanremo.
La cattura e la confessione.L’impressionante numero di omicidi compiuti in pochissimi giorni allarma l’intera popolazione genovese, molte persone che conoscono Bilancia iniziano a sospettare di lui dopo aver visto gli identikit tracciati sulla base delle testimonianze di Juli Castro e Luisa Cimminelli. In particolare, a portare gli inquirenti sulle tracce del killer è l’uomo che gli ha venduto la Mercedes. Non essendo stato formalizzato il passaggio di proprietà, le multe comminate a Bilancia continuano ad arrivare al vecchio proprietario, il quale nota un’allarmante coincidenza: molte contravvenzioni sono state prese in posti in cui sono avvenuti i delitti. I Carabinieri hanno così un nome su cui indagare.Il 6 maggio arriva l’arresto: tracce di saliva prelevate da una tazzina in un bar presentano lo stesso DNA rinvenuto sulla scena del crimine dell’omicidio Asodo.Bilancia confessa immediatamente ogni delitto, anche quelli di cui non è sospettato e che nessuno aveva pensato di collegare. La molla che lo ha spinto a uccidere, spiega, è stato il tradimento di Maurizio Parenti. «Quando nella bisca ho colto la frase di Maurizio che diceva "hai visto che sono riuscito ad agganciare Walter", nella mia testa è successo un macello e ho subito pensato: questi qui ora li debbo uccidere... sono sempre stato un lupo solitario, non mi sono mai iscritto a niente. Ma credevo nell'amicizia. Con quella frase pronunciata da Maurizio per l'ennesima volta mi sono sentito pugnalato alla schiena... Mi dispiace solo di aver ucciso Carla. Centenaro invece è sempre stato un viscido e lo trattavo come tale. Questo è stato il motivo che ha fatto esplodere in me una cosa di incredibile violenza. Perché io ho sempre vissuto tranquillamente per quarantasette anni, poi qualcosa è successo da un momento all'altro, non è che uno si sveglia alla mattina e dice: "va be’, oggi mi cerco un'arma e vado ad ammazzare qui e là".»Raccontando con precisione ogni delitto, illustra poi i propri piani futuri: avrebbe smesso di uccidere per un po’, voleva “lasciar riposare Genova, perché era una città un po' scossa”. Poi sarebbe stato il turno dei conduttori di bische.Ma è stato fermato, e forse è un bene. Bilancia ha sempre sperato “che la cosa fosse finita al più presto, magari a seguito di una sparatoria con la polizia”. In lui, l’idea del suicidio era sempre presente, è stato solo per vigliaccheria che non è riuscito a puntarsi la pistola alla tempia e fare fuoco. E ora che è in prigione quest’idea continua a tormentarlo.I processi.Il primo processo a suo carico si apre il 13 maggio 1999. Bilancia sceglie di non essere presente in aula: ormai ha confessato e preferisce stare lontano dai riflettori. Sono così PM e avvocati difensori a dividersi la scena, assieme ai periti incaricati di stabilire l’eventuale incapacità di intendere e volere.Le conclusioni a cui giungono gli psichiatri dell’accusa, Rossi, Ragazzo e De Fazio, sono chiare: esiste in Bilancia un disturbo del comportamento, ma esso “non ha inciso sulla capacità di intendere la realtà dei delitti che andava consumando.”Di diverso parere i consulenti della difesa, i quali puntano il dito sulla difficile infanzia dell’imputato, sulla tragica scomparsa del fratello, cui era molto legato, e sugli incidenti che hanno minato la sua integrità fisica e mentale. Secondo Di Marco e Canepa, “la capacità di intendere era gravemente lesa, inficiata, come dimostra la sproporzione totale tra causa ed effetto fin dai primi omicidi. Però quello che importa è che la capacità di volere lo era totalmente”.Sono allora le testimonianze dei periti nominati dalla corte, il professor Fornari, il professor Ponti e il dottor Mongoli, a decretare le sorti di Bilancia. Essi dichiarano: «Siamo giunti alla conclusione che Bilancia era al momento dei fatti, come nell'attualità, pienamente capace di intendere e di volere.»La corte d’Assise, in una lunga e dettagliata sentenza, dichiara dunque Bilancia colpevole e lo condanna all’ergastolo, con isolamento diurno per tre anni.Il processo d’Appello e quello dinanzi alla Corte di Cassazione si svolgono in tempi brevi ed entrambi confermano le condanne di primo grado.Attualmente, Donato Bilancia è detenuto nel carcere di Padova.
colloquio con Andreoli.Proprio nella prigione padovana sono avvenuti i suoi incontri con lo psichiatra e neurologo Vittorino Andreoli: a lui ha raccontato tutto se stesso, a partire dall’infanzia fino agli omicidi, senza tralasciare nulla, aprendosi completamente anche per cercare di capire cosa in lui non funzioni, perché abbia ucciso.Andreoli, dal canto suo, ascolta senza pregiudizi: non è coinvolto nei processi e non fa altro che raccogliere le esternazioni di un uomo che in qualche modo cerca aiuto.Dalle conversazioni libere, emergono allora numerosi elementi d’importanza psichiatrica: l’infanzia infelice, le violenze psicologiche subite, un senso d’inferiorità nei confronti di tutti, il fallimento della propria vita sociale, l’enorme malessere causato dall’avere un pene “nano”.Da questi elementi, Andreoli deduce gli aspetti più significativi della sua personalità.Bilancia è masochista, in quanto non ha fiducia in se stesso e l’uccidere per lui si traduce in un continuo uccidersi: è per questo motivo che parla continuamente di suicidio e dice: «Sono convinto che la soluzione di tutto sia la mia morte. Vorrei che fosse una morte senza clamore, una notizietta di due righe: “Il detenuto Bilancia si è impiccato in cella”, punto e basta.»Accanto a questo senso d’inferiorità emerge però una “grandeur”, un tentativo di mostrarsi migliore, una manifestazione esterna di grandiosità che compensi il nulla interiore.Da rimarcare, perché estremamente importante nella sua vicenda, è anche il “senso dell’onore”, quella fedeltà ai propri impegni che addirittura lo spinge a grossi reati pur di non mancare alla parola data. È forse proprio per questo motivo che per Bilancia i tradimenti sono ancora più dolorosi: egli è una vittima di cui tutti si sono presi gioco, nonostante la sua grande lealtà.E ancora è da sottolineare l’“infantilismo emotivo”: Bilancia critica i genitori ma va a trovarli almeno una volta alla settimana, parla del maestro ladro come del padre che avrebbe voluto.In sostanza, egli è sempre in bilico tra ostentazione di grandezza esteriore e percezione negativa interiore, e quando questo fragile equilibrio si rompe del tutto, B2 prende definitivamente il sopravvento su B1. La depressione per l’ennesimo smacco lo porta a scegliere tra due alternative: punire Maurizio, o punire se stesso.Sappiamo com’è andata.Quello che non sappiamo ancora è invece cosa accadrà in futuro. Bilancia è stato condannato all’ergastolo: carcere fino alla morte. Non possiamo dunque fare a meno di chiederci se sarà capace di attendere la fine.O se davvero prevarrà la sua domanda fissa...«Che senso ha tenermi in vita?»

Tratto da LATELANERA.COM


UOMO VERGOGNATI !


La violenza sulle donne non ha tempo né confini, è endemica e non risparmia nessuna nazione o paese, industrializzato o in via di sviluppo che sia. Non conosce nemmeno differenze socio-culturali, vittime ed aggressori appartengono a tutte le classi sociali, perché al di là di quello che tutti i giorni viene mostrato dai media il rischio maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici, vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro. Secondo l’Oms una donna su cinque ha subito, nella sua vita, abusi fisici o sessuali da parte di un uomo.
La violenza domesticaIn Gran Bretagna molte donne vengono picchiate a sangue dal partner, in Canada e in Israele è più probabile che una donna venga uccisa dal proprio compagno che da un estraneo. In Russia, un omicidio su cinquanta è compiuto dal marito, ma la violenza contro le donne è diffusa anche nelle avanzate democrazie scandinave: Marianne Eriksson, parlamentare europea della Svezia, qualche anno fa ha dichiarato che, nel suo paese, “ogni dieci giorni una donna muore in seguito agli abusi subiti da parte di un familiare o di un amico”. E negli Stati Uniti, ogni 15 secondi, viene aggredita una donna, generalmente dal coniuge: non è un dato riferito un’organizzazione femminista, ma da una severa rivista giuridica della facoltà di legge di Harvard.

venerdì, febbraio 05, 2010

FOIBE IO NON SCORDO

VIOLENZA TRA LE MURA DOMESTICHE


Violenza tra le mura domestiche...
La violenza tra le mura domestiche esercitata dal partner, sia esso marito o convivente, è un drammatico fenomeno troppo spesso rimosso dai mezzi di informazione. Un tempo era considerata un legittimo strumento di correzione all’interno della relazione tra moglie e marito, ma anche quando la sua legittimazione è venuta meno è rimasta l’erronea convinzione che si tratti di una “questione privata”.Con la legge 4 aprile 2001 n. 154, intensamente voluta dalle donne giuriste e non, impegnate nei Centri Antiviolenza diffusi su tutto il territorio, si è data una risposta in termini normativi alla necessità pratica di avere uno strumento che potesse separare rapidamente il destino della donna vittima di violenza da quello del carnefice, fosse esso marito o convivente.Il Codice Penale già prevedeva diverse fattispecie di reato quali le ingiurie, le percosse, la violenza privata o i maltrattamenti in famiglia; con l’entrata in vigore della legge 154/01 tuttavia attraverso la previsione dell’allontanamento dalla casa familiare di mariti o conviventi violenti, per effetto di una decisione rapida del giudice, si è giunti, almeno negli intenti ideali del legislatore, ad un’effettività e tempestività della tutela. Cosa fare nel caso una donna subisca violenza tra le mura domestiche? Qualora gli episodi di violenza siano isolati, è previsto che sia la donna a dover presentare querela entro 3 mesi dal giorno in cui la violenza è stata agita; grazie a questo si apre un procedimento penale a carico del suo aggressore.Se invece gli episodi di violenza sono numerosi e continuati, ossia sono maltrattamenti, è con la denuncia alla Polizia o ai Carabinieri che inizia il procedimento, che continua a prescindere dalla volontà della donna maltrattata di punire il suo aggressore.E’ bene ricordare che la denuncia può essere fatta anche quando delle aggressioni sono vittime i figli o altri membri della famiglia con cui la donna convive.Solo le percosse sono maltrattamenti puniti dalla legge? Ovviamente no. Accanto ai maltrattamenti fisici, quelli che provocano lesioni solitamente ben rilevabili, sono da considerarsi maltrattamenti anche quelli morali e psicologici, ossia tutte quelle condotte agite dal coniuge o dal convivente che provochino scherno, umiliazione e consistano in atti di disprezzo e di lesione della reputazione della donna.Si può denunciare il marito o convivente anche per aver costretto la moglie o la convivente, oppure un altro componente della famiglia, con la violenza o con una minaccia, anche non esplicita, a fare o a non fare qualcosa, ad esempio a non uscire di casa o a non usare il telefono. Quando si verificano episodi di maltrattamento è importante recarsi prima possibile in ospedale affinché venga certificato lo stato di salute della donna e le lesioni fisiche o psicologiche subite. Anche se non esistono segni visibili di violenza è comunque determinante che un medico rilevi lo stato di paura e agitazione che è connesso alla situazione subita nell’ambito della relazione con il coniuge o il convivente.