lunedì, febbraio 14, 2011

LA FOSSA DEI CAVALLI : DOVE I PARTIGIANI COMUNISTI FACEVANO SPARIRE I CORPI DEGLI UCCISI


l racconto dello studioso Roberto Nicolick di un posto dove decine di corpi giacciono in quel pozzo senza avere il conforto di una preghiera, di un fiore, in mezzo a scheletri di cavalli


Nel commettere uno o più omicidi, l’esigenza primaria ,per non essere scoperti, è quella di fare sparire il corpo del reato, cioè il cadavere, la mafia scioglieva il corpo dell’ucciso nell’acido, nella guerra tra gang negli Stati Uniti si buttava il morto alla foce del Fiume Hudson dopo avergli immerso i piedi in un blocco di cemento, alcuni rapiti dall’anonima sequestri Sarda sono spariti divorati dai maiali, tanto per citare alcuni esempi.

In provincia di Savona, dopo il 25 aprile del 1945, visto il superlavoro delle colonne di fuoco comuniste, si prospettò lo stesso problema, soprattutto nel triangolo della morte che comprendeva i comuni di Savona, Quiliano e Vado Ligure, dove le sparizioni di fascisti Repubblicani e soprattutto persone benestanti furono numerose: da qui l’esigenza di trovare un luogo pratico e sicuro dove poter fare sparire i cadaveri degli assassinati senza dare luogo a incresciosi ritrovamenti successivi e ancora più incresciose inchieste giudiziarie che potevano nuocere all’immagine dei partigiani comunisti.

Era necessario trovare un luogo baricentrico rispetto ai vertici del triangolo rosso della morte, un luogo fuori mano ma non troppo, raggiungibile però celato alla vista, vicino ai campi di prigionia che i partigiani comunisti, crearono subito dopo il 25 aprile 45 e che gestivano a Segno e Legino. In quest’ultimo per esempio si giunse a circa 300 prigionieri, numero che i membri della polizia partigiana , spesso e volentieri ridimensionavano con le esecuzioni sommarie e, da qualche parte i prodotti del loro serio ed impegnativo lavoro doveva essere smaltito. Nel campo di Legino soggiornò anche, per poco, la povera tredicenne Pinuccia Ghersi e pure la famigli Biamonti, qualche giorno prima di sparire ovviamente. In effetti i partigiani comunisti avevano trovato un sito idoneo, con le specifiche necessarie, dove nascondere, nei secoli dei secoli, i morti ammazzati, senza dover neppure scavare una fossa con il badile o senza neppure farla scavare, com’era consuetudine al morituro.

Il luogo era a poche decine di metri dal cimitero di Zinola, vicino ai campi di prigionia dove stavano per l’ultimo soggiorno i prigionieri definiti fascisti e quindi da liquidare. I partigiani comunisti disponevano anche di un camioncino preso a nolo da una ditta di Savona, la Ditta Minuto Noleggi, con cui trasportare i prigionieri vivi sino al luogo dell’esecuzione e poi cadaveri. E con burocratica efficienza annotavano i viaggi e i pagamenti del noleggio.

Il nome di questo posto lugubre era “cimitero dei cavalli”, ma ovviamente era solo un soprannome. Nonostante i tempi pericolosi e il clima arroventato, i carabinieri fecero delle indagini su alcune voci che circolavano sulla probabile esistenza del cosiddetto “cimitero dei cavalli” ed appurarono, innanzitutto che non era una favola ma la realtà per quanto terribile, poi si riuscì a stabilire la sua collocazione, ma il triste della vicenda e’ che non fu mai ispezionato al suo interno. Venne stilato un preciso e circostanziato rapporto a firma del Maresciallo Oreste Anzalone. Il posto era situato sullo spiazzo a sinistra del Camposanto di Zinola, Savona, in Via Quiliano, in un appezzamento di terreno destinato all’interramento delle carogne di animali.

Su tale appezzamento sorgeva una vecchia fabbrica di concimi, da tempo abbandonata, e a circa 30 metri dall’ossario del Cimitero, esiste tuttora, entro il perimetro della vecchia struttura industriale, un locale sotterraneo, già adibito a concimaia, che nel periodo anteriore al primo conflitto mondiale, ricevette rifiuti alimentari, merci guaste, carogne di animali affetti da carbonchio, ecc. da alcune mappe catastali le sue dimensioni appaiono di m. 14 per m. 5 per m.8 (per una cubatura di mc. 56 ).

Il locale con le pareti rivestite di pietra, veniva riempito di volta in volta, e il materiale organico in esso versato, veniva eliminato con i vari processi putrefattivi. La chiusura è assicurata da due grosse botole coperte da pesanti coperchi squadrati, nel 1950 il Comune di Savona ne ha vietato l’uso. Negli anni 50, dalle botole emanava un lezzo insopportabile, ed e’ facile capire il perché. Va anche detto che non si provvide alla rimozione del materiale in esso stivato.

Da rapporti dei carabinieri emerge che nei giorni successivi al 25 aprile 1945, elementi sconosciuti, nottetempo, gettarono nel locale sotterraneo, diversi corpi di persone soppresse, probabilmente dopo giudizio sommario e di cui si voleva tenere celata la morte. Gli unici dati certi, testimoniali, si è accertato che in almeno tre occasioni una decina di salme furono gettate nella camera sotterranea, con l’aiuto coatto dei guardiani del cimitero, obbligati dagli stessi sconosciuti ad attendere alla operazione. Le salme in quelle occasioni sanguinavano copiosamente, nessun elemento utile alla identificazione dei morti è stato fornito dai presenti.

Anzi, in una occasione i terrorizzati necrofori, assistettero ad una sparatoria tra gli sconosciuti che avevano portato lì le salme. Uno degli uomini armati cadde colpito a morte e ancora rantolante, fu fatto rotolare dai suoi ingrati “compagni di merende” nella botola, assieme a quelli che magari aveva assassinato poco prima. Fare una stima dei corpi delle persone soppresse contenute dal locale sotterraneo, e’ decisamente impossibile.

E’ curioso il fatto che il Comune di Savona, nel 1950, avuto sentore che c’era qualcosa di strano nel locale sotterraneo, ne vietò l’uso e altra cosa più strana è che nessuna Autorità procedette all’ispezione e allo svuotamento successivo. La realtà è che decine di corpi, oramai ridotti a mucchietti di ossa, giacciono in quel pozzo, coperto da due botole, senza avere il conforto di una preghiera, di un fiore, in mezzo a scheletri di cavalli e altri armenti morti di carbonchio, e nessuno sente il bisogno di scoperchiare questa orribile fossa comune e dare Cristiana sepoltura a queste povere persone, colpevoli solo di far nascere odio omicida ed intolleranza politica da chi predicava la liberazione ma che nei fatti non amava la Libertà.

2 commenti:

  1. "ma vai a cagare "....bella argomentazione , rispettosa dei morti ivi sepolti e sopratutto volta alla scoperta della verità storica. COMPLIMENTI.......

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Cesare B Cairo Montenotte 13 agosto 1987 Questo omicidio non ebbe risonanza mediatica solo nella provincia di Savona ma anche a livello nazionale e non solo. Con questo delitto dai risvolti intricati, il piccolo centro della Valle Bormida assurse alla ribalta delle cronache nazionali. Fu una vicenda contorta e ingarbugliata, con chiari e scuri, con frequenti colpi di scena, dove tutto quello che sembrava come tale , in realtà non era come appariva, era come un teatrino in cui entravano ed uscivano attori sempre diversi con ruoli criptici. Una storia di sangue, di soldi e ovviamente di sesso, che coinvolse l’opinione pubblica con tutti i suoi numerosi protagonisti, offrendo all’occhio impietoso della gente una immagine, purtroppo veritiera, della piccola provincia, delle ipocrisie che nascono tuttora all’ombra dei campanili, delle storie extraconiugali che venivano nascoste ma che prosperavano e che si protraevano nel tempo spesso con un doloroso epilogo. Da questa vicenda si fece pure un film noir con Monica Guerritore come protagonista. Per una dei protagonisti della vicenda, forse la principale, si coniò un soprannome: la mantide di Cairo Montenotte, facendo riferimento all’abitudine dell’omonimo insetto femmina che uccide il partner maschio dopo il rapporto sessuale. Le vite di molte persone, coinvolte a vario titolo nelle indagini, furono rivoltate come calzini, molti particolari, soprattutto, intimi vennero messi in piazza e non solo nelle aule di tribunali. Ancora oggi, nonostante la conclusione giudiziaria con una colpevole condannata in via definitiva, molti dubbi sussistono , soprattutto nella gente del posto che conosceva benissimo i protagonisti della vicenda. La storia ebbe inizio con una improvvisa scomparsa di un uomo, Cesare B, classe 1931, noto personaggio e notabile della Valle Bormida, consigliere comunale di Cairo Montenotte, facoltoso farmacista, con la passione prima per l’equitazione e poi per il calcio. Egli è il patron della squadra calcistica locale, la Cairese, che segue con grande passione e che sponsorizza a livello economico dando la possibilità alla squadra di effettuare trasferte e di avere giocatori di spicco. Come tutti gli uomini , Cesare B, nonostante fosse sposato e quindi tenesse famiglia, amava frequentare le donne, quelle belle. Egli conosce e inizia a frequentare una donna , Gigliola G, molto graziosa , di corporatura minuta, con una caschetto di capelli biondo, grazie al suo fascino magnetico, lei sapeva affascinare e sedurre gli uomini nella loro fantasia. Di professione fa la gallerista, esponeva e vendeva quadri, nel centro di Cairo. Tuttavia la donna era nata professionalmente come infermiera, aveva anche svolto la professione sanitaria in un orfanotrofio e quindi in una fabbrica a sempre Savona , la Magrini, in quel contesto lavorativo si era sposata con un metronotte da cui ha 2 figli. In seguito contrarrà altri due matrimoni, avrà un’altra figlia, e avvierà altre relazioni . Fra l’altro la donna in prima istanza si chiamava Anna Maria, mutato successivamente nell’attuale Gigliola. Fra Cesare e Gigliola, nasce una relazione amorosa che si protrae, Cesare provvede a tutte le necessità economiche della donna, paga senza fare domande per tutto quello che gli viene chiesto. I pettegolezzi su questa relazione si sprecano considerando anche il fatto che cesare è un uomo molto conosciuto e stimato e che entrambi vivono in un paese dove la gente "mormora". Dunque il 12 agosto del 1987 , il farmacista scompare senza lasciare traccia. Da qui si sviluppa una storia complicatissima, il suo corpo in parte carbonizzato viene trovato sul monte Ciuto, una altura nelle adiacenze di Savona. Effettuato il riconoscimento grazie ad un portachiavi metallico che riporta il simbolo dell'ordine dei farmacisti, alle protesi dentali e alle lenti degli occhiali. Brin era di corporatura massiccia, per ucciderlo, trasportarlo sino a quel sito ci sono volute sicuramente più di una persona. La prima indiziata è la sua amica, Gigliola G, la quale sostiene che responsabili dell’omicidio e poi dell’occultamento furono due personaggi provenienti da Torino con cui l’uomo aveva delle pendenze economiche in corso. Secondo la sua versione nacque una colluttazione tra i due e il farmacista ne uscì pesto e sanguinante, quindi i due aggressori trascinarono via l’uomo. La donna non portò elementi oggettivi a sostegno della sua tesi e quindi venne arrestata e rinviata a giudizio. Un minuscolo frammento di teca cranica venne trovato sulle scale della casa della gallerista e alcune macchie di sangue erano sui muri della camera da letto della casa della Gigliola, dove in effetti viveva di fatto anche il Brin. Secondo gli inquirenti la responsabile principale dell’omicidio fu proprio lei che in concorso con il suo convivente, Ettore G, uccise con un corpo contundente sul capo, un martello o un altro soprammobile, l’uomo nella notte fra il 12 e il 13 di agosto dell’87 mentre egli era disteso inerme nel letto, infatti i fendenti sono chiaramente dall’alto verso il basso, il delitto è avvenuto d’impeto come risultato di tutta una serie di contrasti anche su questioni a carattere economico, che sarebbero alla lunga sfociati in una separazione, forse l’uomo aveva in progetto di tornare dalla propria famiglia e in questo caso veniva a mancare per la gallerista una fonte di reddito. Pare anche che il farmacista avesse rifiutato un prestito di un centinaio di milioni alla donna, richiesti da lei con insistenza. Inoltre sempre secondo le indagini c’era un gruppetto di quattro persone che aiutarono concretamente la coppia a trasportare e occultare il cadavere sino al monte Ciuto, cosa che la donna da sola non poteva oggettivamente fare, il quartetto era formato da un funzionario di polizia in pensione, un politico locale, un artigiano e un collaboratore della vittima, tutti questi verranno riconosciuti colpevoli e condannati a pene minori. Vi furono tre gradi di giudizio e nell’ultimo, presso la suprema corte di Cassazione, venne confermata la condanna a 26 anni per la donna a suo marito 15 anni, mentre agli imputati minori , quattro uomini, vennero date pene minori.