Anche il Piemonte non uscì
indenne dalla Guerra Civile ed ebbe le sue numerose vittime.
L'ex ospedale psichiatrico
di Vercelli
Una verità che si
vorrebbe cancellare dalla memoria ma che pesa come un macigno sulla
città di Vercelli.
Uscendo dal casello
autostradale di Vercelli si affronta la tangenziale ovest che porta
al centro cittadino, ai lati impianti industriali, autosaloni, si
svolta a destra e ci si immette in Via Trino e dopo un ponte di
modeste dimensioni a destra si nota una grande area boscosa, da cui
emergono dei fabbricati di colore grigio, rosso mattone, con degli
alti muri grigi e delle pesanti cancellate che cingono questo
perimetro.
Una piazza si apre di
fronte alla facciata scrostata dell'ingresso, ai lati del portoncino
due grandi cancelli sbarrati, come pure sono sbarrate le finestre con
delle vecchie serrande verdi.
Accanto a dei pini
giganteschi una minuscola lapide con un simbolo e con un nastrino
tricolore, circondata da un rettangolo di mattoni, tutto qui per
commemorare tante vite spezzate dall'odio ideologico. Sul lato di
sinistra accanto al muraglione grigio, vi sono decine di orticelli e
così pure sul lato posteriore, altri orti provvisori, una pineta e
una bassa vegetazione folta e rude che qui chiamano baraggia, sul
lato di sinistra del muro corre una stradina sterrata, dove la notte
si appartano le coppiette in cerca di intimità. Il sito è
abbandonato da tempo, a parte i gatti e pochi operai di qualche ente
locale, nessuno vi gira da anni.
Aggiro l'area dal retro
e trovo un piccolo varco nella rete metallica, a fatica, utilizzando
una vecchia scala ci entro. La vegetazione la fa da padrona, ovunque
alberi di alto fusto che nessuno pota da anni, a terra erba alta e
rovi, quelli che un tempo erano viali alberati sembrano prati incolti
e sono coperti dagli aghi di pino. In mezzo a tutto questo verde
invasivo si riconoscono una ventina di padiglioni in grande rovina,
la maggior parte di grandi dimensioni che avevano un tempo, usi
diversi: cucine, dormitori, magazzini, amministrazione e quant'altro.
Si respira un'aria di
abbandono di desolazione e di morte, infatti questo posto nel 1945,
era la caserma della 182° Brigata Garibaldina comandata da Giulio
Casolare affiancato da un commissario politico , Giovanni Baltare.
Soprattutto è l'epicentro di una strage avvenuta più di 70 anni fa,
tra l'11 e il 13 di maggio del 1945 a guerra finita, compiuta con
grande ferocia su 75 prigionieri appartenenti alla Repubblica.
Mi siedo su un muretto e
mi guardo attorno e raccolgo le idee, dopo la caduta della R.S.I. i
Fascisti di Vercelli , formano una colonna di circa 2000 unità, la
cosiddetta colonna Morsero, dal nome del Federale di Vercelli, e
muovono, ancora armati e inquadrati, verso Novara da cui proseguire
per Valtellina senza poterla raggiungere.
Giunti a Castellazzo
Novarese il 27 aprile, si arrendono alle formazioni partigiane del
Novarese comandate da un certo Moscatelli. Tutti vengono concentrati
per giorni nel Campo di calcio di Novara, in condizioni di igiene
precaria. Decine di Novaresi dalle case sovrastanti l'area
dell'impianto sportivo lanciano addosso ai poveretti rifiuti ed
escrementi senza che i partigiani di guardia intervengano a fermare
questa gogna crudele. Questa cosa va avanti sino al 12 maggio 1945,
quando un reparto della 182° Brigata Garibaldina, arriva inatteso e
pretende la consegna immediata dei prigionieri repubblichini che
avevano operato a Vercelli. Moscatelli tentò di opporre resistenza
alla inusuale richiesta poi , dopo un colloquio telefonico con
Moranino, consegnò i prigionieri. L'intenzione era quella di
liquidare i prigionieri prima dell'arrivo delle truppe Angloamericane
che non volevano lasciare autonomia decisionale ai combattenti
comunisti e non vedevano di buon occhio i cosiddetti tribunali del
popolo e le numerose esecuzioni sommarie che derivavano dai loro
giudizi.
Moranino, detto Gemisto,
un ex operaio comunista di Tollegno, comandava la piazza di Vercelli
e al comando di Biella c'era Ortona detto Lungo, laureato in legge e
di professione impiegato, entrambi comunisti di provata fede e
purtroppo entrambi futuri Parlamentari della repubblica Italiana.
Settantacinque
Repubblicani vengono caricati su un autobus e su un autocarro e
scortati sino all'ex Ospedale Psichiatrico di Vercelli, una dozzina
di prigionieri sono fucilati frettolosamente appena fuori dal campo
di calcio di Novara , poi la colonna prosegue e raggiunge il
manicomio di Vercelli intorno alle 19 .
Medici ed infermieri sono
obbligati ad allontanarsi mentre la violenza si scatena sui
prigionieri, depredati, spogliati e pestati a sangue all'interno di
un padiglione del manicomio, le cui pareti rimarranno macchiate a
lungo di sangue. L'unico che assiste parzialmente allo scempio è un
prete, il cappellano della struttura, Don Manzo, dopo aver dato
l'assoluzione ai morituri deve uscire anch'esso. Nessuno deve vedere
quello che accade.
Divisi in gruppi di 4 o
5, gli sventurati, inizia l'azione portata avanti dai gruppi di
fuoco, con una brutalità ed una ferocia da manuale : una quarantina
di fascisti vengono portati all'interno del palazzo comunale di
Albano Vercellese, dove subiscono il solito processo farsa, poi
allineati sul ponte di Greggio , uccisi a colpi di mitra e gettati
nel Canale Cavour.
Un gruppo portato a
Lazzirate e passato per le armi in un avvallamento, altri ancora
vivi, immobilizzati con del filo di ferro e distesi sul piazzale
antistante l'ingresso del Manicomio, schiacciati ripetutamente dalle
ruote di alcuni camion in modo tale da fargli perdere ogni fattezza
umana, ridotti ad informi mucchi di carne, altri ancora dati alle
fiamme e ancora agonizzati per le ustioni sepolti negli orti posti a
lato della recinzione.
All'alba del 13 aprile
1945, lo scempio era concluso, solo una decina di prigionieri era
ancora in vita. Stranamente fu risparmiata loro la vita e furono
tradotti al vecchio carcere di Vercelli.
La Questura di Vercelli
ha quantificato , al ribasso, in cinquantuno il numero delle vittime
del massacro, di 27 il numero degli esecutori materiali e di due i
responsabili di questa strage.
Questo eccidio,
completamente inutile e di matrice sadica, di cui si conoscevano i
responsabili colpì enormemente l'opinione pubblica, anche quella che
aveva collaborato con la Resistenza, infatti questi militari
repubblichini avevano completamente cessato di essere di ostacolo
alla lotta contro il Fascismo, essendo terminato di fatto l'essere
della Repubblica Sociale.
A margine dell'eccidio
vanno registrati alcuni comportamenti singolari dei partigiani
comunisti, con una difformità di trattamento a seconda dei
prigionieri, o meglio a seconda della classe sociale di appartenenza:
per esempio un caporione partigiano si innamorò di una ragazza che
ricopriva il grado di ufficiale delle Ausiliarie, la fece liberare e
quindi la sposò, la donna era figlia di un grande imprenditore della
zona, alla cui morte il partigiano ereditò una fortuna.
Ma non era finita ,
quattro importanti gerarchi fascisti, alti ufficiali delle Brigate
Nere e della Guardia Nazionale repubblicana, evitarono per una ben
strana scelta ,il plotone di esecuzione, mentre la furia omicida dei
boia comunisti si scatenò indiscriminata sui semplici gregari, sulla
bassa forza, su tanti giovani e giovanissimi che nella maggior parte
scelsero la R.S.I. non per convinzione ma più semplicemente per
necessità, volarono solo gli stracci come al solito. Molte vittime
erano giovanissimi delle Fiamme Bianche, dei plotoni di Onore che con
i combattimenti avevano ben poca pratica, quasi tutti classe 1922 –
23 che al momento dell'eccidio avevano da poco passato i vent'anni.
Gli elementi più violenti e più feroci agirono quella notte, in
un'orgia di sangue orrenda.
Sin dal 1946 alcuni
giornali locali si interessarono all'eccidio, ovviamente non
quotidiani di partito, Il Popolo Nuovo, l'Eusebiano e La Verità,
attraverso delle inchieste giornalistiche molto precise e
approfondite, divulgando senza filtri, quello che era accaduto
all'interno e nei pressi del Manicomio. Furono inchieste molto
coraggiose, per il periodo storico e perchè Vercelli era una città
decisamente comunista, ci furono infatti dei tentativi di tacitare
questi media, anche con l'intervento di alcuni parlamentari del
P.C.I. Nel 47 i responsabili della strage vennero indagati e
perseguiti, nel 1948 furono rinviati a giudizio per il reato di
omicidio continuato ed aggravato. Nel frattempo Moranino e Ortone
furono eletti al Parlamento della repubblica nel Gruppo Parlamentare
del P.C.I..
Nel 1953 la Procura
della Repubblica di Torino presenta domanda di autorizzazione a
procedere nei confronti dei due Parlamentari con l'accusa di omicidio
continuato aggravato. Tuttavia nessuno fu toccato a livello penale,
se non per un'altra strage, quella della missione Strassera avvenuta
nel 1944, a Portula sulle Alpi Biellesi. Un eccidio, questa volta non
di Fascisti, ma bensì di cinque esponenti della resistenza non
comunisti e di agenti operativi dell'O.S.S., oltre chè di due donne
sposate con le vittime.
Ci furono delle indagini
e l'On. Moranino processato in contumacia e condannato all'ergastolo
per sette omicidi, dovette fuggire dall'Italia in Cecoslovacchia,
dove fece per qualche anno lo speaker a Radio Praga in funzione anti
Italiana. Una strana coincidenza fu che sin dal 1953 proprio a Praga,
si addestrarono molti futuri brigatisti rossi che poi avrebbero
compiuto azioni terroristiche in Italia. In seguito Gemisto ebbe una
riduzione della pena , poi nel 1965 il Presidente Saragat lo graziò
e nel 1968 rientrò in Italia dove venne rieletto al parlamento con i
resti. Nel 1971 morì per un infarto.
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