mercoledì, ottobre 26, 2016

La strage dell'ex O.P. di Vercelli



Anche il Piemonte non uscì indenne dalla Guerra Civile ed ebbe le sue numerose vittime.

L'ex ospedale psichiatrico di Vercelli
Una verità che si vorrebbe cancellare dalla memoria ma che pesa come un macigno sulla città di Vercelli.

Uscendo dal casello autostradale di Vercelli si affronta la tangenziale ovest che porta al centro cittadino, ai lati impianti industriali, autosaloni, si svolta a destra e ci si immette in Via Trino e dopo un ponte di modeste dimensioni a destra si nota una grande area boscosa, da cui emergono dei fabbricati di colore grigio, rosso mattone, con degli alti muri grigi e delle pesanti cancellate che cingono questo perimetro.
Una piazza si apre di fronte alla facciata scrostata dell'ingresso, ai lati del portoncino due grandi cancelli sbarrati, come pure sono sbarrate le finestre con delle vecchie serrande verdi.
Accanto a dei pini giganteschi una minuscola lapide con un simbolo e con un nastrino tricolore, circondata da un rettangolo di mattoni, tutto qui per commemorare tante vite spezzate dall'odio ideologico. Sul lato di sinistra accanto al muraglione grigio, vi sono decine di orticelli e così pure sul lato posteriore, altri orti provvisori, una pineta e una bassa vegetazione folta e rude che qui chiamano baraggia, sul lato di sinistra del muro corre una stradina sterrata, dove la notte si appartano le coppiette in cerca di intimità. Il sito è abbandonato da tempo, a parte i gatti e pochi operai di qualche ente locale, nessuno vi gira da anni.
Aggiro l'area dal retro e trovo un piccolo varco nella rete metallica, a fatica, utilizzando una vecchia scala ci entro. La vegetazione la fa da padrona, ovunque alberi di alto fusto che nessuno pota da anni, a terra erba alta e rovi, quelli che un tempo erano viali alberati sembrano prati incolti e sono coperti dagli aghi di pino. In mezzo a tutto questo verde invasivo si riconoscono una ventina di padiglioni in grande rovina, la maggior parte di grandi dimensioni che avevano un tempo, usi diversi: cucine, dormitori, magazzini, amministrazione e quant'altro.
Si respira un'aria di abbandono di desolazione e di morte, infatti questo posto nel 1945, era la caserma della 182° Brigata Garibaldina comandata da Giulio Casolare affiancato da un commissario politico , Giovanni Baltare. Soprattutto è l'epicentro di una strage avvenuta più di 70 anni fa, tra l'11 e il 13 di maggio del 1945 a guerra finita, compiuta con grande ferocia su 75 prigionieri appartenenti alla Repubblica.
Mi siedo su un muretto e mi guardo attorno e raccolgo le idee, dopo la caduta della R.S.I. i Fascisti di Vercelli , formano una colonna di circa 2000 unità, la cosiddetta colonna Morsero, dal nome del Federale di Vercelli, e muovono, ancora armati e inquadrati, verso Novara da cui proseguire per Valtellina senza poterla raggiungere.
Giunti a Castellazzo Novarese il 27 aprile, si arrendono alle formazioni partigiane del Novarese comandate da un certo Moscatelli. Tutti vengono concentrati per giorni nel Campo di calcio di Novara, in condizioni di igiene precaria. Decine di Novaresi dalle case sovrastanti l'area dell'impianto sportivo lanciano addosso ai poveretti rifiuti ed escrementi senza che i partigiani di guardia intervengano a fermare questa gogna crudele. Questa cosa va avanti sino al 12 maggio 1945, quando un reparto della 182° Brigata Garibaldina, arriva inatteso e pretende la consegna immediata dei prigionieri repubblichini che avevano operato a Vercelli. Moscatelli tentò di opporre resistenza alla inusuale richiesta poi , dopo un colloquio telefonico con Moranino, consegnò i prigionieri. L'intenzione era quella di liquidare i prigionieri prima dell'arrivo delle truppe Angloamericane che non volevano lasciare autonomia decisionale ai combattenti comunisti e non vedevano di buon occhio i cosiddetti tribunali del popolo e le numerose esecuzioni sommarie che derivavano dai loro giudizi.
Moranino, detto Gemisto, un ex operaio comunista di Tollegno, comandava la piazza di Vercelli e al comando di Biella c'era Ortona detto Lungo, laureato in legge e di professione impiegato, entrambi comunisti di provata fede e purtroppo entrambi futuri Parlamentari della repubblica Italiana.
Settantacinque Repubblicani vengono caricati su un autobus e su un autocarro e scortati sino all'ex Ospedale Psichiatrico di Vercelli, una dozzina di prigionieri sono fucilati frettolosamente appena fuori dal campo di calcio di Novara , poi la colonna prosegue e raggiunge il manicomio di Vercelli intorno alle 19 .
Medici ed infermieri sono obbligati ad allontanarsi mentre la violenza si scatena sui prigionieri, depredati, spogliati e pestati a sangue all'interno di un padiglione del manicomio, le cui pareti rimarranno macchiate a lungo di sangue. L'unico che assiste parzialmente allo scempio è un prete, il cappellano della struttura, Don Manzo, dopo aver dato l'assoluzione ai morituri deve uscire anch'esso. Nessuno deve vedere quello che accade.
Divisi in gruppi di 4 o 5, gli sventurati, inizia l'azione portata avanti dai gruppi di fuoco, con una brutalità ed una ferocia da manuale : una quarantina di fascisti vengono portati all'interno del palazzo comunale di Albano Vercellese, dove subiscono il solito processo farsa, poi allineati sul ponte di Greggio , uccisi a colpi di mitra e gettati nel Canale Cavour.
Un gruppo portato a Lazzirate e passato per le armi in un avvallamento, altri ancora vivi, immobilizzati con del filo di ferro e distesi sul piazzale antistante l'ingresso del Manicomio, schiacciati ripetutamente dalle ruote di alcuni camion in modo tale da fargli perdere ogni fattezza umana, ridotti ad informi mucchi di carne, altri ancora dati alle fiamme e ancora agonizzati per le ustioni sepolti negli orti posti a lato della recinzione.
All'alba del 13 aprile 1945, lo scempio era concluso, solo una decina di prigionieri era ancora in vita. Stranamente fu risparmiata loro la vita e furono tradotti al vecchio carcere di Vercelli.
La Questura di Vercelli ha quantificato , al ribasso, in cinquantuno il numero delle vittime del massacro, di 27 il numero degli esecutori materiali e di due i responsabili di questa strage.
Questo eccidio, completamente inutile e di matrice sadica, di cui si conoscevano i responsabili colpì enormemente l'opinione pubblica, anche quella che aveva collaborato con la Resistenza, infatti questi militari repubblichini avevano completamente cessato di essere di ostacolo alla lotta contro il Fascismo, essendo terminato di fatto l'essere della Repubblica Sociale.
A margine dell'eccidio vanno registrati alcuni comportamenti singolari dei partigiani comunisti, con una difformità di trattamento a seconda dei prigionieri, o meglio a seconda della classe sociale di appartenenza: per esempio un caporione partigiano si innamorò di una ragazza che ricopriva il grado di ufficiale delle Ausiliarie, la fece liberare e quindi la sposò, la donna era figlia di un grande imprenditore della zona, alla cui morte il partigiano ereditò una fortuna.
Ma non era finita , quattro importanti gerarchi fascisti, alti ufficiali delle Brigate Nere e della Guardia Nazionale repubblicana, evitarono per una ben strana scelta ,il plotone di esecuzione, mentre la furia omicida dei boia comunisti si scatenò indiscriminata sui semplici gregari, sulla bassa forza, su tanti giovani e giovanissimi che nella maggior parte scelsero la R.S.I. non per convinzione ma più semplicemente per necessità, volarono solo gli stracci come al solito. Molte vittime erano giovanissimi delle Fiamme Bianche, dei plotoni di Onore che con i combattimenti avevano ben poca pratica, quasi tutti classe 1922 – 23 che al momento dell'eccidio avevano da poco passato i vent'anni. Gli elementi più violenti e più feroci agirono quella notte, in un'orgia di sangue orrenda.
Sin dal 1946 alcuni giornali locali si interessarono all'eccidio, ovviamente non quotidiani di partito, Il Popolo Nuovo, l'Eusebiano e La Verità, attraverso delle inchieste giornalistiche molto precise e approfondite, divulgando senza filtri, quello che era accaduto all'interno e nei pressi del Manicomio. Furono inchieste molto coraggiose, per il periodo storico e perchè Vercelli era una città decisamente comunista, ci furono infatti dei tentativi di tacitare questi media, anche con l'intervento di alcuni parlamentari del P.C.I. Nel 47 i responsabili della strage vennero indagati e perseguiti, nel 1948 furono rinviati a giudizio per il reato di omicidio continuato ed aggravato. Nel frattempo Moranino e Ortone furono eletti al Parlamento della repubblica nel Gruppo Parlamentare del P.C.I..
Nel 1953 la Procura della Repubblica di Torino presenta domanda di autorizzazione a procedere nei confronti dei due Parlamentari con l'accusa di omicidio continuato aggravato. Tuttavia nessuno fu toccato a livello penale, se non per un'altra strage, quella della missione Strassera avvenuta nel 1944, a Portula sulle Alpi Biellesi. Un eccidio, questa volta non di Fascisti, ma bensì di cinque esponenti della resistenza non comunisti e di agenti operativi dell'O.S.S., oltre chè di due donne sposate con le vittime.
Ci furono delle indagini e l'On. Moranino processato in contumacia e condannato all'ergastolo per sette omicidi, dovette fuggire dall'Italia in Cecoslovacchia, dove fece per qualche anno lo speaker a Radio Praga in funzione anti Italiana. Una strana coincidenza fu che sin dal 1953 proprio a Praga, si addestrarono molti futuri brigatisti rossi che poi avrebbero compiuto azioni terroristiche in Italia. In seguito Gemisto ebbe una riduzione della pena , poi nel 1965 il Presidente Saragat lo graziò e nel 1968 rientrò in Italia dove venne rieletto al parlamento con i resti. Nel 1971 morì per un infarto.


Nessun commento:

Posta un commento

Cesare B Cairo Montenotte 13 agosto 1987 Questo omicidio non ebbe risonanza mediatica solo nella provincia di Savona ma anche a livello nazionale e non solo. Con questo delitto dai risvolti intricati, il piccolo centro della Valle Bormida assurse alla ribalta delle cronache nazionali. Fu una vicenda contorta e ingarbugliata, con chiari e scuri, con frequenti colpi di scena, dove tutto quello che sembrava come tale , in realtà non era come appariva, era come un teatrino in cui entravano ed uscivano attori sempre diversi con ruoli criptici. Una storia di sangue, di soldi e ovviamente di sesso, che coinvolse l’opinione pubblica con tutti i suoi numerosi protagonisti, offrendo all’occhio impietoso della gente una immagine, purtroppo veritiera, della piccola provincia, delle ipocrisie che nascono tuttora all’ombra dei campanili, delle storie extraconiugali che venivano nascoste ma che prosperavano e che si protraevano nel tempo spesso con un doloroso epilogo. Da questa vicenda si fece pure un film noir con Monica Guerritore come protagonista. Per una dei protagonisti della vicenda, forse la principale, si coniò un soprannome: la mantide di Cairo Montenotte, facendo riferimento all’abitudine dell’omonimo insetto femmina che uccide il partner maschio dopo il rapporto sessuale. Le vite di molte persone, coinvolte a vario titolo nelle indagini, furono rivoltate come calzini, molti particolari, soprattutto, intimi vennero messi in piazza e non solo nelle aule di tribunali. Ancora oggi, nonostante la conclusione giudiziaria con una colpevole condannata in via definitiva, molti dubbi sussistono , soprattutto nella gente del posto che conosceva benissimo i protagonisti della vicenda. La storia ebbe inizio con una improvvisa scomparsa di un uomo, Cesare B, classe 1931, noto personaggio e notabile della Valle Bormida, consigliere comunale di Cairo Montenotte, facoltoso farmacista, con la passione prima per l’equitazione e poi per il calcio. Egli è il patron della squadra calcistica locale, la Cairese, che segue con grande passione e che sponsorizza a livello economico dando la possibilità alla squadra di effettuare trasferte e di avere giocatori di spicco. Come tutti gli uomini , Cesare B, nonostante fosse sposato e quindi tenesse famiglia, amava frequentare le donne, quelle belle. Egli conosce e inizia a frequentare una donna , Gigliola G, molto graziosa , di corporatura minuta, con una caschetto di capelli biondo, grazie al suo fascino magnetico, lei sapeva affascinare e sedurre gli uomini nella loro fantasia. Di professione fa la gallerista, esponeva e vendeva quadri, nel centro di Cairo. Tuttavia la donna era nata professionalmente come infermiera, aveva anche svolto la professione sanitaria in un orfanotrofio e quindi in una fabbrica a sempre Savona , la Magrini, in quel contesto lavorativo si era sposata con un metronotte da cui ha 2 figli. In seguito contrarrà altri due matrimoni, avrà un’altra figlia, e avvierà altre relazioni . Fra l’altro la donna in prima istanza si chiamava Anna Maria, mutato successivamente nell’attuale Gigliola. Fra Cesare e Gigliola, nasce una relazione amorosa che si protrae, Cesare provvede a tutte le necessità economiche della donna, paga senza fare domande per tutto quello che gli viene chiesto. I pettegolezzi su questa relazione si sprecano considerando anche il fatto che cesare è un uomo molto conosciuto e stimato e che entrambi vivono in un paese dove la gente "mormora". Dunque il 12 agosto del 1987 , il farmacista scompare senza lasciare traccia. Da qui si sviluppa una storia complicatissima, il suo corpo in parte carbonizzato viene trovato sul monte Ciuto, una altura nelle adiacenze di Savona. Effettuato il riconoscimento grazie ad un portachiavi metallico che riporta il simbolo dell'ordine dei farmacisti, alle protesi dentali e alle lenti degli occhiali. Brin era di corporatura massiccia, per ucciderlo, trasportarlo sino a quel sito ci sono volute sicuramente più di una persona. La prima indiziata è la sua amica, Gigliola G, la quale sostiene che responsabili dell’omicidio e poi dell’occultamento furono due personaggi provenienti da Torino con cui l’uomo aveva delle pendenze economiche in corso. Secondo la sua versione nacque una colluttazione tra i due e il farmacista ne uscì pesto e sanguinante, quindi i due aggressori trascinarono via l’uomo. La donna non portò elementi oggettivi a sostegno della sua tesi e quindi venne arrestata e rinviata a giudizio. Un minuscolo frammento di teca cranica venne trovato sulle scale della casa della gallerista e alcune macchie di sangue erano sui muri della camera da letto della casa della Gigliola, dove in effetti viveva di fatto anche il Brin. Secondo gli inquirenti la responsabile principale dell’omicidio fu proprio lei che in concorso con il suo convivente, Ettore G, uccise con un corpo contundente sul capo, un martello o un altro soprammobile, l’uomo nella notte fra il 12 e il 13 di agosto dell’87 mentre egli era disteso inerme nel letto, infatti i fendenti sono chiaramente dall’alto verso il basso, il delitto è avvenuto d’impeto come risultato di tutta una serie di contrasti anche su questioni a carattere economico, che sarebbero alla lunga sfociati in una separazione, forse l’uomo aveva in progetto di tornare dalla propria famiglia e in questo caso veniva a mancare per la gallerista una fonte di reddito. Pare anche che il farmacista avesse rifiutato un prestito di un centinaio di milioni alla donna, richiesti da lei con insistenza. Inoltre sempre secondo le indagini c’era un gruppetto di quattro persone che aiutarono concretamente la coppia a trasportare e occultare il cadavere sino al monte Ciuto, cosa che la donna da sola non poteva oggettivamente fare, il quartetto era formato da un funzionario di polizia in pensione, un politico locale, un artigiano e un collaboratore della vittima, tutti questi verranno riconosciuti colpevoli e condannati a pene minori. Vi furono tre gradi di giudizio e nell’ultimo, presso la suprema corte di Cassazione, venne confermata la condanna a 26 anni per la donna a suo marito 15 anni, mentre agli imputati minori , quattro uomini, vennero date pene minori.