domenica, novembre 27, 2011

La cartiera burgo di Mignagola, un luogo di atrocità fatte dai partigiani comunisti



Mignagola: la cartiera maledetta
Tra fine aprile e i primi di maggio del 1945 la “Cartiera Burgo” di Mignagola di Carbonera venne adibita dai partigiani comunisti a campo di concentramento e luogo di tortura di “fascisti o presunti tali” rastrellati nella zona o arresisi a guerra finita - Nei massacri di quei giorni solo un centinaio di vittime vennero identificate in quanto i corpi di molti uccisi vennero gettati nel fiume Sile sparendo per sempre - Il boia della cartiera era il sanguinario “Falco” (Gino Simionato da Sambughè) che in una sola azione massacrò a colpi di vanghetto trentaquattro prigionieri finendoli poi a colpi di mitra - Le agghiaccianti testimonianze dei superstiti sulle torture ai prigionieri e la crocefissione del sottotenente della GNR Gino Lorenzi - I rapporti dei carabinieri: «Si uccideva senza nemmeno prender nota del nome delle vittime» - Gli intrecci tra resistenza e delinquenza comune nell'impressionante serie di crimini che sconvolse il circondario - Le responsabilità dei partigiani della “Wladimiro” nei massacri - La storia dell'oro della Banca d'Italia sequestrato a Olmi di S. Biagio a sette triestini trucidati in cartiera e spartito tra partigiani cattolici e comunisti - Al termine dell'istruttoria sugli eccidi i colpevoli, noti e ignoti, vennero amnistiati in quanto responsabili di crimini «commessi in lotta contro il fascismo»

Questo è il racconto dei crimini e delle infamie perpetrate dalla banda del “Falco”, una delle più feroci formazioni comuniste operanti durante la resistenza nella zona a cavallo dei comuni di Breda di Piave, Carbonera e S. Biagio di Callalta, sulla destra del fiume Piave, poco distante da Treviso. Il suo nome è legato soprattutto ai massacri avvenuti all'interno della “Cartiera Burgo” di Mignagola di Carbonera dove, tra la fine di aprile e la prima decade di maggio del 1945, furono sterminate non meno di tre-quattrocento persone.
Nella zona, in combutta col “Falco” ma anche in maniera autonoma, operano diverse bande — gruppuscoli o cani sciolti — accomunati quasi tutti dalla stessa matrice criminale. C'è il gruppo di Antonio Sponchiado (“Fortunello”), la squadra di Luigi Pagotto (“Romi”), il gruppetto di Dino Piaser (“Balilla”), la banda di Dionisio Maschio (“Piton”), quella di Sebastiano Pastrello (“Russo” o “Biscotto”). C'è poi Luigi Pozzi, il furbo, defilato, imprendibile “Volpe”, coordinatore occulto e supervisore di molte imprese.
Gino Simionato, detto “Falco”, nativo di Sambughè di Preganziol, classe 1920, arriva nella zona presumibilmente nel settembre del '44 con alle spalle una militanza nella Brigata “Mazzini”, operante nei dintorni di Valdobbiadene. Uomo rozzo e violento, egli si impone subito per la sua feroce determinazione, riuscendo a raggruppare intorno a sé una banda di suoi simili così dipinti in un rapporto dei carabinieri del 1951:
«Simionato Gino, detto “Falco” - ... Godeva cattiva stima ed era poco amante del lavoro con tendenza a procurarsi i mezzi economici con attività illegale. Di carattere presuntuoso e arrogante, è sempre stato allontanato dai vicini e non è mai stato in buona considerazione della popolazione. Antecedentemente al reato ha tenuto mediocre condotta morale... Era diffamato come incline a commettere furti... Tenore di vita vizioso...
Bisetto Carlo, detto “Canea” (“Zebra”) - ... Risulta di cattiva condotta morale e politica e viene ricordato tra gli elementi sanguinari del periodo partigiano. Il reo si è dato alla delinquenza per motivi politici e il suo carattere è risultato sanguinario e crudele... La condotta susseguente al reato stesso risulta pessima... Operaio presso la Cartiera Burgo, dai conoscenti viene ricordato come persona pericolosa. Il suo carattere è violento e sanguinario.
Benedetti Alfonso (“Ferro”) - ... Carattere violentissimo, con tendenza a delinquere... Di carattere insubordinato... Sebbene giovanissimo e poco istruito, era divenuto, durante il periodo della liberazione, commissario di una brigata di partigiani e in tale qualità partecipò e fece parte di un tribunale partigiano. Anche dopo la liberazione ha tenuto una condotta pessima, tanto è vero che, vistosi abbandonato da tutti, è stato costretto a emigrare in Francia...
Cadonà  Silvio (“Senna” o “Secco”) - ... Di carattere violento, dedito al vizio e alle bevande alcooliche. Anche antecedentemente al reato ha sempre mantenuto una condotta scorretta e da tutti malvisto per il suo carattere violento. Durante la liberazione faceva parte di una formazione partigiana operante nella zona di Mignagola di Carbonera ed era da tutti temuto per il suo pessimo carattere...».
A un certo punto, alla cartiera si dovette smettere di uccidere e ciò, per i partigiani, fu doloroso, angosciante. Nella speranza forse di poter presto ricominciare, si premurarono di occultare, nella proprietà di “Villa Dal Vesco”, a Breda di Piave, ben sessantaquattro quintali di armi e munizioni, la cui presenza fu però denunciata alle autorità militari da una popolazione ormai esausta delle loro imprese terroristiche.
Parlano i superstiti
Di quello che accade a Mignagola e a Treviso dopo le stragi parleremo più avanti. Vediamo ora, a completamento e a conforto di quanto esposto, le testimonianze rese dai superstiti ai magistrati nel primo dopoguerra o, proprio di recente, su nostro invito.
Egidio Callegari, nella sua deposizione in tribunale, disse di avere incontrato, verso la fine del mese di aprile, mentre si trovava a S. Maria del Rovere, la signorina Armida Spellanzon, ex ausiliaria della GNR, e di averla accompagnata a recuperare delle valigie lasciate in custodia dalla parrucchiera del paese. Costei li condusse a “Villa Mocellin” e li consegnò ai partigiani che, dopo averli condotti in una stanza, li interrogarono. Ricorderà Callegari: «Io subii maltrattamenti, fra i quali un calcio che mi colpì dietro la schiena. La signorina fu coperta di improperi, ingiurie e altro. Le fu detto pure che, piuttosto di fare l'ausiliaria, sarebbe stato meglio fare la troia. Successivamente fummo prelevati e portati al Comando dei partigiani nella cartiera di  Mignagola. Lì fummo separati: lei in una stanza e io in un'altra. Qui subimmo altro interrogatorio dal comandante “Sauro” (Marcello Caldato - n.d.a.). Io ebbi in seguito il permesso di uscita, la signorina no. Questa fu prelevata e portata in uno stanzone; fu messa insieme ad altre persone che colà attendevano. Qui furono tutti trucidati; potevano essere in tutto una quindicina. Intesi i colpi di mitra. Prima della sparatoria intesi una voce che gridava: “Tutti a morte!”, seguita da un urlo emesso, immagino, dalle persone rinchiuse nello stanzone. Sentii distinta la voce della signorina: “No!, no!”. Dopo non sentii altro. Dalla stanza dove ero stato rinchiuso vidi dalla finestra, caricati su di un carretto trascinato a mano, sei o sette cadaveri che venivano portati via».
Francesco Grifoni, altro superstite della cartiera, così deporrà: «Nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, nell'aprile 1945, venni arrestato perché avevo prestato servizio come maresciallo nella GNR e tradotto nei locali della cartiera Burgo sita in Mignagola, a cinque chilometri da Treviso. In detta località, ove furono concentrati circa duemila fascisti o ritenuti tali, furono commesse dai partigiani atrocità e sevizie di ogni genere. Si calcola che almeno novecento persone furono uccise senza nemmeno la parvenza di un processo. Io giunsi alla cartiera il 30 aprile, insieme a un gruppo di una trentina di arrestati e, al momento dell'introduzione nello stabilimento, il capo dei partigiani addetto a riceverci ci prendeva a schiaffi, pugni e calci in modo che parecchi di noi rimasero pesti e sanguinanti. Altri due partigiani fecero togliere a tutti le scarpe, lasciandoci a piedi nudi e dicendo che le scarpe servivano a loro. A me, oltre le scarpe, furono tolti il denaro che avevo indosso, l'orologio d'argento, la penna stilografica e l'accendisigaro di metallo. La stessa sorte subirono i miei compagni di prigionia. Gli stessi due partigiani, armati di scudiscio, ci costrinsero a ballare con i piedi nudi sui vetri in modo che alcuni finirono per avere i piedi sanguinanti. La nostra condizione divenne ancora più dolorosa quando cominciarono ad affluire dalla montagna i componenti di varie brigate di partigiani i quali venivano sistematicamente a visitarci per cercare di riconoscere qualcuno dei responsabili delle persecuzioni da essi subite. E in tal modo essi sfogavano il loro rancore su di noi innocenti, tempestandoci di pugni e calci, tanto che dopo qualche giorno eravamo tutti pesti, contusi e tumefatti. Una sera, nel recarmi alla ritirata per un bisogno, vidi i cadaveri di tre persone impiccate a una sbarra di ferro. Nessuna contabilità e nessun inventario venivano fatti dei valori che ci venivano requisiti. Le brigate che agivano nella zona di Treviso erano la “Garibaldi” e la “Matteotti”, composte da comunisti e guidate da ufficiali slavi che erano particolarmente sanguinari. Ricordo che un capitano russo (Walter Sadicov - n.d.a.), che indossava una giacca nera e aveva dei denti d'oro e che seppi, là dentro, che in precedenza aveva ucciso i due agenti di PS a nome Lupo e Mignona in località Carbonera, si aggirava per i locali della cartiera e uccideva coloro le cui facce non gli piacevano. Nessun registro era tenuto delle persone che entravano e uscivano. Nessuno ebbe a chiedermi un documento di identificazione al momento dell'ingresso al campo. Mi fu chiesto il nome e cognome, ma nessuno si preoccupò di registrarlo. Durante la notte, nei vari reparti dello stabilimento, che era molto vasto, si sentivano le grida delle persone che venivano giustiziate sommariamente e le raffiche dei colpi di arma da fuoco. Un giorno il capitano russo, senza alcun motivo, girando per i locali cominciò a inveire contro di noi, chiamandoci vigliacchi, e ci afferrò, alcuni, per i capelli, dandoci dei vigorosi colpi sulla testa col calcio di una grossa pistola che impugnava. In seguito a quei colpi, un capitano dell'Esercito repubblicano a nome Mollica, che era prigioniero con noi, ebbe un forte choc e rimase in condizioni disperate, tanto che fu portato fuori dal campo e non fu più veduto. Ritengo sia morto. Il sottotenente della GNR Enzo Spinelli, ventiquattrenne, che aveva la famiglia a Reggio Calabria, fu ucciso dallo stesso capitano russo con un colpo di rivoltella alla tempia. Io pure fui colpito dal calcio della pistola del russo, che mi produsse lesioni alla testa che guarirono in una decina di giorni. Il comandante del battaglione partigiani che operava intorno a Treviso, e che faceva parte della Brigata Garibaldi, si chiamava Piovesan, era un ex carabiniere e abitava a Vascon di Carbonera. Egli comandava il reparto che per primo si concentrò nella cartiera di Mignagola. Egli dava gli ordini che venivano eseguiti dai suoi gregari. Gli altri capi, che erano particolarmente feroci e che operavano insieme al capitano russo, erano Falco e Volpe. Un giorno, da un gruppo di cinquanta persone fui portato insieme ad altri quattro per essere fucilato, perché si diceva da parte dei partigiani che un gruppo di fascisti, resistendo a essi, aveva ucciso due dei loro. Fortunatamente per noi, proprio al momento dell'esecuzione, giunse un commissario di brigata senza un braccio, che poi seppi essere un ex capitano d'aviazione, il quale sospese l'esecuzione stessa in quanto i fascisti responsabili erano stati catturati. Insieme a noi furono catturate alcune donne del servizio ausiliario. Esse furono violentate da alcuni partigiani che menavano vanto di tali loro imprese».
Successivamente il Grifoni, dopo quattro giorni di prigionia, fu portato in carcere a Treviso, dove rimase detenuto per alcuni mesi. Processato, venne poi condannato a un anno di carcere per collaborazionismo.
Altro superstite che deporrà davanti al giudice istruttore è Riccardo Guain, classe 1908, guardia giurata, che presta servizio fino al 26 aprile lungo il tratto dei binari che collegano la cartiera Burgo alla linea ferroviaria Treviso-Portogruaro-Trieste, a protezione dei carri di carbone in sosta che egli non permette a nessuno di avvicinare. «Il 27 aprile — ricorderà Guain — venni arrestato da alcuni elementi partigiani della zona di Treviso e precisamente da certi Aldo Fabris, Antonio Sponchiado e da altri due individui di cui non ricordo il nome. Venni rinchiuso in un locale della cartiera Burgo assieme a tanti altri arrestati e precisamente assieme a undici individui di Trieste tra cui una donna incinta. Detti triestini l'indomani del mio arrivo vennero fucilati in un cortile della stessa cartiera. Rimasi detenuto per otto giorni e fui oggetto, da parte di Aldo Fabris e degli altri due di cui non ricordo i nomi, a numerose sevizie e torture. Venni ripetutamente bastonato a sangue e varie volte mi fu sputato in bocca; mi facevano mangiare della carta e altre simili cose. Come ho sopra detto, a torturarmi erano in tre persone tra cui il Fabris e altri due di cui mi riservo di fare il nome. Posso però dire che gli stessi sono nativi e residenti nel mio stesso paese, cioè Carbonera. Detti individui mi riferirono poi che erano stati comandati e pagati dallo Sponchiado per torturarmi a sangue. Dopo otto giorni fui rimesso in libertà dagli stessi individui che ebbero ad arrestarmi. Durante il periodo di detenzione, oltre ad aver visto fucilare gli undici triestini di cui sopra, ho assistito alla fucilazione di tante altre persone che con me si trovavano detenute. Le esecuzioni venivano fatte in un cortile dello stabilimento stesso ed eseguite da un gruppo di elementi partigiani tra cui era Aldo Fabris e gli altri due individui del mio stesso paese e di cui, ripeto, mi riservo di fare i nomi. Devo aggiungere che tutte le persone che venivano arrestate, me compreso, venivano depredate di ogni loro avere. A me furono portate via la penna stilografica, la giacca e una cinta da pantaloni. A un colonnello del distretto di Treviso venne asportata la somma di lire 260.000 circa e così per tutti coloro che si trovavano con me rinchiusi nel locale della cartiera predetta».
Quando il Guain, per intervento di un parente operaio in cartiera, torna a casa, non ha un centimetro di pelle intatta: è tutto una piaga sanguinante e impiegherà mesi a rimettersi in salute. In seguito si arruolerà nell'Arma dei carabinieri e in tale veste renderà la sua deposizione. Ma confiderà ai suoi congiunti che, fra i torturatori, c'erano anche Zaffalon, Battistella, Sponchiado e la “staffetta” Trevisi.
Sevizie di ogni genere
Le medesime traversie del Guain subisce Giulio Trevisan, anni 45, macellaio, padre di sette figli, residente a S. Biagio di C. Prelevato da casa il 27 aprile da Gino Simionato (“Falco”), Silvio Cadonà (“Senna”) e Bisetto e portato in cartiera, venne pestato a sangue e torturato: gli viene perfino riempita la bocca di carta alla quale viene poi dato fuoco, ed è sottoposto a continue finte fucilazioni per terrorizzarlo e costringere i suoi a pagare per riaverlo vivo. La figlia maggiore si offre di prendere il suo posto. Invano. C'è chi lo vede, il 28 o il 29 aprile, in cartiera, sdraiato per terra accanto al Guain, semisvenuto e gemente, con un fazzoletto legato intorno al viso che gli regge la mandibola gonfia e slogata. I congiunti non ricordano più quante volte i partigiani si siano recati a trovarli per chiedere loro denaro e bestie macellate a riscatto del poveretto che, quando viene liberato, è ormai un rudere che non si regge in piedi. Non si rimetterà più né fisicamente né psichicamente perché, ciò che ha visto e subìto in quegli orribili, infernali giorni, lo ha sconvolto per sempre e incubi spaventosi lo perseguiteranno giorno e notte. Morirà nel 1950 in una casa di cura, dopo cinque anni di sofferenza.
Chi invece riesce a evitare anche le torture è il maresciallo dell'esercito Giovanni Zanette di Treviso. Sfollato a Cavriè di S. Biagio, il 30 aprile sta tornando in città col carro delle sue masserizie. In piazza a Cavriè viene catturato da alcuni partigiani, fra i quali spicca per bruttezza Aldo Borsato (“Iena”). Lo Zanette, trasportato in camionetta nella cartiera, viene quasi subito liberato da Luigi Pozzi (“Volpe”), del quale sta per diventare suocero. Si saprà poi che il maresciallo faceva il doppiogioco.
Quelle che seguono adesso sono altre testimonianze di superstiti, rese solo di recente da coloro che vissero l'inferno di quei giorni alla “Cartiera Burgo”.
Scrive Benito Guidato, ex sottotenente della GNR di stanza a Oderzo presso il collegio Brandolini: «... Dal 30 aprile ai primi di maggio 1945 sono rimasto nascosto presso una famiglia di Oderzo e solo dopo le notizie allarmanti delle fucilazioni a Ponte della Priula sono andato via assieme ad altri commilitoni. Il 3 maggio fui catturato a Saletto di Piave e ricordo come un incubo di essere stato portato prima a Villa Dal Vesco di Breda e poi nella cartiera di Mignagola dai partigiani del “Falco” e messo direttamente al muro già tappezzato di carne umana e sangue fresco di precedenti fucilazioni: solo un contrordine da parte di un partigiano ci salvò da sicura morte. Insieme ad altri militi fui rinchiuso nella nota stanza e sottoposto a maltrattamenti, ingiurie e altro, dopo essere stato spogliato di tutto. Ricordo in modo particolare che, per colpire, veniva usata una canna di bambù con inserito un tubo di ferro e uno scudiscio impugnato da una partigiana».
Il Guidato fu poi portato in un collegio a Treviso dal quale, dopo 15 giorni, riuscì a fuggire dirigendosi verso Bergamo.
Ricorda Carlo Coraluppi, altro superstite: «Il 30 aprile, nella tarda mattinata, fui catturato nelle vicinanze della caserma Salsa, assieme ad altri due militi e a un paio di ausiliarie, da un grosso gruppo di cosiddetti partigiani i quali ci portarono all'interno della caserma... Ci raggiunsero in breve tempo altri prigionieri, finché, è pomeriggio, caricati su di un camion, fummo portati al “campo di concentramento” di Mignagola/Cartiera... Trovammo grande affollamento di gente, fra i quali qualche volto conosciuto e fino ad allora insospettabile che cominciò a inveire contro di noi, finché, messi in fila, fummo ben pestati da un gruppetto di partigiani che ci sputarono anche addosso (a qualcuno in bocca; a me chiesero di porgere la mano su cui sputarono). Di corsa ci fecero entrare, sempre in mezzo alla folla, nei locali della cartiera, e anche durante quel breve tragitto si sentirono in dovere di colpirci in qualsiasi modo. Rintanati in una stanza e nel corridoio, fummo chiamati a uno a uno in un altro locale ove subimmo un interrogatorio a suon di botte. A me, che dissi di essere di Mogliano, una donna, che faceva parte della mezza dozzina di persone che sedeva dietro un lungo tavolo e che forse erano la corte di giustizia, chiese se conoscevo il “Falco” e precisò il nome: Gino Simionato di Sambughè. Poiché risposi negativamente, mi assicurò, ridendo, che presto l'avrei conosciuto. Portati quasi tutti in uno stanzone, dove erano stati ammucchiati, contro una parete, tavoli e sedie, fummo depredati di quanto avevamo (orologi, catenine e soprattutto soldi). A me portarono via persino il piastrino di riconoscimento militare. A tutti furono fatte togliere le scarpe che non rivedemmo più. Partigiani entravano di continuo nella stanza e tutti cercavano qualche “criminale”; non trovandolo, picchiavano tutti. Particolare accanimento ci mise nei pestaggi un certo Giovanni Brambullo (“Dante”) che usava, per spaccare teste, una vanghetta di tipo militare. Nello stesso stanzone erano rinchiusi anche una decina di militari tedeschi, quasi tutti ufficiali, che non furono toccati e che protestarono vivacemente contro i maltrattamenti inflitti agli italiani, soprattutto quando qualcuno di questi, sbattuto a suon di botte da un angolo all'altro, finiva addosso ai tedeschi stessi. Questi tedeschi rimasero con noi forse un paio di giorni e un loro medico si prodigò a medicare in qualche modo — sfidando le ire dei partigiani — i feriti più gravi, usando — non c'era altro — dei rotoli di carta della cartiera. Furono poi portati via, sempre con i dovuti riguardi. Sentivamo continuamente raffiche di colpi di fucile e qualche guardiano ci gratificava avvisandoci che presto sarebbe toccato anche a noi. Nel gruppo di cui facevo parte, e che ogni tanto si ingrossava per nuovi arrivi o diminuiva per partenze per destinazione ignota, c'era un Pianca (Emilio - n.d.a.) che ogni tanto veniva portato fuori e rientrava in condizioni pietose: fra l'altro gli infilarono un pugnale in un braccio, rigirandolo nella ferita. Fu poi definitivamente portato via e certamente ucciso... Altro massacrato di botte fu un giovane brigatista, di S. Lazzaro o S. Trovaso, accusato nientemeno di avere avuto in dotazione un fucile che egli chiamava “Ciàpa”. Fu trascinato fuori ormai morente, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. Di sangue era abbondantemente intrisa la poca paglia su cui bivaccavamo. Passarono così quattro giorni, con l'intermezzo della festa del 1° maggio, durante la quale fummo allietati da una banda che in cortile suonava fino all'ossessione le quattro note di “Bandiera Rossa”, frammiste a continue raffiche di mitra e colpi isolati. Non mangiammo, non dormimmo e alla latrina ci si andava scortati. E quanti poveracci orinavano sangue! Il 4 maggio finalmente fummo portati all'interno di un capannone. Era ormai indifferente a tutti se ci avessero fucilati. Forse era preferibile! Ci diedero invece da mangiare un risotto che quelli che riuscirono a ingoiarlo trovarono ottimo. A qualcuno restituirono le cose di minor valore sequestrate. Ci fecero lavare un po' alla meglio e ci caricarono su di una vecchia corriera, sul cui tetto, sui parafanghi, sui predellini, sul cofano, salirono partigiani armati fino ai denti, col “Falco” in testa armato di una grossa mitragliera. Eravamo forse una trentina. Alcuni altri furono liberati. Altri ancora rimasero e non so che fine abbiano fatto. Scaricati alle porte di Treviso, legati le mani dietro la schiena con fili di ferro, catene, corde, spaghi e uniti tutti da una lunga corda, scalzi, insanguinati, laceri, dovemmo attraversare la città in mezzo alla canea che ci insultava, ci sputava addosso e ci colpiva. A me e a Santarelli (un milite di Lucca grande e grosso, ma ridotto in condizioni pietose) un vecchietto continuò per una cinquantina di metri a sbatterci sulle gambe la bicicletta, definendoci traditori. In piazza Duomo, prima, e poi nel cortiletto esterno delle carceri facemmo lunghe soste per concederci alle foto ricordo dei militari americani, con i partigiani in posa e la faccia feroce. Finalmente (pensa un po'... finalmente) fummo fatti entrare nel carcere e tenuti per tutta la notte — eravamo in una trentina — in una stanzetta, in piedi, pigiati in modo che coloro che svenivano (e ce n'erano tanti ridotti al lumicino) dovevano stare ritti, sostenuti dagli altri...».
Più avanti, il Coraluppi cita alcuni episodi che, in quei giorni di barbarie, gli consentirono di nutrire un barlume di speranza nei riguardi della dignità umana: «Il brigadiere Moretti, di Lucca, anziano, sicuramente ultracinquantenne, durante l'interrogatorio affermò con fierezza di essere fascista e squadrista e di esserne orgoglioso. Fu pestato a sangue. Moretti (era infermiere senz'altro valido e umano), per mesi, nell'infermeria della caserma Salsa, aveva curato meglio che se fosse un figlio un giovane partigiano catturato ferito e condannato a morte. Gli evitò la morte... Il milite Sbrana, pure di Lucca, alla notizia trionfalmente portataci dai partigiani che Mussolini era stato assassinato e appeso a piazzale Loreto (ci mostrarono il giornale), si scagliò violentemente su di loro investendoli di insulti e di botte e affermando che a Mussolini stesso avrebbero dovuto fare un monumento in ogni piazza d'Italia. Gli fu letteralmente spaccata la testa, fasciata poi in qualche modo con la solita carta. Un partigiano, credo guardiano della cartiera, una notte impedì a una torma di esagitati ubriachi l'ingresso al nostro stanzone, dove volevano fare la loro parte di giustizia sommaria. Rischiò la vita. Anche il parroco di S. Maria del Rovere, don Gino Longo, penetrò in cartiera e, incurante degli insulti e delle minacce, ci portò, oltre alla benedizione, il suo conforto e l'assicurazione del suo interessamento. Gliene sono sempre stato grato. Anche lui rischiò la vita. Posso dire che la grande maggioranza dei prigionieri si comportò dignitosamente... C'è da dire che entrò anche tanta gente che con i fascisti non aveva nulla a che fare: anche qualche reduce dai campi di concentramento in Austria e Germania, pescato senza documenti. Catturati con me furono i militi Paolo Matteo Fumei, di Treviso, e Primo Giovannetti, di Lucca. Uscirono vivi e liberi. C'erano pure numerosi militi della GNR di Lucca, oltre ai citati, dei quali non ricordo il nome: erano bravi soldati, fieri e coraggiosi».
Carlo Coraluppi, fra Mignagola, carceri di Treviso, detenzione presso la caserma De Dominicis e vari campi di concentramento controllati dagli inglesi, rimase prigioniero un anno esatto.
L'affermazione di Coraluppi, secondo il quale era sufficiente esser trovati dai partigiani sprovvisti di documenti di riconoscimento per venir portati in cartiera ed eliminati, trova riscontro in varie testimonianze, tra le quali quella di R. M. Costui, venuto a conoscenza in quei giorni che un suo cognato di Mignagola era stato fermato e tradotto alla “Burgo” per non aver potuto provare la sua identità, si recò subito in cartiera dove gli dissero che il suo parente era già stato avviato alla volta di Casier con un camion carico di prigionieri. Si diresse allora a Casier col “Falco” — che ben conosceva per essere stato costretto più volte in passato a ospitarlo a casa sua — riuscendo a sottrarre il cognato da sicura morte.
A proposito di Casier, va ricordato che questo paese sulle rive del Sile fu teatro durante la guerra civile di un numero imprecisato di eccidi. Qui i fascisti venivano fucilati e gettati nelle acque del fiume; la corrente provvedeva poi a portarli lontano, facendo perdere ogni traccia. Umberto Crosato ricorderà che un certo Antonio Pol era specialista nel mettere un fez in testa ai fascisti legati, fissandovelo poi a martellate con dei chiodi che perforavano la testa dei condannati e facendo quindi rotolare i corpi nel Sile. Ma il Sile fu teatro anche di altri nefandi episodi. Molti prigionieri, mentre ancora si agitavano negli spasimi dell'agonia, furono crocefissi a delle tavole di legno e gettati nel fiume. È opinione comune che la stragrande maggioranza degli assassinati, dei quali più si rinvennero i corpi, siano spariti per sempre inghiottiti dalle acque di questo fiume.
Particolarmente significativa è la testimonianza resa da Ruggero Benussi, altro scampato ai massacri della cartiera. Benussi, figlio del presidente della Provincia di Treviso, dopo varie peripezie che lo videro, dopo l'8 settembre, prima volontario della GNR in quella città, poi allievo ufficiale a Padova, quindi ufficiale paracadutista in Montenegro e in Slovenia (era nato a Fiume), decorato di varie onorificenze germaniche e della RSI, nell'aprile del 1945, colpito da forte attacco di itterizia, si trovava ricoverato nell'ospedale di Treviso (sezione staccata di S. Artemio) diretto dal professor Tronconi, che diventerà poi sindaco di Treviso. La mattina del 29 aprile venne avvertito dal professor Tronconi che suo padre era stato arrestato dai membri del CLN; il medico lo consigliò di vestirsi e di nascondersi nella sua abitazione, sita nel giardino del nosocomio, dove già era ospitata la famiglia di Benussi. Anche perché, gli disse, certamente i partigiani sarebbero andati a cercarlo in ospedale dove, specie fra gli infermieri, c'erano parecchi elementi di sinistra. Così egli fece, ma alle ore 13,30 irruppe nella sua stanza un gruppo di persone, tra cui uno alto con barba quadra, in divisa caki, con stivaloni e dei gradi rossi (Pietro Lovadina, “Barba” - n.d.a.), e altri, vestiti mezzo in borghese e mezzo in divisa tedesca. Quello che tutti gli altri chiamavano “Falco” prese subito a interrogarlo sulla sua attività di soldato e sul suo passato; un altro lo picchiò col nastro della mitraglia. A un certo momento se ne andarono: «Non sappiamo cosa farcene — dissero — di un cinese mezzo morto». “Falco” aggiunse anche: «Ti lascio stare perché probabilmente avranno già ammazzato tuo padre e ne basta uno in famiglia».
L'inferno dei vivi
Nel pomeriggio però, verso le 16, quello che l'aveva picchiato la mattina, preso forse da rimorso, ritornò assieme ad altri energumeni e lo invitò a seguirli.
«Mi fece indossare — ricorda Benussi — sopra il pigiama i calzoni e una giacca e, mentre mi stavo mettendo le calze, mi disse che bastavano le scarpe, perché di calze non avevo più bisogno. Colpendomi con pugni e manrovesci mi portarono in strada dove c'era un piccolo camion che aspettava e dove c'erano altre persone e tanti partigiani. Mi fecero salire colpendomi col calcio dei mitra sulle reni e mi ammucchiarono con gli altri. C'era un vecchio con una divisa nera che si teneva gemendo una mano sull'occhio destro, mentre col fazzoletto insanguinato cercava di fermare l'emorragia. Mi venne l'istinto di aiutarlo, ma un altro mi disse: “Lascia perdere, gli hanno fatto schizzare l'occhio con un pugnale”. La testa mi si annebbiò e persi conoscenza. Mi sveglio, non so esattamente quanto tempo dopo, e mi trovo tra le mura di cinta di uno stabilimento. In un piccolo piazzale ci fanno scendere. Alcuni di noi sono feriti e si lamentano. Su un lato c'è una grande porta aperta e ci fanno entrare in una stanza dove ci chiudono senza luce. Da una piccola finestra entra un po' d'aria e io mi avvicino a questa apertura per guardare fuori, ma un prigioniero mi ferma e mi dice di non espormi. Ci guardiamo ammutoliti, saremo una decina, forse di più. Tra questi c'è uno che zoppica e gli chiedo se è stato ferito; mi dice di aver avuto da ragazzo la poliomielite e di esser rimasto così. Mi dice di chiamarsi Rino (è il Carniato già incontrato - n.d.a.) e di aver fatto il fattorino presso la Federazione. Mentre cerchiamo di familiarizzare per farci coraggio, entrano tre persone col mitra e un pacco di giornali che buttano a terra. Uno di loro viene chiamato “Ferro” (Alfonso Benedetti - n.d.a.) dagli altri due. Questi prende un giovane in borghese e gli fa levare i calzoni, mi sembra di colore marrone, e una maglia grigia e lo lascia così seminudo, mentre un altro suo compagno comincia a percuoterlo col calcio del mitra. Un prigioniero di circa trent'anni, alto e magro, si lancia in difesa del giovane, ma viene freddato da una raffica di mitra. Cade vicino a me e il sangue cola dalla faccia orrendamente sfracellata. Tutti urliamo. “Ferro” leva le scarpe al caduto e fa per andarsene, ma prima di uscire raccoglie gli indumenti presi al giovane e spara una raffica a casaccio che colpisce due di noi in modo non grave. Dopo poco viene dentro un altro e ci dice di portar fuori i morti. Nessuno si muove. I due feriti si lamentano: uno è stato colpito a un braccio e l'altro al ventre. Il partigiano esce e chiama altri compagni. Si sentono continuamente spari. Entrano altri partigiani e fanno prendere da alcuni di noi il cadavere di quello colpito in faccia e il ferito al ventre che si lamenta e non è più in grado di muoversi. Viene fatto prelevare per i piedi e trascinare fuori. Io sono in un angolo insieme a quello spogliato, e ci stringiamo vicini. Sentiamo una raffica e poi i partigiani se ne vanno. Restiamo soli e uno si leva la camicia per fasciare il braccio del ferito che perde sangue. Si sentono sempre raffiche e colpi singoli. A un tratto sentiamo delle urla. Vengono i partigiani e ci fanno uscire per unirci ad altri prigionieri che ci aspettano fuori. Uscendo, noto per terra i corpi del primo caduto e vicino quello del ferito al ventre, al quale hanno sparato una raffica in faccia. Un partigiano chiamato “Barba” dagli altri (Enrico Chiarin - n.d.a.) mi dice di rientrare a prendere il pacco di giornali. Eseguo e torno fuori. Ci uniscono al gruppo di prigionieri di prima, che presentano tutti segni di bastonature alla faccia. Si muovono a stento e si lamentano. Io accuso sempre di più nausea allo stomaco e cammino con difficoltà perché ho le scarpe un po' grandi e sono senza calze. Un partigiano mi vede e dice a un compagno che “Mandrake” mi sta cercando. Un prigioniero mi dice che stiamo all'interno della cartiera Burgo di Mignagola: un nome che resterà per sempre impresso nella mia mente. Mentre passiamo vicino a un  grande mucchio di carbone, un partigiano chiama Rino, il poliomielitico, e, schernendolo, gli dice: “Tu che sei bravo a camminare, sali su quel mucchio di carbone. Se arrivi in cima sei salvo!”. Il poveretto comincia a salire, ma scivola sempre, finché una raffica di mitra lo abbatte. Siamo terrorizzati. Ci buttano all'interno di una piccola stanza dove c'è della paglia in terra: è umida. Ci fanno sedere sopra. Sento che i calzoni mi si appiccano al terreno. Tocco con la mano, perché mi sembra lubrificante. Una lieve luce accesa in alto illumina l'ambiente. Sollevo la mano imbrattata di una poltiglia maleodorante. “È sangue!”, grida un altro e siamo sempre più terrorizzati. Io ho una sete da impazzire. Poi entra un gruppo di partigiani che ci dicono che è arrivata l'ora di cena e ci ordinano di mangiare i giornali che ci hanno fatto portare dentro. Ci guardiamo stupiti. Uno di noi si mette perfino a ridere. I feriti alla faccia si lamentano, ma non si muovono o quasi. Allora i partigiani cominciano a colpirci col calcio del mitra. Io vengo colpito alla mascella destra e sento che una parte di dente mi si è rotta. Sputo il pezzo d'osso insieme a sangue, e in quel momento mi buttano in mano un giornale e mi obbligano a mangiarlo. Vedo che si tratta della rivista tedesca “Signal”. Faccio piccoli pezzi e li mastico a lungo fino a che li sento poltiglia. È difficile ingoiarli, ma continuo insieme agli altri, mentre i partigiani, che stanno bevendo dei fiaschi di vino, si stanno ubriacando. A un tratto un partigiano mi trasferisce in una saletta dove vedo attrezzature per i pompieri e lì mi interrogano. Faccio fatica a parlare perché ho sete. Chiedo da bere. Hanno parecchi fiaschi di vino dai quali bevono a garganella. Prendono una gavetta sporca e versano del vino. Stupisco, vedendo che non mi danno da bere dal fiasco come fanno loro. Penso che faccio loro schifo per come sono così giallo. Ma non è questo il motivo. Nella gavetta dove c'è il vino a me destinato, a turno, sputano e poi l'ultimo, tra le risate generali, ci orina dentro. Mi rifiuto di bere, ma mi danno un forte pugno e sono costretto a farlo. Mi fa schifo, ma provo anche un certo sollievo, perché ho tanta sete. Cominciano l'interrogatorio tra insulti e ceffoni. Rispondo poco e frammentariamente perché la nausea sale più forte e comincio a rimettere. Mi sbattono con la faccia su quanto ho rimesso e uno dice: “Facciamolo fuori!”. Allora decidono di portarmi nella stanza dov'ero stato prima con gli altri prigionieri. Mi chiudono dentro al buio e non vedo nulla, perché ormai è notte. Cerco di trovarmi un posto dove sdraiarmi, ma mi accorgo di non essere solo, allungo le mani mentre un fetore mi colpisce e sento nuovamente il desiderio di vomitare. Sotto le mani trovo degli indumenti bagnati e attaccaticci e... sotto dei corpi inerti. Mi pare di sognare, non capisco niente e mi sembra d'impazzire... Sono stato tutta la notte a pregare, a pensare, vomitare e cercare di rendermi conto di quanti corpi erano chiusi con me in quella stanza... La mattina dopo mi svegliai quando c'era già il chiaro del giorno. Sentii spari e poi, finalmente, la porta si aprì. Un partigiano venne dentro e si stupì nel vedermi vivo tra tutti quei morti. Erano tutti i prigionieri rinchiusi con me la sera precedente, prima che mi trasferissero nel locale dei pompieri. Mi chiese come mai ero lì vivo e poi mi disse di andare fuori con lui. Lì c'era un camion con un gruppo di prigionieri tedeschi in divisa. Li fece scendere, mi mise fra di loro e ci fece caricare i cadaveri sul camion. Ne contai circa 25-28. Poi il camion partì. Avevo notato che quasi tutti i cadaveri avevano la faccia sfracellata. Penso che li avessero sfigurati così per impedirne in seguito l'identificazione. Poi, insieme ai tedeschi, venni condotto in altra stanza più pulita e restai con loro tutta la giornata senza particolari fatti da ricordare. Verso mezzogiorno ci portarono del pane e un bidone di acqua sporca e mangiai con loro. Si sentivano continuamente movimenti di automezzi, sparatorie, urla e canti di avvinazzati. Verso sera sentii parlare in inglese ed ebbi un tuffo al cuore. Forse erano arrivati gli “alleati” a prelevarci e il tormento era finito. Questo pensiero mi colpì così forte che mi misi a piangere. Ci fecero uscire e vidi un camion americano con la stella bianca e dei militari americani che parlavano con i partigiani. Fecero caricare tutti i prigionieri tedeschi sul camion e mi lasciarono giù perché ero “fascista” e non c'entravo con loro. E se ne andarono senza di me. Mi rinchiusero nuovamente in una stanza e mi lasciarono solo fino al giorno dopo. Di tanto in tanto sentivo spari e urla. La mattina dopo nella mia stanza vennero introdotti altri prigionieri tutti in abiti borghesi, tranne uno, in divisa di sottotenente della GNR di nome Gino. Aveva i baffetti neri e parlava in dialetto lombardo (Lorenzi - n.d.a.). Tra questi prigionieri c'erano tre triestini dei quali non ricordo il nome, che parlavano in dialetto fra di loro. Mi presentai come fiumano e familiarizzammo. Tra di noi c'era un ragazzo che si lamentava continuamente per dolori al ventre. Gli chiedemmo perché si lagnasse e ci disse piangendo che gli avevano fatto mangiare un distintivo fascista (si trattava certamente dell’agente di PS Nicola Monaco - n.d.a.). Lo consolammo e io gli dissi che da piccolo avevo ingoiato una moneta e che poi l'avevo defecata dopo una purga. Si rideva fra di noi per farci coraggio. Ricordo un signore di circa cinquant'anni che si esprimeva in perfetta lingua, sicuramente un laureato; non volle dirci chi fosse. Cominciò a parlarci con molta calma e ci incuteva coraggio, dicendoci che sarebbe arrivata sicuramente l'autorità ufficiale a por fine al massacro. Ci era molto simpatico. A un certo punto venne dentro un partigiano tutto mascherato di fazzoletti rossi, bandoliere e armi di tutti i tipi. Rivoltosi al signore di prima gli chiese: “Di che banda sei?”, e quello: “Della banda d'Affori”. Tutti scoppiammo in una risata. Il partigiano s'infuriò e gli sputò addosso. Non dimenticherò mai lo sguardo di questo nostro amico. Fulminò il partigiano che, bestemmiando, se ne andò. Noi ci congratulammo con questo signore che stava diventando un po' il nostro capo. Ma poco dopo il partigiano entrò con un altro chiamato “Barba” (Enrico Chiarin - n.d.a.) e lo fecero uscire. Prima di uscire ci salutò, diede l'impermeabile che portava sulle spalle al giovane che aveva dovuto ingoiare il distintivo, dicendogli che ormai a lui non sarebbe servito più. Ci salutò dando la mano a tutti, mentre i partigiani gli intimavano di far presto, e nell'uscire ci disse: “Coraggio, lo facciamo per l'Italia!”. Quando poco più tardi uscimmo, trovammo il suo corpo spogliato degli indumenti e intriso di sangue. Il giovane lo coprì col suo impermeabile e noi ci avviammo coi partigiani in altra parte dello stabilimento. Non riuscii mai a sapere chi fosse... Ci portarono davanti a una vasca e ci fecero attendere. Vennero in circa una quindicina e cominciarono a picchiarci con i bastoni. Tra i nuovi arrivati notai due che stavano in disparte a parlare tra di loro. Io gridavo e dicevo che dovevano lasciarmi perché dovevo andare da “Mandrake” (un partigiano che aveva sentito nominare, ma del quale ignorava ogni cosa - n.d.a.). E finalmente cessarono di colpirmi e mi chiesero perché dovevo andare da “Mandrake”. E io inventai dicendo che lui mi voleva perché ero suo amico e che per questo non ero stato ancora ammazzato. Mi misero tra i due che avevo visto appartati e, dopo aver colpito a morte i prigionieri, li finirono a colpi di mitra. Io restai allibito e svenni. Quando rinvenni mi trovai a terra vicino a quei due partigiani che erano stati testimoni del massacro senza intervenire in alcun modo e mi accorsi che stavano parlando fra loro in lingua slava. Conoscendo il croato, mi misi a parlare con loro: erano due prigionieri russi fuggiti e passati ai partigiani. Uno disse di essere commissario politico della Brigata Wladimiro (il capitano Walter Sadicov - n.d.a.) che aveva operato sul Cansiglio. Parlammo insieme..., mi portarono in una stanza..., mi fecero brindare al 1° maggio..., mi diedero uova sode, del pane e del vino..., poi vennero a prendermi i partigiani italiani e sempre dicevo che mi voleva “Mandrake”. Alla sera mi unirono ad altri prigionieri e ricominciarono le legnate. Verso le 10 o anche più tardi cominciarono a farci uscire uno alla volta e poi si udivano urla e spari e io sempre aspettavo che giungesse il mio turno. A un tratto venne un partigiano e mi chiamò: “Cinese, vieni fuori!”. Andai fuori con lui, ma ero assente, non capivo quasi nulla, camminavo come un automa. Arrivai davanti a un gruppo di partigiani, tra cui riconobbi quello che era venuto a prelevarmi a casa. Era lui, “Mandrake” (Alfonso Moratto - n.d.a.)! Mi fece levare le scarpe e rimasi a piedi nudi. Mi fece levare i calzoni e la giacca e rimasi col pigiama che avevo sotto il vestito, quando erano venuti a prelevarmi a casa dal letto dove mi trovavo ammalato. Si misero a deridermi e mi dissero di correre nel cortile illuminato. Non sentivo neanche il dolore ai piedi. Sentivo colpi singoli che mi rincorrevano e io correvo mentre “Mandrake” sghignazzava. A un tratto, mentre stavo per cadere, sentii raffiche fortissime e urla concitate e caddi a terra inciampando. Quando mi rialzai, vidi i partigiani con le mani alzate, mentre un gruppo di soldati inglesi li stava disarmando. Gli inglesi mi presero con loro insieme agli ultimi prigionieri rimasti vivi e ci trasferirono in una loro caserma...».
Verso la metà di maggio del 1945, al tribunale di Treviso giungono le prime denunce dei familiari delle vittime. Sempre di quei giorni è anche un rapporto dei carabinieri di quella città alla Procura che segnala il massacro alla cartiera. In particolare vengono indicati dalla Benemerita i luoghi dove alcuni uccisi risultano esser stati sepolti: «Nei pressi della cartiera di Carbonera, nel campo di certo Moro Romeo, risultano sepolti, in una fossa comune, cinque cadaveri. - Nell’appezzamento di terra sito dietro la chiesa di Mignagola sono sepolti tre cadaveri. - Nel cimitero di Pezzan di Carbonera un cadavere. - Nelle immediate adiacenze dell’abitato di Mignagola risulterebbe sepolto un numero rilevante di cadaveri che il parroco del luogo vorrebbe far ascendere a un centinaio. - Tra i comuni di Breda e Maserata risulterebbero sepolti in un campo di granoturco circa trenta cadaveri».
Qualche giorno dopo, esattamente la mattina del 6 giugno, il giudice istruttore Giovanni Berlanda, assistito da un cancelliere e alla presenza del dottor Antonio Gardelin, procede all'esumazione e all'esame esterno dei cadaveri sepolti nelle adiacenze della cartiera e in prossimità del raccordo ferroviario. Presente è anche Vittorio Battistella, della cui attività di becchino della banda partigiana si è già detto.
Vengono scavate tre fosse: la prima contenente un solo cadavere, la seconda nove, la terza undici. Il riconoscimento avviene solo per le salme di Pietro Mion, Luigi Mion, Candido De Biasi, Massimo Fontebasso e Rino Carniato; gli altri sono irriconoscibili. Gli assassini hanno infatti provveduto, oltre ad asportare vestiti e documenti, a cospargere sul volto delle vittime calce viva e acido muriatico, al fine di rendere impossibile ogni identificazione. La ricerca viene quindi sospesa per riprendere nuovamente il 7 giugno.
In quella data vengono scoperte altre due fosse — la prima con undici cadaveri, l'altra con quindici — ma nessuno viene riconosciuto. Quindi, nuova sospensione e ripresa degli scavi il giorno successivo, 8 giugno.
Nella sesta fossa vengono rinvenute venti salme, di cui due di donna, con caratteristiche simili alle precedenti agli effetti della riconoscibilità.
Dopo un'ennesima sospensione, si riprende a scavare il giorno 15 giugno, alle ore 10, alla presenza del giudice istruttore Mario Alberghetti. Dalla settima fossa vengono riesumati undici cadaveri, nessuno dei quali viene riconosciuto. I ricercatori si recano allora nel campo di proprietà di Romeo Moro dove da una fossa (l'ottava) emergono altri cinque cadaveri.
In totale, dunque, ottantatré salme. Non si ha a tutt'oggi notizia di ricerche e scavi effettuati dietro la chiesa e nei campi fra Breda e Maserada, luoghi nei quali il citato rapporto dei carabinieri segnalava la presenza di altre salme.
Intanto, a pagina 435 del registro dei morti della parrocchia di Carbonera, il parroco don Ernesto Dal Corso annota: «Ad perpetuam rei memoriam».
Cartiera insanguinata
«Nella ricorrenza della liberazione dell’Italia dal Fascismo e dai Tedeschi, cioè dal 27 aprile al 30 aprile 1945, in località Cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera, fu costituito un tribunale di partigiani (non so con quanta legalità) presieduto da alcuni partigiani in parte di questa parrocchia (Carbonera), quali Roberto Polo, Giovanni Brambullo, Antonio Sponchiado... e altri in parte estranei, i quali giudicarono molti fascisti o indiziati fascisti, molti dei quali furono uccisi a colpi di mitraglia o dentro le stanze degli uffici della cartiera, oppure allineati lungo le mura. Quante siano state le vittime, nessuno lo può accertare, perché nessuno poté essere presente, e neppure l’assistenza del sacerdote, richiesta da parecchi sacerdoti e dal parroco, fu permessa (i componenti il tribunale fantasma erano tutti comunisti). Le salme, dopo essere state depredate del denaro e in parte degli indumenti... e di tutti i documenti, furono sepolte lungo il tronco di ferrovia che va alla cartiera, sotto un po' di terra e l’una sopra l’altra. Alcuni giorni dopo furono risepolte in fosse lunghe e senza cassa, ma allineate. Per interessamento di sua eccellenza il vescovo Mantiero, il Comando militare di Piazza ordinò la riesumazione, e incaricati di ciò furono il medico provinciale dell’ospedale militare, il tribunale e il parroco locale. Furono scavate in otto giorni ben ottantatré salme e, poste in casse di legno, furono trasportate nel cimitero di Carbonera, nella parte che va dal campanile alla strada, in tre fosse lunghe. Dalle salme furono prelevati dei lembi di vesti, o altri indizi per l’identificazione eventuale delle salme, cose che furono trasportate in busta segnata con un numero, pari al numero della cassa, che si trova qui, in ospedale militare. Le salme identificate furono pochissime, perché i documenti furono bruciati dai componenti il tribunale. Furono identificati i quattro di Candelù, uno da Pezzan, Carniato... Fra le salme ce ne sono due di donna. - Sac. Ernesto Dal Corso».
Nel documento, consegnatoci con qualche mutilazione dall'attuale parroco di Carbonera, sono contenute alcune inesattezze che lo stesso Dal Corso provvederà a rettificare — come vedremo — nella successiva deposizione davanti ai giudici trevigiani.
Riguardo poi all'accenno all'interessamento del vescovo di Treviso per la riesumazione dei cadaveri, vi è da osservare che non si ha traccia di interventi del prelato per far cessare i massacri dei quali non poteva non essere a conoscenza. Ben diverso zelo monsignor Mantiero, come s'è visto, profuse nella liberazione di alcuni sacerdoti arrestati per collaborazionismo con i partigiani, oppure per la liberazione di venticinque ostaggi catturati dai tedeschi a Carbonera dopo l'impiccagione da parte dei partigiani dei due soldatini germanici che andavano a uova o, ancora, per la liberazione dei “Falchi delle Grave” catturati dalla X MAS il 18 novembre 1944 a Maserada e portati a Conegliano.
Il numero delle salme identificate, che al momento delle prime esumazioni erano solo cinque, accrebbero via via nel corso degli anni. Siamo qui in grado di fornire i nomi di parecchi trucidati, elenco evinto dalla documentazione esistente presso il tribunale di Treviso, l'ufficio anagrafe del comune di Carbonera e l'archivio privato del compianto consulente storico Pieramedeo Baldrati di Como. A questo primo elenco ne segue un altro, con i nomi di uccisi accertati la cui salma non fu identificata:
1.
Annichiarico Fedele, anni 55, da Grottaglie (Taranto), archivista, cap. 620° Com. Prov. GNR, ucciso ...?...
2.
Brunelli Guido, anni 40, Forlì. operaio, Btg. “Romagna”, ucciso 30 aprile 1945
3.
Carniato Rino, anni 29, Carbonera, fattorino, ucciso 29 aprile 1945 
4.
Celussi Mario, anni 27, Monastier (Treviso), pescatore, ucciso 2 maggio 1945
5.
Collotti Gaetano, anni 28, Castelbuono (Palermo), vicecommissario di PS, ucciso 28 aprile 1945 
6.
De Biasi Candido, anni 34, Maserada (Treviso), agricoltore, ucciso 28 aprile 1945
7.
Esci Giovanni, anni 46, Dolo (Venezia), operaio, ucciso 27 aprile 1945
8.
Faedi Antonio, anni 23, Cesena (Forlì), falegname, milite GNR, ucciso fine aprile 1945
9.
Fontebasso Massimo, anni 50, Maserada, guardiano idraulico, ucciso 28 aprile 1945
10.
Galli Illio, anni 20, Treviglio (Bergamo), studente, sottotenente “Romagna”, ucciso 4 maggio 1945
11.
Lorenzi Luigi (Gino), anni 20, Bergamo, studente, sottotenente “Romagna”, ucciso 4 maggio 1945
12.
Manfredi Duilio, anni 22, Pescaglia (Lucca), operaio, ucciso 26 aprile 1945
13.
Mariotti Augusto, anni 46, Mercato Saraceno (Forlì), ucciso fine aprile 1945
14.
Mariotti Candido, anni 20, nato in Francia, figlio del precedente, ucciso fine aprile 1945
15.
Menegaldo Angelo, anni 30, Monastier (Treviso), impiegato, ucciso 2 maggio 1945
16.
Mion Luigi, anni 37, Maserada, sottufficiale Marina, ucciso 29 aprile 1945
17.
Mion Pietro, anni 46, Maserada, agricoltore, ucciso 28 aprile 1945
18.
Montanari Lorenzo, anni 41, Cesena (Forlì), impiegato, ucciso fine aprile 1945
19.
Pessot Angelo, anni 44, Mansuè (Treviso), milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
20.
Reffo Vasco, anni 19, Selvazzano Dentro (Padova), meccanico, milite 620° Com. Prov. GNR, ucciso 30 aprile 1945
21.
Scarano Rocco, anni 23, Lacedonia (Avellino), insegnante, tenente GNR, ucciso 3 maggio 1945 (?)
22.
Schileo Carlo, anni 23, Villorba (Treviso), meccanico, ucciso 30 aprile 1945
23.
Seliskar Rado, anni 32, Lubiana (Jugoslavia), ufficiale di PS, ucciso 28 aprile 1945
24.
Spellanzon Armida, anni 41, Vazzola (Treviso), impiegata, ausiliaria GNR, uccisa 28 aprile 1945
25.
Spinelli Enzo, anni 20, Reggio Calabria, studente, sottotenente 620° Com. Prov. GNR, ucciso 3 maggio 1945
26.
Testa Mario, anni 20, Bergamo, studente, sottotenente “Romagna”, ucciso 4 maggio 1945
27.
Villani Vito, anni ..., Portogruaro (Venezia), ucciso ...?...
Caduti non identificati
1.
Bellio Giacomo Arturo, anni 22, Carbonera, ceramista, milite GNR, ucciso 4 maggio 1945
2.
Calantore Fiorenzo, anni ..., provincia di Napoli, milite GNR, ucciso ...?...
3.
Campi Aldo, anni 19, Terni, milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
4.
D'Alessandro (o Alessandro) Nicola, anni 24, ...,  ucciso ...?...
5.
Faccini Teseo, anni ..., ..., milite GNR, ucciso ...?...
6.
Facco Mario, anni 26, S. Giustina in Colle (Padova), marò X MAS, ucciso ...?...
7.
Fattorello Fioravante, anni 24, Chiarano (Treviso), bracciante agricolo, milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
8.
Ferri Ciro, anni 30, ..., ucciso ...?...
9.
Ferro Vincenzo, anni 33, Pietraperzia (Enna), agente PS, ucciso ...?...
10.
Fontebasso Tullio, anni 18, Maserada, studente, milite GNR, ucciso 4 maggio 1945
11.
Francesconi Pietro, anni 30, Montenovo di Montiano (Forlì), insegnante, ucciso 30 aprile 1945
12.
Franzin Mario, anni 22, Cessalto (Treviso), bracciante agricolo, milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
13.
Frassani Dino, anni 29, Genova, impiegato, ucciso 30 aprile 1945
14.
Frasson Narciso, anni 19, Preganziol (Treviso), milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
15.
Giuffrida Salvatore, anni 26, ..., ucciso ...?...
16.
Linari Umberto, anni 38, Borgo Tossignano (Bologna), falegname, ucciso fine aprile 1945
17.
Martorelli Pierina (la donna incinta uccisa con i triestini - episodio citato), ..., ...,  uccisa 28 aprile 1945
18.
Mignacca Alessandro, anni ..., ..., agente di PS, ucciso ...?...
19.
Minguzzi Alberto, anni ..., ...,  aviere scelto, ucciso ...?...
20.
Monaco Nicola, anni 25, Caserta, agente di PS, ucciso 1° maggio 1945
21.
Morani Benito, anni 22, Magenta (Milano), studente, sottufficiale X MAS, ucciso 8 maggio 1945
22.
Mufato Ferdinando, anni 20, Carbonera, operaio, milite GNR, ucciso 4 maggio 1945
23.
Paccon Bruno, anni ..., ..., agente di PS, ucciso ...?...
24.
Paccosi Bruno, anni 27 (come anzidetto, potrebbe essere il Paccon)
25.
Padovan Mauro, anni ..., ..., ucciso ...?...
26.
Pianca Emilio, anni 41, Godega S. Urbano (Treviso), guardia municipale, ucciso ai primi di maggio 1945
27.
Poggi Mario, anni ..., ..., milite GNR, ucciso ...?..
28.
Polesel Antonio, anni 35, Codognè (Treviso), calzolaio, ucciso 3 maggio 1945
29.
Saccani Franco, anni 15, Aosta, studente, marò X MAS, ucciso il 29 o il 30 aprile 1945
30.
Sartori Giovanni Battista, anni 19, Spresiano (Treviso), studente, marò X MAS, ucciso 8 maggio 1945
31.
Tiveron Enrico, anni 34, Preganziol (Treviso), agricoltore, milite Brigate Nere, ucciso fine aprile 1945 
32.
Vergani Luigi, anni 23, Milano, milite RSI, ucciso fine aprile 1945
33.
Vocialta Guido, anni 24, Salgareda (Treviso), sottotenente X MAS, ucciso il 2 o il 3 maggio 1945
34.
Zamboni Luigi, anni 34, Laives (Bolzano), manovale, milite GNR, ucciso 5 maggio 1945 

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