Era mio padre
Stefano mio padre, nasce
nel settembre del 1922 da una famiglia di umili origini, genitori e
due fratelli maschi e una sorella, Antonio detto Ninno, Nicolò detto
Culin, lui detto Stefanin e Renata detta Momò.
Culin diventerà in
futuro, negli anni 60 e 70, un boss del contrabbando di sigarette,
citato anche in alcuni libri di storia locale con il nomignolo di
Pippo, Momò farà l'ausiliaria presso una RSA mentre Ninno e mio
padre, Stefano, faranno i camalli nel porto di Savona guadagnandosi
da vivere con il sudore della fronte, caricando e scaricando navi,
una dietro l'altra.
Una famiglia molto unita,
guidata da una donna, rimasta vedova a cinquant'anni , Anita, detta
Nita, che riusciva a mantenere la famiglia portando in giro il
carretto con i pesci, per le vie di Savona. Era una persona
caratteristica, il suo grido era famoso “ Donne, pesci freschi !”.
Il pesce era davvero
fresco e buono e la Nita, vestita sempre di nero, con una crocchia di
capelli sulla testa e le mani nodose e piene di calli, guadagnava
quello che serviva per vivere. Ovviamente nessuno dei suoi figli andò
oltre la quinta elementare, non c'era tempo per studiare ma solo per
lavorare.
Scoppia la guerra e mio
padre viene richiamato dalla Regia Marina, imbarcato come cannoniere
“armarolo”, su alcune navi da battaglia, affonda al largo della
Sardegna, sul Regio Incrociatore Trieste, viene recuperato, più
morto che vivo, dopo alcune ore di galleggiamento fra i corpi
smembrati dei suoi commilitoni.
Termina la guerra in
campo inglese di prigionia a Malta, vita dura, bastonature e fame
tanta fame. Ma Stefano è un tipo duro, sopravvive e nel 1945,
smobilitato, torna in Patria a Savona, dove trova tanti opportunisti
che hanno scelto, al momento opportuno di cambiare bandiera e di
diventare “patrioti” e soprattutto di rimanere sulla cresta
dell'onda per continuare a fare quello che facevano prima: vivere a
spese degli altri. Lui non si è mai interessato di politica e tale
vuole continuare a fare.
A Savona non c'è lavoro
a meno che non hai la tessera del PCI, Stefano per qualche mese fa
quello che fanno un po tutti, traffica in sigarette di contrabbando,
poi fa qualche giornata al porto di Savona come avventizio e,
finalmente nel 1948, entra nei ruoli e diventa socio, assieme a suo
fratello Ninno.
Riesce a non farsi
intruppare dai comunisti, ma riceve minacce e intimidazioni, che gli
arrivavano alle spalle e mai davanti, visto che non era un tipo con
cui scherzare senza beccarsi qualche cazzotto nei denti.
Intanto Culin rimane nel
giro del traffico di sigarette, sale di livello, organizza sbarchi di
“casse” sulla costa ligure e quando gli va bene, realizza
guadagni enormi frodando lo Stato, va da sé che la Guardia di
Finanza gli dia una caccia spietata con l'intento di agguantarlo,
cosa che qualche volta accade, fra una cosa è l'altra sconterà 9
anni di “collegio”..
Mio padre continua a
lavorare al porto, si da da fare con mia madre e nel gennaio del
1950, nasco io. La sua vita è fatta solo di casa e lavoro oppure
lavoro e casa, un uomo non acculturato ma lesto e sveglio, Andava a
lavorare, sapendo quando iniziava ma senza sapere quando avrebbe
finito. Essendo gagliardo e bello, piaceva molto alle donne, ma non
aveva il tempo o la voglia per rincorrerle.
Mi ricordo le sue uscite
di casa, in estate con una canottiera, un paio di “dongari” e un
mandillo sulla testa, saliva sulla sua bicicletta e pedalava verso il
cancello del porto, come lui centinaia di camalli. Raramente l'ho
visto sorridere, aveva fama di essere uomo duro e forte, ma
disponibile ad ascoltare, tra i suoi compagni di lavoro godeva di
rispetto e considerazione, visto che non si era mai venduto ai
comunisti, infatti i suoi colleghi con tessera della falce e
martello, divenivano capisquadra e lui era sempre un camallo e basta.
Faceva ore su ore, anche
con la febbre andava a lavorare perchè la sua fibra fortissima glie
lo permetteva. Avevo 13 anni, nel 1963, quando ebbe un incidente sul
lavoro, cadde in una stiva che avevano appena svuotato, fece un volo
di una dozzina di metri. Femori, tibie, peroni fratturati in modo
scomposto. Andò incontro a una decina di interventi chirurgici che
negli anni lo rimisero insieme. Camminava ancora, ma zoppicando, non
era quello di prima.
Ricordo la sua sofferenza
nel letto d'ospedale e il suo modo calmo di affrontarla, con
tranquilla forza. Stefano era mio padre, ma forse era qualcosa di
più, un modello da guardare e seguire pur con qualche miglioria, un
amico forte che ti guardava senza parlare quando affrontavo i miei
esami, uno che aveva superato già le sue prove e ti osserva a mentre
io facevo i miei esami.
Se ne andò a 80 anni,
mentre gli facevo fare dei movimenti passivi per combattere l'atrofia
degli arti inferiori, mi guardava mentre mi affacendavo attorno a
lui, vidi il suo sguardo allontanarsi, come se volesse uscire e
perdersi nella camera a cercare una più ampia libertà, l'aveva
trovata.
Roberto Nicolick
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