domenica, gennaio 01, 2017

Era mio padre

Era mio padre

Stefano mio padre, nasce nel settembre del 1922 da una famiglia di umili origini, genitori e due fratelli maschi e una sorella, Antonio detto Ninno, Nicolò detto Culin, lui detto Stefanin e Renata detta Momò.
Culin diventerà in futuro, negli anni 60 e 70, un boss del contrabbando di sigarette, citato anche in alcuni libri di storia locale con il nomignolo di Pippo, Momò farà l'ausiliaria presso una RSA mentre Ninno e mio padre, Stefano, faranno i camalli nel porto di Savona guadagnandosi da vivere con il sudore della fronte, caricando e scaricando navi, una dietro l'altra.
Una famiglia molto unita, guidata da una donna, rimasta vedova a cinquant'anni , Anita, detta Nita, che riusciva a mantenere la famiglia portando in giro il carretto con i pesci, per le vie di Savona. Era una persona caratteristica, il suo grido era famoso “ Donne, pesci freschi !”.
Il pesce era davvero fresco e buono e la Nita, vestita sempre di nero, con una crocchia di capelli sulla testa e le mani nodose e piene di calli, guadagnava quello che serviva per vivere. Ovviamente nessuno dei suoi figli andò oltre la quinta elementare, non c'era tempo per studiare ma solo per lavorare.
Scoppia la guerra e mio padre viene richiamato dalla Regia Marina, imbarcato come cannoniere “armarolo”, su alcune navi da battaglia, affonda al largo della Sardegna, sul Regio Incrociatore Trieste, viene recuperato, più morto che vivo, dopo alcune ore di galleggiamento fra i corpi smembrati dei suoi commilitoni.
Termina la guerra in campo inglese di prigionia a Malta, vita dura, bastonature e fame tanta fame. Ma Stefano è un tipo duro, sopravvive e nel 1945, smobilitato, torna in Patria a Savona, dove trova tanti opportunisti che hanno scelto, al momento opportuno di cambiare bandiera e di diventare “patrioti” e soprattutto di rimanere sulla cresta dell'onda per continuare a fare quello che facevano prima: vivere a spese degli altri. Lui non si è mai interessato di politica e tale vuole continuare a fare.
A Savona non c'è lavoro a meno che non hai la tessera del PCI, Stefano per qualche mese fa quello che fanno un po tutti, traffica in sigarette di contrabbando, poi fa qualche giornata al porto di Savona come avventizio e, finalmente nel 1948, entra nei ruoli e diventa socio, assieme a suo fratello Ninno.
Riesce a non farsi intruppare dai comunisti, ma riceve minacce e intimidazioni, che gli arrivavano alle spalle e mai davanti, visto che non era un tipo con cui scherzare senza beccarsi qualche cazzotto nei denti.
Intanto Culin rimane nel giro del traffico di sigarette, sale di livello, organizza sbarchi di “casse” sulla costa ligure e quando gli va bene, realizza guadagni enormi frodando lo Stato, va da sé che la Guardia di Finanza gli dia una caccia spietata con l'intento di agguantarlo, cosa che qualche volta accade, fra una cosa è l'altra sconterà 9 anni di “collegio”..
Mio padre continua a lavorare al porto, si da da fare con mia madre e nel gennaio del 1950, nasco io. La sua vita è fatta solo di casa e lavoro oppure lavoro e casa, un uomo non acculturato ma lesto e sveglio, Andava a lavorare, sapendo quando iniziava ma senza sapere quando avrebbe finito. Essendo gagliardo e bello, piaceva molto alle donne, ma non aveva il tempo o la voglia per rincorrerle.
Mi ricordo le sue uscite di casa, in estate con una canottiera, un paio di “dongari” e un mandillo sulla testa, saliva sulla sua bicicletta e pedalava verso il cancello del porto, come lui centinaia di camalli. Raramente l'ho visto sorridere, aveva fama di essere uomo duro e forte, ma disponibile ad ascoltare, tra i suoi compagni di lavoro godeva di rispetto e considerazione, visto che non si era mai venduto ai comunisti, infatti i suoi colleghi con tessera della falce e martello, divenivano capisquadra e lui era sempre un camallo e basta.
Faceva ore su ore, anche con la febbre andava a lavorare perchè la sua fibra fortissima glie lo permetteva. Avevo 13 anni, nel 1963, quando ebbe un incidente sul lavoro, cadde in una stiva che avevano appena svuotato, fece un volo di una dozzina di metri. Femori, tibie, peroni fratturati in modo scomposto. Andò incontro a una decina di interventi chirurgici che negli anni lo rimisero insieme. Camminava ancora, ma zoppicando, non era quello di prima.
Ricordo la sua sofferenza nel letto d'ospedale e il suo modo calmo di affrontarla, con tranquilla forza. Stefano era mio padre, ma forse era qualcosa di più, un modello da guardare e seguire pur con qualche miglioria, un amico forte che ti guardava senza parlare quando affrontavo i miei esami, uno che aveva superato già le sue prove e ti osserva a mentre io facevo i miei esami.
Se ne andò a 80 anni, mentre gli facevo fare dei movimenti passivi per combattere l'atrofia degli arti inferiori, mi guardava mentre mi affacendavo attorno a lui, vidi il suo sguardo allontanarsi, come se volesse uscire e perdersi nella camera a cercare una più ampia libertà, l'aveva trovata.


Roberto Nicolick

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