Tra fine aprile e i primi di maggio del 1945 la “Cartiera
Burgo” di Mignagola di Carbonera venne adibita dai partigiani comunisti a campo
di concentramento e luogo di tortura di “fascisti o presunti tali” rastrellati
nella zona o arresisi a guerra finita - Nei massacri di quei giorni solo un
centinaio di vittime vennero identificate in quanto i corpi di molti uccisi
vennero gettati nel fiume Sile sparendo per sempre - Il boia della cartiera era
il sanguinario “Falco” (Gino Simionato da Sambughè) che in una sola azione
massacrò a colpi di vanghetto trentaquattro prigionieri finendoli poi a colpi di
mitra - Le agghiaccianti testimonianze dei superstiti sulle torture ai
prigionieri e la crocefissione del sottotenente della GNR Gino Lorenzi - I
rapporti dei carabinieri: «Si uccideva senza nemmeno prender nota del nome delle
vittime» - Gli intrecci tra resistenza e delinquenza comune nell'impressionante
serie di crimini che sconvolse il circondario - Le responsabilità dei partigiani
della “Wladimiro” nei massacri - La storia dell'oro della Banca d'Italia
sequestrato a Olmi di S. Biagio a sette triestini trucidati in cartiera e
spartito tra partigiani cattolici e comunisti - Al termine dell'istruttoria
sugli eccidi i colpevoli, noti e ignoti, vennero amnistiati in quanto
responsabili di crimini «commessi in lotta contro il
fascismo»
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Questo è
il racconto dei crimini e delle infamie perpetrate dalla banda del “Falco”, una
delle più feroci formazioni comuniste operanti durante la resistenza nella zona
a cavallo dei comuni di Breda di Piave, Carbonera e S. Biagio di Callalta, sulla
destra del fiume Piave, poco distante da Treviso. Il suo nome è legato
soprattutto ai massacri avvenuti all'interno della “Cartiera Burgo” di Mignagola
di Carbonera dove, tra la fine di aprile e la prima decade di maggio del 1945,
furono sterminate non meno di tre-quattrocento persone.
Nella zona, in combutta col “Falco” ma anche in maniera autonoma,
operano diverse bande — gruppuscoli o cani sciolti — accomunati quasi tutti
dalla stessa matrice criminale. C'è il gruppo di Antonio Sponchiado
(“Fortunello”), la squadra di Luigi Pagotto (“Romi”), il gruppetto di Dino
Piaser (“Balilla”), la banda di Dionisio Maschio (“Piton”), quella di Sebastiano
Pastrello (“Russo” o “Biscotto”). C'è poi Luigi Pozzi, il furbo, defilato,
imprendibile “Volpe”, coordinatore occulto e supervisore di molte
imprese.
Gino Simionato, detto “Falco”, nativo di Sambughè di Preganziol,
classe 1920, arriva nella zona presumibilmente nel settembre del '44 con alle
spalle una militanza nella Brigata “Mazzini”, operante nei dintorni di
Valdobbiadene. Uomo rozzo e violento, egli si impone subito per la sua feroce
determinazione, riuscendo a raggruppare intorno a sé una banda di suoi simili
così dipinti in un rapporto dei carabinieri del 1951:
«Simionato Gino, detto “Falco” -
... Godeva cattiva stima ed era poco amante del lavoro con tendenza a procurarsi
i mezzi economici con attività illegale. Di carattere presuntuoso e arrogante, è
sempre stato allontanato dai vicini e non è mai stato in buona considerazione
della popolazione. Antecedentemente al reato ha tenuto mediocre condotta
morale... Era diffamato come incline a commettere furti... Tenore di vita
vizioso...
Bisetto Carlo, detto “Canea”
(“Zebra”) - ... Risulta di cattiva condotta morale e politica e viene
ricordato tra gli elementi sanguinari del periodo partigiano. Il reo si è dato
alla delinquenza per motivi politici e il suo carattere è risultato sanguinario
e crudele... La condotta susseguente al reato stesso risulta pessima... Operaio
presso la Cartiera Burgo, dai conoscenti viene ricordato come persona
pericolosa. Il suo carattere è violento e sanguinario.
Benedetti Alfonso (“Ferro”) - ...
Carattere violentissimo, con tendenza a delinquere... Di carattere
insubordinato... Sebbene giovanissimo e poco istruito, era divenuto, durante il
periodo della liberazione, commissario di una brigata di partigiani e in tale
qualità partecipò e fece parte di un tribunale partigiano. Anche dopo la
liberazione ha tenuto una condotta pessima, tanto è vero che, vistosi
abbandonato da tutti, è stato costretto a emigrare in Francia...
Cadonà Silvio (“Senna” o
“Secco”) - ... Di carattere violento, dedito al vizio e alle bevande
alcooliche. Anche antecedentemente al reato ha sempre mantenuto una condotta
scorretta e da tutti malvisto per il suo carattere violento. Durante la
liberazione faceva parte di una formazione partigiana operante nella zona di
Mignagola di Carbonera ed era da tutti temuto per il suo pessimo carattere...».
A un certo punto, alla cartiera si dovette smettere di uccidere e
ciò, per i partigiani, fu doloroso, angosciante. Nella speranza forse di poter
presto ricominciare, si premurarono di occultare, nella proprietà di “Villa Dal
Vesco”, a Breda di Piave, ben sessantaquattro quintali di armi e munizioni, la
cui presenza fu però denunciata alle autorità militari da una popolazione ormai
esausta delle loro imprese terroristiche.
Di quello
che accade a Mignagola e a Treviso dopo le stragi parleremo più avanti. Vediamo
ora, a completamento e a conforto di quanto esposto, le testimonianze rese dai
superstiti ai magistrati nel primo dopoguerra o, proprio di recente, su nostro
invito.
Egidio Callegari, nella sua deposizione in
tribunale, disse di avere incontrato, verso la fine del mese di aprile, mentre
si trovava a S. Maria del Rovere, la signorina Armida Spellanzon, ex ausiliaria
della GNR, e di averla accompagnata a recuperare delle valigie lasciate in
custodia dalla parrucchiera del paese. Costei li condusse a “Villa Mocellin” e
li consegnò ai partigiani che, dopo averli condotti in una stanza, li
interrogarono. Ricorderà Callegari: «Io subii maltrattamenti, fra i quali un
calcio che mi colpì dietro la schiena. La signorina fu coperta di improperi,
ingiurie e altro. Le fu detto pure che, piuttosto di fare l'ausiliaria, sarebbe
stato meglio fare la troia. Successivamente fummo prelevati e portati al Comando
dei partigiani nella cartiera di Mignagola. Lì fummo separati: lei in una
stanza e io in un'altra. Qui subimmo altro interrogatorio dal comandante “Sauro”
(Marcello Caldato -
n.d.a.). Io ebbi in seguito il permesso di
uscita, la signorina no. Questa fu prelevata e portata in uno stanzone; fu messa
insieme ad altre persone che colà attendevano. Qui furono tutti trucidati;
potevano essere in tutto una quindicina. Intesi i colpi di mitra. Prima della
sparatoria intesi una voce che gridava: “Tutti a morte!”, seguita da un urlo
emesso, immagino, dalle persone rinchiuse nello stanzone. Sentii distinta la
voce della signorina: “No!, no!”. Dopo non sentii altro. Dalla stanza dove ero
stato rinchiuso vidi dalla finestra, caricati su di un carretto trascinato a
mano, sei o sette cadaveri che venivano portati via».
Francesco Grifoni, altro superstite della
cartiera, così deporrà: «Nei giorni immediatamente successivi alla liberazione,
nell'aprile 1945, venni arrestato perché avevo prestato servizio come
maresciallo nella GNR e tradotto nei locali della cartiera Burgo sita in
Mignagola, a cinque chilometri da Treviso. In detta località, ove furono
concentrati circa duemila fascisti o ritenuti tali, furono commesse dai
partigiani atrocità e sevizie di ogni genere. Si calcola che almeno novecento
persone furono uccise senza nemmeno la parvenza di un processo. Io giunsi alla
cartiera il 30 aprile, insieme a un gruppo di una trentina di arrestati e, al
momento dell'introduzione nello stabilimento, il capo dei partigiani addetto a
riceverci ci prendeva a schiaffi, pugni e calci in modo che parecchi di noi
rimasero pesti e sanguinanti. Altri due partigiani fecero togliere a tutti le
scarpe, lasciandoci a piedi nudi e dicendo che le scarpe servivano a loro. A me,
oltre le scarpe, furono tolti il denaro che avevo indosso, l'orologio d'argento,
la penna stilografica e l'accendisigaro di metallo. La stessa sorte subirono i
miei compagni di prigionia. Gli stessi due partigiani, armati di scudiscio, ci
costrinsero a ballare con i piedi nudi sui vetri in modo che alcuni finirono per
avere i piedi sanguinanti. La nostra condizione divenne ancora più dolorosa
quando cominciarono ad affluire dalla montagna i componenti di varie brigate di
partigiani i quali venivano sistematicamente a visitarci per cercare di
riconoscere qualcuno dei responsabili delle persecuzioni da essi subite. E in
tal modo essi sfogavano il loro rancore su di noi innocenti, tempestandoci di
pugni e calci, tanto che dopo qualche giorno eravamo tutti pesti, contusi e
tumefatti. Una sera, nel recarmi alla ritirata per un bisogno, vidi i cadaveri
di tre persone impiccate a una sbarra di ferro. Nessuna contabilità e nessun
inventario venivano fatti dei valori che ci venivano requisiti. Le brigate che
agivano nella zona di Treviso erano la “Garibaldi” e la “Matteotti”, composte da
comunisti e guidate da ufficiali slavi che erano particolarmente sanguinari.
Ricordo che un capitano russo (Walter
Sadicov - n.d.a.), che indossava una giacca
nera e aveva dei denti d'oro e che seppi, là dentro, che in precedenza aveva
ucciso i due agenti di PS a nome Lupo e Mignona in località Carbonera, si
aggirava per i locali della cartiera e uccideva coloro le cui facce non gli
piacevano. Nessun registro era tenuto delle persone che entravano e uscivano.
Nessuno ebbe a chiedermi un documento di identificazione al momento
dell'ingresso al campo. Mi fu chiesto il nome e cognome, ma nessuno si preoccupò
di registrarlo. Durante la notte, nei vari reparti dello stabilimento, che era
molto vasto, si sentivano le grida delle persone che venivano giustiziate
sommariamente e le raffiche dei colpi di arma da fuoco. Un giorno il capitano
russo, senza alcun motivo, girando per i locali cominciò a inveire contro di
noi, chiamandoci vigliacchi, e ci afferrò, alcuni, per i capelli, dandoci dei
vigorosi colpi sulla testa col calcio di una grossa pistola che impugnava. In
seguito a quei colpi, un capitano dell'Esercito repubblicano a nome Mollica, che
era prigioniero con noi, ebbe un forte choc e rimase in condizioni disperate,
tanto che fu portato fuori dal campo e non fu più veduto. Ritengo sia morto. Il
sottotenente della GNR Enzo Spinelli, ventiquattrenne, che aveva la famiglia a
Reggio Calabria, fu ucciso dallo stesso capitano russo con un colpo di
rivoltella alla tempia. Io pure fui colpito dal calcio della pistola del russo,
che mi produsse lesioni alla testa che guarirono in una decina di giorni. Il
comandante del battaglione partigiani che operava intorno a Treviso, e che
faceva parte della Brigata Garibaldi, si chiamava Piovesan, era un ex
carabiniere e abitava a Vascon di Carbonera. Egli comandava il reparto che per
primo si concentrò nella cartiera di Mignagola. Egli dava gli ordini che
venivano eseguiti dai suoi gregari. Gli altri capi, che erano particolarmente
feroci e che operavano insieme al capitano russo, erano Falco e Volpe. Un
giorno, da un gruppo di cinquanta persone fui portato insieme ad altri quattro
per essere fucilato, perché si diceva da parte dei partigiani che un gruppo di
fascisti, resistendo a essi, aveva ucciso due dei loro. Fortunatamente per noi,
proprio al momento dell'esecuzione, giunse un commissario di brigata senza un
braccio, che poi seppi essere un ex capitano d'aviazione, il quale sospese
l'esecuzione stessa in quanto i fascisti responsabili erano stati catturati.
Insieme a noi furono catturate alcune donne del servizio ausiliario. Esse furono
violentate da alcuni partigiani che menavano vanto di tali loro
imprese».
Successivamente il Grifoni, dopo quattro giorni di prigionia, fu
portato in carcere a Treviso, dove rimase detenuto per alcuni mesi. Processato,
venne poi condannato a un anno di carcere per collaborazionismo.
Altro superstite che deporrà davanti al giudice istruttore è
Riccardo Guain, classe 1908, guardia
giurata, che presta servizio fino al 26 aprile lungo il tratto dei binari che
collegano la cartiera Burgo alla linea ferroviaria Treviso-Portogruaro-Trieste,
a protezione dei carri di carbone in sosta che egli non permette a nessuno di
avvicinare. «Il 27 aprile — ricorderà Guain — venni arrestato da alcuni elementi
partigiani della zona di Treviso e precisamente da certi Aldo Fabris, Antonio
Sponchiado e da altri due individui di cui non ricordo il nome. Venni rinchiuso
in un locale della cartiera Burgo assieme a tanti altri arrestati e precisamente
assieme a undici individui di Trieste tra cui una donna incinta. Detti triestini
l'indomani del mio arrivo vennero fucilati in un cortile della stessa cartiera.
Rimasi detenuto per otto giorni e fui oggetto, da parte di Aldo Fabris e degli
altri due di cui non ricordo i nomi, a numerose sevizie e torture. Venni
ripetutamente bastonato a sangue e varie volte mi fu sputato in bocca; mi
facevano mangiare della carta e altre simili cose. Come ho sopra detto, a
torturarmi erano in tre persone tra cui il Fabris e altri due di cui mi riservo
di fare il nome. Posso però dire che gli stessi sono nativi e residenti nel mio
stesso paese, cioè Carbonera. Detti individui mi riferirono poi che erano stati
comandati e pagati dallo Sponchiado per torturarmi a sangue. Dopo otto giorni
fui rimesso in libertà dagli stessi individui che ebbero ad arrestarmi. Durante
il periodo di detenzione, oltre ad aver visto fucilare gli undici triestini di
cui sopra, ho assistito alla fucilazione di tante altre persone che con me si
trovavano detenute. Le esecuzioni venivano fatte in un cortile dello
stabilimento stesso ed eseguite da un gruppo di elementi partigiani tra cui era
Aldo Fabris e gli altri due individui del mio stesso paese e di cui, ripeto, mi
riservo di fare i nomi. Devo aggiungere che tutte le persone che venivano
arrestate, me compreso, venivano depredate di ogni loro avere. A me furono
portate via la penna stilografica, la giacca e una cinta da pantaloni. A un
colonnello del distretto di Treviso venne asportata la somma di lire 260.000
circa e così per tutti coloro che si trovavano con me rinchiusi nel locale della
cartiera predetta».
Quando il Guain, per intervento di un parente operaio in cartiera,
torna a casa, non ha un centimetro di pelle intatta: è tutto una piaga
sanguinante e impiegherà mesi a rimettersi in salute. In seguito si arruolerà
nell'Arma dei carabinieri e in tale veste renderà la sua deposizione. Ma
confiderà ai suoi congiunti che, fra i torturatori, c'erano anche Zaffalon,
Battistella, Sponchiado e la “staffetta” Trevisi.
Le
medesime traversie del Guain subisce Giulio Trevisan, anni 45, macellaio, padre
di sette figli, residente a S. Biagio di C. Prelevato da casa il 27 aprile da
Gino Simionato (“Falco”), Silvio Cadonà (“Senna”) e Bisetto e portato in
cartiera, venne pestato a sangue e torturato: gli viene perfino riempita la
bocca di carta alla quale viene poi dato fuoco, ed è sottoposto a continue finte
fucilazioni per terrorizzarlo e costringere i suoi a pagare per riaverlo vivo.
La figlia maggiore si offre di prendere il suo posto. Invano. C'è chi lo vede,
il 28 o il 29 aprile, in cartiera, sdraiato per terra accanto al Guain,
semisvenuto e gemente, con un fazzoletto legato intorno al viso che gli regge la
mandibola gonfia e slogata. I congiunti non ricordano più quante volte i
partigiani si siano recati a trovarli per chiedere loro denaro e bestie
macellate a riscatto del poveretto che, quando viene liberato, è ormai un rudere
che non si regge in piedi. Non si rimetterà più né fisicamente né psichicamente
perché, ciò che ha visto e subìto in quegli orribili, infernali giorni, lo ha
sconvolto per sempre e incubi spaventosi lo perseguiteranno giorno e notte.
Morirà nel 1950 in una casa di cura, dopo cinque anni di sofferenza.
Chi invece riesce a evitare anche le torture è il maresciallo
dell'esercito Giovanni Zanette di Treviso. Sfollato a
Cavriè di S. Biagio, il 30 aprile sta tornando in città col carro delle sue
masserizie. In piazza a Cavriè viene catturato da alcuni partigiani, fra i quali
spicca per bruttezza Aldo Borsato (“Iena”). Lo Zanette, trasportato in
camionetta nella cartiera, viene quasi subito liberato da Luigi Pozzi (“Volpe”),
del quale sta per diventare suocero. Si saprà poi che il maresciallo faceva il
doppiogioco.
Quelle che seguono adesso sono altre testimonianze di superstiti,
rese solo di recente da coloro che vissero l'inferno di quei giorni alla
“Cartiera Burgo”.
Scrive Benito Guidato, ex sottotenente della GNR
di stanza a Oderzo presso il collegio Brandolini: «... Dal 30 aprile ai primi di
maggio 1945 sono rimasto nascosto presso una famiglia di Oderzo e solo dopo le
notizie allarmanti delle fucilazioni a Ponte della Priula sono andato via
assieme ad altri commilitoni. Il 3 maggio fui catturato a Saletto di Piave e
ricordo come un incubo di essere stato portato prima a Villa Dal Vesco di Breda
e poi nella cartiera di Mignagola dai partigiani del “Falco” e messo
direttamente al muro già tappezzato di carne umana e sangue fresco di precedenti
fucilazioni: solo un contrordine da parte di un partigiano ci salvò da sicura
morte. Insieme ad altri militi fui rinchiuso nella nota stanza e sottoposto a
maltrattamenti, ingiurie e altro, dopo essere stato spogliato di tutto. Ricordo
in modo particolare che, per colpire, veniva usata una canna di bambù con
inserito un tubo di ferro e uno scudiscio impugnato da una
partigiana».
Il Guidato fu poi portato in un collegio a Treviso dal quale, dopo
15 giorni, riuscì a fuggire dirigendosi verso Bergamo.
Ricorda Carlo Coraluppi, altro superstite: «Il
30 aprile, nella tarda mattinata, fui catturato nelle vicinanze della caserma
Salsa, assieme ad altri due militi e a un paio di ausiliarie, da un grosso
gruppo di cosiddetti partigiani i quali ci portarono all'interno della
caserma... Ci raggiunsero in breve tempo altri prigionieri, finché, è
pomeriggio, caricati su di un camion, fummo portati al “campo di concentramento”
di Mignagola/Cartiera... Trovammo grande affollamento di gente, fra i quali
qualche volto conosciuto e fino ad allora insospettabile che cominciò a inveire
contro di noi, finché, messi in fila, fummo ben pestati da un gruppetto di
partigiani che ci sputarono anche addosso (a qualcuno in bocca; a me chiesero di
porgere la mano su cui sputarono). Di corsa ci fecero entrare, sempre in mezzo
alla folla, nei locali della cartiera, e anche durante quel breve tragitto si
sentirono in dovere di colpirci in qualsiasi modo. Rintanati in una stanza e nel
corridoio, fummo chiamati a uno a uno in un altro locale ove subimmo un
interrogatorio a suon di botte. A me, che dissi di essere di Mogliano, una
donna, che faceva parte della mezza dozzina di persone che sedeva dietro un
lungo tavolo e che forse erano la corte di giustizia, chiese se conoscevo il
“Falco” e precisò il nome: Gino Simionato di Sambughè. Poiché risposi
negativamente, mi assicurò, ridendo, che presto l'avrei conosciuto. Portati
quasi tutti in uno stanzone, dove erano stati ammucchiati, contro una parete,
tavoli e sedie, fummo depredati di quanto avevamo (orologi, catenine e
soprattutto soldi). A me portarono via persino il piastrino di riconoscimento
militare. A tutti furono fatte togliere le scarpe che non rivedemmo più.
Partigiani entravano di continuo nella stanza e tutti cercavano qualche
“criminale”; non trovandolo, picchiavano tutti. Particolare accanimento ci mise
nei pestaggi un certo Giovanni Brambullo (“Dante”) che usava, per spaccare
teste, una vanghetta di tipo militare. Nello stesso stanzone erano rinchiusi
anche una decina di militari tedeschi, quasi tutti ufficiali, che non furono
toccati e che protestarono vivacemente contro i maltrattamenti inflitti agli
italiani, soprattutto quando qualcuno di questi, sbattuto a suon di botte da un
angolo all'altro, finiva addosso ai tedeschi stessi. Questi tedeschi rimasero
con noi forse un paio di giorni e un loro medico si prodigò a medicare in
qualche modo — sfidando le ire dei partigiani — i feriti più gravi, usando — non
c'era altro — dei rotoli di carta della cartiera. Furono poi portati via, sempre
con i dovuti riguardi. Sentivamo continuamente raffiche di colpi di fucile e
qualche guardiano ci gratificava avvisandoci che presto sarebbe toccato anche a
noi. Nel gruppo di cui facevo parte, e che ogni tanto si ingrossava per nuovi
arrivi o diminuiva per partenze per destinazione ignota, c'era un Pianca
(Emilio - n.d.a.) che ogni tanto veniva portato fuori e rientrava in condizioni
pietose: fra l'altro gli infilarono un pugnale in un braccio, rigirandolo nella
ferita. Fu poi definitivamente portato via e certamente ucciso... Altro
massacrato di botte fu un giovane brigatista, di S. Lazzaro o S. Trovaso,
accusato nientemeno di avere avuto in dotazione un fucile che egli chiamava
“Ciàpa”. Fu trascinato fuori ormai morente, lasciandosi dietro una lunga scia di
sangue. Di sangue era abbondantemente intrisa la poca paglia su cui bivaccavamo.
Passarono così quattro giorni, con l'intermezzo della festa del 1° maggio,
durante la quale fummo allietati da una banda che in cortile suonava fino
all'ossessione le quattro note di “Bandiera Rossa”, frammiste a continue
raffiche di mitra e colpi isolati. Non mangiammo, non dormimmo e alla latrina ci
si andava scortati. E quanti poveracci orinavano sangue! Il 4 maggio finalmente
fummo portati all'interno di un capannone. Era ormai indifferente a tutti se ci
avessero fucilati. Forse era preferibile! Ci diedero invece da mangiare un
risotto che quelli che riuscirono a ingoiarlo trovarono ottimo. A qualcuno
restituirono le cose di minor valore sequestrate. Ci fecero lavare un po' alla
meglio e ci caricarono su di una vecchia corriera, sul cui tetto, sui
parafanghi, sui predellini, sul cofano, salirono partigiani armati fino ai
denti, col “Falco” in testa armato di una grossa mitragliera. Eravamo forse una
trentina. Alcuni altri furono liberati. Altri ancora rimasero e non so che fine
abbiano fatto. Scaricati alle porte di Treviso, legati le mani dietro la schiena
con fili di ferro, catene, corde, spaghi e uniti tutti da una lunga corda,
scalzi, insanguinati, laceri, dovemmo attraversare la città in mezzo alla canea
che ci insultava, ci sputava addosso e ci colpiva. A me e a Santarelli (un
milite di Lucca grande e grosso, ma ridotto in condizioni pietose) un vecchietto
continuò per una cinquantina di metri a sbatterci sulle gambe la bicicletta,
definendoci traditori. In piazza Duomo, prima, e poi nel cortiletto esterno
delle carceri facemmo lunghe soste per concederci alle foto ricordo dei militari
americani, con i partigiani in posa e la faccia feroce. Finalmente (pensa un
po'... finalmente) fummo fatti entrare nel carcere e tenuti per tutta la notte —
eravamo in una trentina — in una stanzetta, in piedi, pigiati in modo che coloro
che svenivano (e ce n'erano tanti ridotti al lumicino) dovevano stare ritti,
sostenuti dagli altri...».
Più avanti, il Coraluppi cita alcuni episodi che, in quei giorni di
barbarie, gli consentirono di nutrire un barlume di speranza nei riguardi della
dignità umana: «Il brigadiere Moretti, di Lucca, anziano, sicuramente
ultracinquantenne, durante l'interrogatorio affermò con fierezza di essere
fascista e squadrista e di esserne orgoglioso. Fu pestato a sangue. Moretti (era
infermiere senz'altro valido e umano), per mesi, nell'infermeria della caserma
Salsa, aveva curato meglio che se fosse un figlio un giovane partigiano
catturato ferito e condannato a morte. Gli evitò la morte... Il milite Sbrana,
pure di Lucca, alla notizia trionfalmente portataci dai partigiani che Mussolini
era stato assassinato e appeso a piazzale Loreto (ci mostrarono il giornale), si
scagliò violentemente su di loro investendoli di insulti e di botte e affermando
che a Mussolini stesso avrebbero dovuto fare un monumento in ogni piazza
d'Italia. Gli fu letteralmente spaccata la testa, fasciata poi in qualche modo
con la solita carta. Un partigiano, credo guardiano della cartiera, una notte
impedì a una torma di esagitati ubriachi l'ingresso al nostro stanzone, dove
volevano fare la loro parte di giustizia sommaria. Rischiò la vita. Anche il
parroco di S. Maria del Rovere, don Gino Longo, penetrò in cartiera e, incurante
degli insulti e delle minacce, ci portò, oltre alla benedizione, il suo conforto
e l'assicurazione del suo interessamento. Gliene sono sempre stato grato. Anche
lui rischiò la vita. Posso dire che la grande maggioranza dei prigionieri si
comportò dignitosamente... C'è da dire che entrò anche tanta gente che con i
fascisti non aveva nulla a che fare: anche qualche reduce dai campi di
concentramento in Austria e Germania, pescato senza documenti. Catturati con me
furono i militi Paolo Matteo Fumei, di Treviso, e Primo Giovannetti, di Lucca.
Uscirono vivi e liberi. C'erano pure numerosi militi della GNR di Lucca, oltre
ai citati, dei quali non ricordo il nome: erano bravi soldati, fieri e
coraggiosi».
Carlo Coraluppi, fra Mignagola, carceri di Treviso, detenzione
presso la caserma De Dominicis e vari campi di concentramento controllati dagli
inglesi, rimase prigioniero un anno esatto.
L'affermazione di Coraluppi, secondo il quale era sufficiente esser
trovati dai partigiani sprovvisti di documenti di riconoscimento per venir
portati in cartiera ed eliminati, trova riscontro in varie testimonianze, tra le
quali quella di R. M. Costui, venuto a conoscenza in quei giorni che un
suo cognato di Mignagola era stato fermato e tradotto alla “Burgo” per non aver
potuto provare la sua identità, si recò subito in cartiera dove gli dissero che
il suo parente era già stato avviato alla volta di Casier con un camion carico
di prigionieri. Si diresse allora a Casier col “Falco” — che ben conosceva per
essere stato costretto più volte in passato a ospitarlo a casa sua — riuscendo a
sottrarre il cognato da sicura morte.
A proposito di Casier, va ricordato che questo paese sulle rive del
Sile fu teatro durante la guerra civile di un numero imprecisato di eccidi. Qui
i fascisti venivano fucilati e gettati nelle acque del fiume; la corrente
provvedeva poi a portarli lontano, facendo perdere ogni traccia. Umberto Crosato ricorderà che un certo
Antonio Pol era specialista nel mettere un fez in testa ai fascisti legati,
fissandovelo poi a martellate con dei chiodi che perforavano la testa dei
condannati e facendo quindi rotolare i corpi nel Sile. Ma il Sile fu teatro
anche di altri nefandi episodi. Molti prigionieri, mentre ancora si
agitavano negli spasimi dell'agonia, furono
crocefissi a delle tavole di legno e gettati nel fiume. È opinione comune che la
stragrande maggioranza degli assassinati, dei quali più si rinvennero i corpi,
siano spariti per sempre inghiottiti dalle acque di questo fiume.
Particolarmente significativa è la testimonianza resa da Ruggero Benussi, altro scampato ai
massacri della cartiera. Benussi, figlio del presidente della Provincia di
Treviso, dopo varie peripezie che lo videro, dopo l'8 settembre, prima
volontario della GNR in quella città, poi allievo ufficiale a Padova, quindi
ufficiale paracadutista in Montenegro e in Slovenia (era nato a Fiume), decorato
di varie onorificenze germaniche e della RSI, nell'aprile del 1945, colpito da
forte attacco di itterizia, si trovava ricoverato nell'ospedale di Treviso
(sezione staccata di S. Artemio) diretto dal professor Tronconi, che diventerà
poi sindaco di Treviso. La mattina del 29 aprile venne avvertito dal professor
Tronconi che suo padre era stato arrestato dai membri del CLN; il medico lo
consigliò di vestirsi e di nascondersi nella sua abitazione, sita nel giardino
del nosocomio, dove già era ospitata la famiglia di Benussi. Anche perché, gli
disse, certamente i partigiani sarebbero andati a cercarlo in ospedale dove,
specie fra gli infermieri, c'erano parecchi elementi di sinistra. Così egli
fece, ma alle ore 13,30 irruppe nella sua stanza un gruppo di persone, tra cui
uno alto con barba quadra, in divisa caki, con stivaloni e dei gradi rossi
(Pietro Lovadina, “Barba” -
n.d.a.), e altri, vestiti mezzo in borghese
e mezzo in divisa tedesca. Quello che tutti gli altri chiamavano “Falco” prese
subito a interrogarlo sulla sua attività di soldato e sul suo passato; un altro
lo picchiò col nastro della mitraglia. A un certo momento se ne andarono: «Non
sappiamo cosa farcene — dissero — di un cinese mezzo morto». “Falco” aggiunse
anche: «Ti lascio stare perché probabilmente avranno già ammazzato tuo padre e
ne basta uno in famiglia».
Nel
pomeriggio però, verso le 16, quello che l'aveva picchiato la mattina, preso
forse da rimorso, ritornò assieme ad altri energumeni e lo invitò a
seguirli.
«Mi fece indossare — ricorda Benussi — sopra il pigiama i calzoni e
una giacca e, mentre mi stavo mettendo le calze, mi disse che bastavano le
scarpe, perché di calze non avevo più bisogno. Colpendomi con pugni e manrovesci
mi portarono in strada dove c'era un piccolo camion che aspettava e dove c'erano
altre persone e tanti partigiani. Mi fecero salire colpendomi col calcio dei
mitra sulle reni e mi ammucchiarono con gli altri. C'era un vecchio con una
divisa nera che si teneva gemendo una mano sull'occhio destro, mentre col
fazzoletto insanguinato cercava di fermare l'emorragia. Mi venne l'istinto di
aiutarlo, ma un altro mi disse: “Lascia perdere, gli hanno fatto schizzare
l'occhio con un pugnale”. La testa mi si annebbiò e persi conoscenza. Mi
sveglio, non so esattamente quanto tempo dopo, e mi trovo tra le mura di cinta
di uno stabilimento. In un piccolo piazzale ci fanno scendere. Alcuni di noi
sono feriti e si lamentano. Su un lato c'è una grande porta aperta e ci fanno
entrare in una stanza dove ci chiudono senza luce. Da una piccola finestra entra
un po' d'aria e io mi avvicino a questa apertura per guardare fuori, ma un
prigioniero mi ferma e mi dice di non espormi. Ci guardiamo ammutoliti, saremo
una decina, forse di più. Tra questi c'è uno che zoppica e gli chiedo se è stato
ferito; mi dice di aver avuto da ragazzo la poliomielite e di esser rimasto
così. Mi dice di chiamarsi Rino (è il
Carniato già incontrato - n.d.a.) e di aver
fatto il fattorino presso la Federazione. Mentre cerchiamo di familiarizzare per
farci coraggio, entrano tre persone col mitra e un pacco di giornali che buttano
a terra. Uno di loro viene chiamato “Ferro” (Alfonso Benedetti - n.d.a.)
dagli altri due. Questi prende un giovane in borghese e gli fa levare i calzoni,
mi sembra di colore marrone, e una maglia grigia e lo lascia così seminudo,
mentre un altro suo compagno comincia a percuoterlo col calcio del mitra. Un
prigioniero di circa trent'anni, alto e magro, si lancia in difesa del giovane,
ma viene freddato da una raffica di mitra. Cade vicino a me e il sangue cola
dalla faccia orrendamente sfracellata. Tutti urliamo. “Ferro” leva le scarpe al
caduto e fa per andarsene, ma prima di uscire raccoglie gli indumenti presi al
giovane e spara una raffica a casaccio che colpisce due di noi in modo non
grave. Dopo poco viene dentro un altro e ci dice di portar fuori i morti.
Nessuno si muove. I due feriti si lamentano: uno è stato colpito a un braccio e
l'altro al ventre. Il partigiano esce e chiama altri compagni. Si sentono
continuamente spari. Entrano altri partigiani e fanno prendere da alcuni di noi
il cadavere di quello colpito in faccia e il ferito al ventre che si lamenta e
non è più in grado di muoversi. Viene fatto prelevare per i piedi e trascinare
fuori. Io sono in un angolo insieme a quello spogliato, e ci stringiamo vicini.
Sentiamo una raffica e poi i partigiani se ne vanno. Restiamo soli e uno si leva
la camicia per fasciare il braccio del ferito che perde sangue. Si sentono
sempre raffiche e colpi singoli. A un tratto sentiamo delle urla. Vengono i
partigiani e ci fanno uscire per unirci ad altri prigionieri che ci aspettano
fuori. Uscendo, noto per terra i corpi del primo caduto e vicino quello del
ferito al ventre, al quale hanno sparato una raffica in faccia. Un partigiano
chiamato “Barba” dagli altri (Enrico Chiarin
- n.d.a.) mi dice di rientrare a prendere
il pacco di giornali. Eseguo e torno fuori. Ci uniscono al gruppo di prigionieri
di prima, che presentano tutti segni di bastonature alla faccia. Si muovono a
stento e si lamentano. Io accuso sempre di più nausea allo stomaco e cammino con
difficoltà perché ho le scarpe un po' grandi e sono senza calze. Un partigiano
mi vede e dice a un compagno che “Mandrake” mi sta cercando. Un prigioniero mi
dice che stiamo all'interno della cartiera Burgo di Mignagola: un nome che
resterà per sempre impresso nella mia mente. Mentre passiamo vicino a un grande
mucchio di carbone, un partigiano chiama Rino, il poliomielitico, e,
schernendolo, gli dice: “Tu che sei bravo a camminare, sali su quel mucchio di
carbone. Se arrivi in cima sei salvo!”. Il poveretto comincia a salire, ma
scivola sempre, finché una raffica di mitra lo abbatte. Siamo terrorizzati. Ci
buttano all'interno di una piccola stanza dove c'è della paglia in terra: è
umida. Ci fanno sedere sopra. Sento che i calzoni mi si appiccano al terreno.
Tocco con la mano, perché mi sembra lubrificante. Una lieve luce accesa in alto
illumina l'ambiente. Sollevo la mano imbrattata di una poltiglia maleodorante.
“È sangue!”, grida un altro e siamo sempre più terrorizzati. Io ho una sete da
impazzire. Poi entra un gruppo di partigiani che ci dicono che è arrivata l'ora
di cena e ci ordinano di mangiare i giornali che ci hanno fatto portare dentro.
Ci guardiamo stupiti. Uno di noi si mette perfino a ridere. I feriti alla faccia
si lamentano, ma non si muovono o quasi. Allora i partigiani cominciano a
colpirci col calcio del mitra. Io vengo colpito alla mascella destra e sento che
una parte di dente mi si è rotta. Sputo il pezzo d'osso insieme a sangue, e in
quel momento mi buttano in mano un giornale e mi obbligano a mangiarlo. Vedo che
si tratta della rivista tedesca “Signal”. Faccio piccoli pezzi e li mastico a
lungo fino a che li sento poltiglia. È difficile ingoiarli, ma continuo insieme
agli altri, mentre i partigiani, che stanno bevendo dei fiaschi di vino, si
stanno ubriacando. A un tratto un partigiano mi trasferisce in una saletta dove
vedo attrezzature per i pompieri e lì mi interrogano. Faccio fatica a parlare
perché ho sete. Chiedo da bere. Hanno parecchi fiaschi di vino dai quali bevono
a garganella. Prendono una gavetta sporca e versano del vino. Stupisco, vedendo
che non mi danno da bere dal fiasco come fanno loro. Penso che faccio loro
schifo per come sono così giallo. Ma non è questo il motivo. Nella gavetta dove
c'è il vino a me destinato, a turno, sputano e poi l'ultimo, tra le risate
generali, ci orina dentro. Mi rifiuto di bere, ma mi danno un forte pugno e sono
costretto a farlo. Mi fa schifo, ma provo anche un certo sollievo, perché ho
tanta sete. Cominciano l'interrogatorio tra insulti e ceffoni. Rispondo poco e
frammentariamente perché la nausea sale più forte e comincio a rimettere. Mi
sbattono con la faccia su quanto ho rimesso e uno dice: “Facciamolo fuori!”.
Allora decidono di portarmi nella stanza dov'ero stato prima con gli altri
prigionieri. Mi chiudono dentro al buio e non vedo nulla, perché ormai è notte.
Cerco di trovarmi un posto dove sdraiarmi, ma mi accorgo di non essere solo,
allungo le mani mentre un fetore mi colpisce e sento nuovamente il desiderio di
vomitare. Sotto le mani trovo degli indumenti bagnati e attaccaticci e... sotto
dei corpi inerti. Mi pare di sognare, non capisco niente e mi sembra
d'impazzire... Sono stato tutta la notte a pregare, a pensare, vomitare e
cercare di rendermi conto di quanti corpi erano chiusi con me in quella
stanza... La mattina dopo mi svegliai quando c'era già il chiaro del giorno.
Sentii spari e poi, finalmente, la porta si aprì. Un partigiano venne dentro e
si stupì nel vedermi vivo tra tutti quei morti. Erano tutti i prigionieri
rinchiusi con me la sera precedente, prima che mi trasferissero nel locale dei
pompieri. Mi chiese come mai ero lì vivo e poi mi disse di andare fuori con lui.
Lì c'era un camion con un gruppo di prigionieri tedeschi in divisa. Li fece
scendere, mi mise fra di loro e ci fece caricare i cadaveri sul camion. Ne
contai circa 25-28. Poi il camion partì. Avevo notato che quasi tutti i cadaveri
avevano la faccia sfracellata. Penso che li avessero sfigurati così per
impedirne in seguito l'identificazione. Poi, insieme ai tedeschi, venni condotto
in altra stanza più pulita e restai con loro tutta la giornata senza particolari
fatti da ricordare. Verso mezzogiorno ci portarono del pane e un bidone di acqua
sporca e mangiai con loro. Si sentivano continuamente movimenti di automezzi,
sparatorie, urla e canti di avvinazzati. Verso sera sentii parlare in inglese ed
ebbi un tuffo al cuore. Forse erano arrivati gli “alleati” a prelevarci e il
tormento era finito. Questo pensiero mi colpì così forte che mi misi a piangere.
Ci fecero uscire e vidi un camion americano con la stella bianca e dei militari
americani che parlavano con i partigiani. Fecero caricare tutti i prigionieri
tedeschi sul camion e mi lasciarono giù perché ero “fascista” e non c'entravo
con loro. E se ne andarono senza di me. Mi rinchiusero nuovamente in una stanza
e mi lasciarono solo fino al giorno dopo. Di tanto in tanto sentivo spari e
urla. La mattina dopo nella mia stanza vennero introdotti altri prigionieri
tutti in abiti borghesi, tranne uno, in divisa di sottotenente della GNR di nome
Gino. Aveva i baffetti neri e parlava in dialetto lombardo (Lorenzi - n.d.a.). Tra
questi prigionieri c'erano tre triestini dei quali non ricordo il nome, che
parlavano in dialetto fra di loro. Mi presentai come fiumano e familiarizzammo.
Tra di noi c'era un ragazzo che si lamentava continuamente per dolori al ventre.
Gli chiedemmo perché si lagnasse e ci disse piangendo che gli avevano fatto
mangiare un distintivo fascista (si trattava
certamente dell’agente di PS Nicola Monaco - n.d.a.). Lo consolammo e io gli dissi che da piccolo avevo ingoiato una
moneta e che poi l'avevo defecata dopo una purga. Si rideva fra di noi per farci
coraggio. Ricordo un signore di circa cinquant'anni che si esprimeva in perfetta
lingua, sicuramente un laureato; non volle dirci chi fosse. Cominciò a parlarci
con molta calma e ci incuteva coraggio, dicendoci che sarebbe arrivata
sicuramente l'autorità ufficiale a por fine al massacro. Ci era molto simpatico.
A un certo punto venne dentro un partigiano tutto mascherato di fazzoletti
rossi, bandoliere e armi di tutti i tipi. Rivoltosi al signore di prima gli
chiese: “Di che banda sei?”, e quello: “Della banda d'Affori”. Tutti scoppiammo
in una risata. Il partigiano s'infuriò e gli sputò addosso. Non dimenticherò mai
lo sguardo di questo nostro amico. Fulminò il partigiano che, bestemmiando, se
ne andò. Noi ci congratulammo con questo signore che stava diventando un po' il
nostro capo. Ma poco dopo il partigiano entrò con un altro chiamato “Barba”
(Enrico Chiarin - n.d.a.) e lo fecero uscire. Prima di uscire ci salutò, diede
l'impermeabile che portava sulle spalle al giovane che aveva dovuto ingoiare il
distintivo, dicendogli che ormai a lui non sarebbe servito più. Ci salutò dando
la mano a tutti, mentre i partigiani gli intimavano di far presto, e nell'uscire
ci disse: “Coraggio, lo facciamo per l'Italia!”. Quando poco più tardi uscimmo,
trovammo il suo corpo spogliato degli indumenti e intriso di sangue. Il giovane
lo coprì col suo impermeabile e noi ci avviammo coi partigiani in altra parte
dello stabilimento. Non riuscii mai a sapere chi fosse... Ci portarono davanti a
una vasca e ci fecero attendere. Vennero in circa una quindicina e cominciarono
a picchiarci con i bastoni. Tra i nuovi arrivati notai due che stavano in
disparte a parlare tra di loro. Io gridavo e dicevo che dovevano lasciarmi
perché dovevo andare da “Mandrake” (un
partigiano che aveva sentito nominare, ma del quale ignorava ogni cosa -
n.d.a.). E finalmente cessarono di colpirmi
e mi chiesero perché dovevo andare da “Mandrake”. E io inventai dicendo che lui
mi voleva perché ero suo amico e che per questo non ero stato ancora ammazzato.
Mi misero tra i due che avevo visto appartati e, dopo aver colpito a morte i
prigionieri, li finirono a colpi di mitra. Io restai allibito e svenni. Quando
rinvenni mi trovai a terra vicino a quei due partigiani che erano stati
testimoni del massacro senza intervenire in alcun modo e mi accorsi che stavano
parlando fra loro in lingua slava. Conoscendo il croato, mi misi a parlare con
loro: erano due prigionieri russi fuggiti e passati ai partigiani. Uno disse di
essere commissario politico della Brigata Wladimiro (il capitano Walter Sadicov - n.d.a.) che aveva operato sul Cansiglio. Parlammo insieme..., mi
portarono in una stanza..., mi fecero brindare al 1° maggio..., mi diedero uova
sode, del pane e del vino..., poi vennero a prendermi i partigiani italiani e
sempre dicevo che mi voleva “Mandrake”. Alla sera mi unirono ad altri
prigionieri e ricominciarono le legnate. Verso le 10 o anche più tardi
cominciarono a farci uscire uno alla volta e poi si udivano urla e spari e io
sempre aspettavo che giungesse il mio turno. A un tratto venne un partigiano e
mi chiamò: “Cinese, vieni fuori!”. Andai fuori con lui, ma ero assente, non
capivo quasi nulla, camminavo come un automa. Arrivai davanti a un gruppo di
partigiani, tra cui riconobbi quello che era venuto a prelevarmi a casa. Era
lui, “Mandrake” (Alfonso Moratto -
n.d.a.)! Mi fece levare le scarpe e rimasi
a piedi nudi. Mi fece levare i calzoni e la giacca e rimasi col pigiama che
avevo sotto il vestito, quando erano venuti a prelevarmi a casa dal letto dove
mi trovavo ammalato. Si misero a deridermi e mi dissero di correre nel cortile
illuminato. Non sentivo neanche il dolore ai piedi. Sentivo colpi singoli che mi
rincorrevano e io correvo mentre “Mandrake” sghignazzava. A un tratto, mentre
stavo per cadere, sentii raffiche fortissime e urla concitate e caddi a terra
inciampando. Quando mi rialzai, vidi i partigiani con le mani alzate, mentre un
gruppo di soldati inglesi li stava disarmando. Gli inglesi mi presero con loro
insieme agli ultimi prigionieri rimasti vivi e ci trasferirono in una loro
caserma...».
Verso la metà di maggio del 1945, al tribunale di Treviso giungono
le prime denunce dei familiari delle vittime. Sempre di quei giorni è anche un
rapporto dei carabinieri di quella città alla Procura che segnala il massacro
alla cartiera. In particolare vengono indicati dalla Benemerita i luoghi dove
alcuni uccisi risultano esser stati sepolti: «Nei pressi della cartiera di
Carbonera, nel campo di certo Moro Romeo, risultano sepolti, in una fossa
comune, cinque cadaveri. - Nell’appezzamento di terra sito dietro la chiesa di
Mignagola sono sepolti tre cadaveri. - Nel cimitero di Pezzan di Carbonera un
cadavere. - Nelle immediate adiacenze dell’abitato di Mignagola risulterebbe
sepolto un numero rilevante di cadaveri che il parroco del luogo vorrebbe far
ascendere a un centinaio. - Tra i comuni di Breda e Maserata risulterebbero
sepolti in un campo di granoturco circa trenta cadaveri».
Qualche giorno dopo, esattamente la mattina del 6 giugno, il
giudice istruttore Giovanni Berlanda, assistito da un cancelliere e alla
presenza del dottor Antonio Gardelin, procede all'esumazione e all'esame esterno
dei cadaveri sepolti nelle adiacenze della cartiera e in prossimità del raccordo
ferroviario. Presente è anche Vittorio Battistella, della cui attività di
becchino della banda partigiana si è già detto.
Vengono scavate tre fosse: la prima contenente un solo cadavere, la
seconda nove, la terza undici. Il riconoscimento avviene solo per le salme di
Pietro Mion, Luigi Mion, Candido De Biasi, Massimo Fontebasso e Rino Carniato;
gli altri sono irriconoscibili. Gli assassini hanno infatti provveduto, oltre ad
asportare vestiti e documenti, a cospargere sul volto delle vittime calce viva e
acido muriatico, al fine di rendere impossibile ogni identificazione. La ricerca
viene quindi sospesa per riprendere nuovamente il 7 giugno.
In quella data vengono scoperte altre due fosse — la prima con
undici cadaveri, l'altra con quindici — ma nessuno viene riconosciuto. Quindi,
nuova sospensione e ripresa degli scavi il giorno successivo, 8
giugno.
Nella sesta fossa vengono rinvenute venti salme, di cui due di
donna, con caratteristiche simili alle precedenti agli effetti della
riconoscibilità.
Dopo un'ennesima sospensione, si riprende a scavare il giorno 15
giugno, alle ore 10, alla presenza del giudice istruttore Mario Alberghetti.
Dalla settima fossa vengono riesumati undici cadaveri, nessuno dei quali viene
riconosciuto. I ricercatori si recano allora nel campo di proprietà di Romeo
Moro dove da una fossa (l'ottava) emergono altri cinque cadaveri.
In totale, dunque, ottantatré salme. Non si ha a tutt'oggi notizia
di ricerche e scavi effettuati dietro la chiesa e nei campi fra Breda e
Maserada, luoghi nei quali il citato rapporto dei carabinieri segnalava la
presenza di altre salme.
Intanto, a pagina 435 del registro dei morti della parrocchia di
Carbonera, il parroco don Ernesto Dal Corso annota: «Ad perpetuam rei
memoriam».
«Nella ricorrenza della liberazione dell’Italia dal Fascismo e
dai Tedeschi, cioè dal 27 aprile al 30 aprile 1945, in località Cartiera Burgo
di Mignagola di Carbonera, fu costituito un tribunale di partigiani (non so con
quanta legalità) presieduto da alcuni partigiani in parte di questa parrocchia
(Carbonera), quali Roberto Polo, Giovanni Brambullo, Antonio Sponchiado... e
altri in parte estranei, i quali giudicarono molti fascisti o indiziati
fascisti, molti dei quali furono uccisi a colpi di mitraglia o dentro le stanze
degli uffici della cartiera, oppure allineati lungo le mura. Quante siano state
le vittime, nessuno lo può accertare, perché nessuno poté essere presente, e
neppure l’assistenza del sacerdote, richiesta da parecchi sacerdoti e dal
parroco, fu permessa (i componenti il tribunale fantasma erano tutti comunisti).
Le salme, dopo essere state depredate del denaro e in parte degli indumenti... e
di tutti i documenti, furono sepolte lungo il tronco di ferrovia che va alla
cartiera, sotto un po' di terra e l’una sopra l’altra. Alcuni giorni dopo furono
risepolte in fosse lunghe e senza cassa, ma allineate. Per interessamento di sua
eccellenza il vescovo Mantiero, il Comando militare di Piazza ordinò la
riesumazione, e incaricati di ciò furono il medico provinciale dell’ospedale
militare, il tribunale e il parroco locale. Furono scavate in otto giorni ben
ottantatré salme e, poste in casse di legno, furono trasportate nel cimitero di
Carbonera, nella parte che va dal campanile alla strada, in tre fosse lunghe.
Dalle salme furono prelevati dei lembi di vesti, o altri indizi per
l’identificazione eventuale delle salme, cose che furono trasportate in busta
segnata con un numero, pari al numero della cassa, che si trova qui, in ospedale
militare. Le salme identificate furono pochissime, perché i documenti furono
bruciati dai componenti il tribunale. Furono identificati i quattro di Candelù,
uno da Pezzan, Carniato... Fra le salme ce ne sono due di donna. - Sac. Ernesto
Dal Corso».
Nel documento, consegnatoci con qualche mutilazione dall'attuale
parroco di Carbonera, sono contenute alcune inesattezze che lo stesso Dal Corso
provvederà a rettificare — come vedremo — nella successiva deposizione davanti
ai giudici trevigiani.
Riguardo poi all'accenno all'interessamento del vescovo di Treviso
per la riesumazione dei cadaveri, vi è da osservare che non si ha traccia di
interventi del prelato per far cessare i massacri dei quali non poteva non
essere a conoscenza. Ben diverso zelo monsignor Mantiero, come s'è visto,
profuse nella liberazione di alcuni sacerdoti arrestati per collaborazionismo
con i partigiani, oppure per la liberazione di venticinque ostaggi catturati dai
tedeschi a Carbonera dopo l'impiccagione da parte dei partigiani dei due
soldatini germanici che andavano a uova o, ancora, per la liberazione dei
“Falchi delle Grave” catturati dalla X MAS il 18 novembre 1944 a Maserada e
portati a Conegliano.
Il numero delle salme identificate, che al momento delle prime
esumazioni erano solo cinque, accrebbero via via nel corso degli anni. Siamo qui
in grado di fornire i nomi di parecchi trucidati, elenco evinto dalla
documentazione esistente presso il tribunale di Treviso, l'ufficio anagrafe del
comune di Carbonera e l'archivio privato del compianto consulente storico
Pieramedeo Baldrati di Como. A questo primo elenco ne segue un altro, con i nomi
di uccisi accertati la cui salma non fu identificata:
1. |
Annichiarico Fedele, anni 55, da Grottaglie (Taranto),
archivista, cap. 620° Com. Prov. GNR, ucciso ...?...
|
2. |
Brunelli Guido, anni 40, Forlì. operaio, Btg. “Romagna”,
ucciso 30 aprile 1945
|
3. |
Carniato Rino, anni 29, Carbonera, fattorino, ucciso 29
aprile 1945
|
4. |
Celussi Mario, anni 27, Monastier (Treviso), pescatore,
ucciso 2 maggio 1945
|
5. |
Collotti Gaetano, anni 28, Castelbuono (Palermo),
vicecommissario di PS, ucciso 28 aprile 1945
|
6. |
De Biasi Candido, anni 34, Maserada (Treviso), agricoltore,
ucciso 28 aprile 1945
|
7. |
Esci Giovanni, anni 46, Dolo (Venezia), operaio, ucciso 27
aprile 1945
|
8. |
Faedi Antonio, anni 23, Cesena (Forlì), falegname, milite
GNR, ucciso fine aprile 1945
|
9. |
Fontebasso Massimo, anni 50, Maserada, guardiano idraulico,
ucciso 28 aprile 1945
|
10. |
Galli Illio, anni 20, Treviglio (Bergamo), studente,
sottotenente “Romagna”, ucciso 4 maggio 1945
|
11. |
Lorenzi Luigi (Gino), anni 20, Bergamo, studente,
sottotenente “Romagna”, ucciso 4 maggio 1945
|
12. |
Manfredi Duilio, anni 22, Pescaglia (Lucca), operaio, ucciso
26 aprile 1945
|
13. |
Mariotti Augusto, anni 46, Mercato Saraceno (Forlì), ucciso
fine aprile 1945
|
14. |
Mariotti Candido, anni 20, nato in Francia, figlio del
precedente, ucciso fine aprile 1945
|
15. |
Menegaldo Angelo, anni 30, Monastier (Treviso), impiegato,
ucciso 2 maggio 1945
|
16. |
Mion Luigi, anni 37, Maserada, sottufficiale Marina, ucciso
29 aprile 1945
|
17. |
Mion Pietro, anni 46, Maserada, agricoltore, ucciso 28
aprile 1945
|
18. |
Montanari Lorenzo, anni 41, Cesena (Forlì), impiegato,
ucciso fine aprile 1945
|
19. |
Pessot Angelo, anni 44, Mansuè (Treviso), milite Brigate
Nere, ucciso 30 aprile 1945
|
20. |
Reffo Vasco, anni 19, Selvazzano Dentro (Padova), meccanico,
milite 620° Com. Prov. GNR, ucciso 30 aprile 1945
|
21. |
Scarano Rocco, anni 23, Lacedonia (Avellino), insegnante,
tenente GNR, ucciso 3 maggio 1945 (?)
|
22. |
Schileo Carlo, anni 23, Villorba (Treviso), meccanico,
ucciso 30 aprile 1945
|
23. |
Seliskar Rado, anni 32, Lubiana (Jugoslavia), ufficiale di
PS, ucciso 28 aprile 1945
|
24. |
Spellanzon Armida, anni 41, Vazzola (Treviso), impiegata,
ausiliaria GNR, uccisa 28 aprile 1945
|
25. |
Spinelli Enzo, anni 20, Reggio Calabria, studente,
sottotenente 620° Com. Prov. GNR, ucciso 3 maggio 1945
|
26. |
Testa Mario, anni 20, Bergamo, studente, sottotenente
“Romagna”, ucciso 4 maggio 1945
|
27. |
Villani Vito, anni ..., Portogruaro (Venezia), ucciso
...?...
|
Caduti
non
identificati
1. |
Bellio Giacomo Arturo, anni 22, Carbonera, ceramista, milite
GNR, ucciso 4 maggio 1945
|
2. |
Calantore Fiorenzo, anni ..., provincia di Napoli, milite
GNR, ucciso ...?...
|
3. |
Campi Aldo, anni 19, Terni, milite Brigate Nere, ucciso 30
aprile 1945
|
4. |
D'Alessandro (o Alessandro) Nicola, anni 24,
..., ucciso ...?...
|
5. |
Faccini Teseo, anni ..., ..., milite GNR, ucciso
...?...
|
6. |
Facco Mario, anni 26, S. Giustina in Colle (Padova), marò X
MAS, ucciso ...?...
|
7. |
Fattorello Fioravante, anni 24, Chiarano (Treviso),
bracciante agricolo, milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile
1945
|
8. |
Ferri Ciro, anni 30, ..., ucciso
...?...
|
9. |
Ferro Vincenzo, anni 33, Pietraperzia (Enna), agente PS,
ucciso ...?...
|
10. |
Fontebasso Tullio, anni 18, Maserada, studente, milite GNR,
ucciso 4 maggio 1945
|
11. |
Francesconi Pietro, anni 30, Montenovo di Montiano (Forlì),
insegnante, ucciso 30 aprile 1945
|
12. |
Franzin Mario, anni 22, Cessalto (Treviso), bracciante
agricolo, milite Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
|
13. |
Frassani Dino, anni 29, Genova, impiegato, ucciso 30 aprile
1945
|
14. |
Frasson Narciso, anni 19, Preganziol (Treviso), milite
Brigate Nere, ucciso 30 aprile 1945
|
15. |
Giuffrida Salvatore, anni 26, ..., ucciso
...?...
|
16. |
Linari Umberto, anni 38, Borgo Tossignano (Bologna),
falegname, ucciso fine aprile 1945
|
17. |
Martorelli Pierina (la donna incinta uccisa con i triestini
- episodio citato), ..., ..., uccisa 28 aprile 1945
|
18. |
Mignacca Alessandro, anni ..., ..., agente di PS, ucciso
...?...
|
19. |
Minguzzi Alberto, anni ..., ..., aviere scelto, ucciso
...?...
|
20. |
Monaco Nicola, anni 25, Caserta, agente di PS, ucciso 1°
maggio 1945
|
21. |
Morani Benito, anni 22, Magenta (Milano), studente,
sottufficiale X MAS, ucciso 8 maggio 1945
|
22. |
Mufato Ferdinando, anni 20, Carbonera, operaio, milite GNR,
ucciso 4 maggio 1945
|
23. |
Paccon Bruno, anni ..., ..., agente di PS, ucciso
...?...
|
24. |
Paccosi Bruno, anni 27 (come anzidetto, potrebbe essere il
Paccon)
|
25. |
Padovan Mauro, anni ..., ..., ucciso
...?...
|
26. |
Pianca Emilio, anni 41, Godega S. Urbano (Treviso), guardia
municipale, ucciso ai primi di maggio 1945
|
27. |
Poggi Mario, anni ..., ..., milite GNR, ucciso
...?..
|
28. |
Polesel Antonio, anni 35, Codognè (Treviso), calzolaio,
ucciso 3 maggio 1945
|
29. |
Saccani Franco, anni 15, Aosta, studente, marò X MAS, ucciso
il 29 o il 30 aprile 1945
|
30. |
Sartori Giovanni Battista, anni 19, Spresiano (Treviso),
studente, marò X MAS, ucciso 8 maggio 1945
|
31. |
Tiveron Enrico, anni 34, Preganziol (Treviso), agricoltore,
milite Brigate Nere, ucciso fine aprile 1945
|
32. |
Vergani Luigi, anni 23, Milano, milite RSI, ucciso fine
aprile 1945
|
33. |
Vocialta Guido, anni 24, Salgareda (Treviso), sottotenente X
MAS, ucciso il 2 o il 3 maggio 1945
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34. |
Zamboni Luigi, anni 34, Laives (Bolzano), manovale, milite
GNR, ucciso 5 maggio 1945
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l'eterno riposo dona a loro Signore...
RispondiEliminaringraziamo chi ci ha messo in guerra
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