domenica, gennaio 29, 2017

Il lager di Bogli ( Piacenza )

Il lager di Bogli ( Piacenza)

Il nome di Bogli non dice proprio nulla a nessuno, almeno in questi ultimi anni. E’ una piccolissima frazione del Comune di Ottone, in provincia di Piacenza, in un punto strategico, ad una altezza di circa mille metri di altezza, alla confluenza di ben quattro regioni , Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia.
La strada che lo raggiunge sale stretta e tortuosa, piena di buche che fanno sobbalzare le ruote dell’auto. In inverno il clima è gelido con frequenti nevicate, la popolazione nel freddo, anzi nel gelo, viene indicata in sole quattro unità, mentre in estate il paese cambia aspetto e molti nativi ritornano e amano trascorrere le serate nell’unica osteria del paese che è sempre piena di avventori.
L’abitato appare come un pugno di case dall’aspetto antico, sito in una valle chiusa a mò di catino, con una Chiesa posta in posizione sopraelevata ornata di un campanile con il tetto a cipolla.
Il paesello è formato da circa una trentina di costruzioni, quasi tutte disabitate, più un complesso di tre costruzioni ad un solo piano con annessi grandi lavatoi , posizionati ad una certa distanza dal borgo, circondati da un canneto, questo ultimo nucleo di fabbricati, bassi e cupi è o meglio era il campo di concentramento per prigionieri fascisti gestito dai partigiani comunisti.
Queste case diroccate a qualcuno degli abitanti o dei pochissimi reclusi sopravvissuti, ricordano orrori che si pensava sopiti nei decenni : Bogli, infatti, ha ospitato per tutto il 1944, un lager gestito da un gruppo di partigiani della brigata Chicero, che operava nella Valle Scrivia alle spalle di Genova.
In esso venivano internati militari della R.S.I., soldati Tedeschi, presunti collaborazionisti, e anche donne, grazie a Dio, poche. Era in buona sostanza un campo di eliminazione fisica.
Non era l’unico campo dove si era sicuri di entrare ma non di uscirne, un altro gulag famigerato, era situato a Rovegno, in un grande e articolato fabbricato, nel mezzo di una foresta che un tempo ospitava una grande colonia, voluta dal Regime Fascista, nell’alta Valle Trebbia. Rovegno ospitava centinaia di prigionieri mentre Broglio era una piccola nicchia di ferocia e malvagità.
I poveretti che venivano catturati dai partigiani, a cui venivano sottratte le scarpe per impedirgli di fuggire, dovevano affrontare lunghe marce di avvicinamento al campo di Bogli, lungo sentieri pieni di sassi e spesso nella neve, spronati da legnate che i loro guardiani gli assestavano con malcelato sadismo
Ai militari repubblichini reclusi veniva tolta la divisa, in cambio di stracci sporchi e laceri, anche le scarpe oltre agli effetti personali, erano requisite dai partigiani rossi , quindi nessuno poteva neppure lontanamente pensare di scappare. I pestaggi erano giornalieri e senza alcuna ragione
Le poche donne che erano a Brogli, dopo essere state rapate, subivano violenze di gruppo e dopo queste lunghe violenze venivano ammazzate senza pietà.
Infatti Brogli non era solo un capo di prigionia ma anche un campo di eliminazione, quindi chi vi veniva portato era sicuro che sarebbe stato picchiato e torturato e in quel posto avrebbe concluso la propria esistenza dopo inaudite sofferenze.
Visto che tutti i prigionieri erano destinati ad essere eliminati, il cibo era scarsissimo, solo qualche pezzo di pane raffermo e qualche cucchiaio di riso andato a male, condito da vermi.
Le guardie del campo non erano solo Italiani, c’erano anche dei partigiani Russi, che facevano a gara a manifestare crudeltà, ma chi veramente era uno psicopatico senza freni, era il “comandante” un giovane capo distaccamento di cui si conosce solo il nome di battesimo : Walter, nativo di Genova, che , evidentemente, odiava ferocemente i prigionieri e faceva di tutto per accrescere le loro ultime sofferenze.
Questo soggetto prediligeva immergerli a testa in giù nei lavatoi, colmi di acqua gelata sino a provocarne l’annegamento. Quando era stanco di torturarli, li trascinava in una costruzione che fungeva da caserma per i partigiani e lì c’era un processo farsa che durava pochi minuti poi il condannato era scortato in un bosco di castagni al di là di un corso d’acqua che era il luogo deputato alle esecuzioni sommarie, in quel posto avvenivano le sepolture. Questo è stato Brogli, un piccolo ma efficiente e tormentato gulag con il biglietto di sola andata.
Il campo funzionò per circa un anno e nel dicembre del 44, poi in seguito ad una grande offensiva Tedesca, venne evacuato in fretta e furia dal distaccamento partigiano che si ritirò portandosi dietro una dozzina di prigionieri superstiti per non lasciare testimoni delle atrocità compiute.
Fu un' altra marcia spaventosa per i prigionieri, in mezzo alla neve, senza capi di vestiario adeguati e senza scarpe, qualcuno di loro morì assiderato.
Il capo del campo, oltre ad essere un sadico assassino, era anche un ladro perché si portò via i soldi del distaccamento e dei suoi compagni di efferatezze.
Finalmente, per una specie di contrappasso, dopo tante malvagità compiute ed impunite, Walter fu arrestato nientemeno che dalla Gestapo, la famigerata Geheime Staatspolizei , la quale lo liquidò a sua volta. Pochissimi prigionieri repubblichini si salvarono dal Campo di Brogli e ancora oggi, quelli che hanno raggiunto la novantina, ricordano i ghigni dei criminali che agirono a Brogli e che popolano ancora i loro incubi.


Roberto Nicolick  

5 commenti:

  1. Non c'è liberazione senza verità.

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  2. Buongiorno. Sarei interessato alla fonte per potermi meglio documentare

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  3. Nomi? Cognomi? Date? Documenti? Fotografie? Rapporti? Relazioni?

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    1. Sei uscito dalla scuola comunista,vergognoso
      Valli a cercare in Siberia i nomi ,i cognomi e i documenti di cui parli.
      La diabilica bandiera rossa degli stermini,satanica e maledetta.

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  4. Consiglio la lettura del libro di Gian Paolo Pansa "I nostri giorni proibiti"

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Cesare B Cairo Montenotte 13 agosto 1987 Questo omicidio non ebbe risonanza mediatica solo nella provincia di Savona ma anche a livello nazionale e non solo. Con questo delitto dai risvolti intricati, il piccolo centro della Valle Bormida assurse alla ribalta delle cronache nazionali. Fu una vicenda contorta e ingarbugliata, con chiari e scuri, con frequenti colpi di scena, dove tutto quello che sembrava come tale , in realtà non era come appariva, era come un teatrino in cui entravano ed uscivano attori sempre diversi con ruoli criptici. Una storia di sangue, di soldi e ovviamente di sesso, che coinvolse l’opinione pubblica con tutti i suoi numerosi protagonisti, offrendo all’occhio impietoso della gente una immagine, purtroppo veritiera, della piccola provincia, delle ipocrisie che nascono tuttora all’ombra dei campanili, delle storie extraconiugali che venivano nascoste ma che prosperavano e che si protraevano nel tempo spesso con un doloroso epilogo. Da questa vicenda si fece pure un film noir con Monica Guerritore come protagonista. Per una dei protagonisti della vicenda, forse la principale, si coniò un soprannome: la mantide di Cairo Montenotte, facendo riferimento all’abitudine dell’omonimo insetto femmina che uccide il partner maschio dopo il rapporto sessuale. Le vite di molte persone, coinvolte a vario titolo nelle indagini, furono rivoltate come calzini, molti particolari, soprattutto, intimi vennero messi in piazza e non solo nelle aule di tribunali. Ancora oggi, nonostante la conclusione giudiziaria con una colpevole condannata in via definitiva, molti dubbi sussistono , soprattutto nella gente del posto che conosceva benissimo i protagonisti della vicenda. La storia ebbe inizio con una improvvisa scomparsa di un uomo, Cesare B, classe 1931, noto personaggio e notabile della Valle Bormida, consigliere comunale di Cairo Montenotte, facoltoso farmacista, con la passione prima per l’equitazione e poi per il calcio. Egli è il patron della squadra calcistica locale, la Cairese, che segue con grande passione e che sponsorizza a livello economico dando la possibilità alla squadra di effettuare trasferte e di avere giocatori di spicco. Come tutti gli uomini , Cesare B, nonostante fosse sposato e quindi tenesse famiglia, amava frequentare le donne, quelle belle. Egli conosce e inizia a frequentare una donna , Gigliola G, molto graziosa , di corporatura minuta, con una caschetto di capelli biondo, grazie al suo fascino magnetico, lei sapeva affascinare e sedurre gli uomini nella loro fantasia. Di professione fa la gallerista, esponeva e vendeva quadri, nel centro di Cairo. Tuttavia la donna era nata professionalmente come infermiera, aveva anche svolto la professione sanitaria in un orfanotrofio e quindi in una fabbrica a sempre Savona , la Magrini, in quel contesto lavorativo si era sposata con un metronotte da cui ha 2 figli. In seguito contrarrà altri due matrimoni, avrà un’altra figlia, e avvierà altre relazioni . Fra l’altro la donna in prima istanza si chiamava Anna Maria, mutato successivamente nell’attuale Gigliola. Fra Cesare e Gigliola, nasce una relazione amorosa che si protrae, Cesare provvede a tutte le necessità economiche della donna, paga senza fare domande per tutto quello che gli viene chiesto. I pettegolezzi su questa relazione si sprecano considerando anche il fatto che cesare è un uomo molto conosciuto e stimato e che entrambi vivono in un paese dove la gente "mormora". Dunque il 12 agosto del 1987 , il farmacista scompare senza lasciare traccia. Da qui si sviluppa una storia complicatissima, il suo corpo in parte carbonizzato viene trovato sul monte Ciuto, una altura nelle adiacenze di Savona. Effettuato il riconoscimento grazie ad un portachiavi metallico che riporta il simbolo dell'ordine dei farmacisti, alle protesi dentali e alle lenti degli occhiali. Brin era di corporatura massiccia, per ucciderlo, trasportarlo sino a quel sito ci sono volute sicuramente più di una persona. La prima indiziata è la sua amica, Gigliola G, la quale sostiene che responsabili dell’omicidio e poi dell’occultamento furono due personaggi provenienti da Torino con cui l’uomo aveva delle pendenze economiche in corso. Secondo la sua versione nacque una colluttazione tra i due e il farmacista ne uscì pesto e sanguinante, quindi i due aggressori trascinarono via l’uomo. La donna non portò elementi oggettivi a sostegno della sua tesi e quindi venne arrestata e rinviata a giudizio. Un minuscolo frammento di teca cranica venne trovato sulle scale della casa della gallerista e alcune macchie di sangue erano sui muri della camera da letto della casa della Gigliola, dove in effetti viveva di fatto anche il Brin. Secondo gli inquirenti la responsabile principale dell’omicidio fu proprio lei che in concorso con il suo convivente, Ettore G, uccise con un corpo contundente sul capo, un martello o un altro soprammobile, l’uomo nella notte fra il 12 e il 13 di agosto dell’87 mentre egli era disteso inerme nel letto, infatti i fendenti sono chiaramente dall’alto verso il basso, il delitto è avvenuto d’impeto come risultato di tutta una serie di contrasti anche su questioni a carattere economico, che sarebbero alla lunga sfociati in una separazione, forse l’uomo aveva in progetto di tornare dalla propria famiglia e in questo caso veniva a mancare per la gallerista una fonte di reddito. Pare anche che il farmacista avesse rifiutato un prestito di un centinaio di milioni alla donna, richiesti da lei con insistenza. Inoltre sempre secondo le indagini c’era un gruppetto di quattro persone che aiutarono concretamente la coppia a trasportare e occultare il cadavere sino al monte Ciuto, cosa che la donna da sola non poteva oggettivamente fare, il quartetto era formato da un funzionario di polizia in pensione, un politico locale, un artigiano e un collaboratore della vittima, tutti questi verranno riconosciuti colpevoli e condannati a pene minori. Vi furono tre gradi di giudizio e nell’ultimo, presso la suprema corte di Cassazione, venne confermata la condanna a 26 anni per la donna a suo marito 15 anni, mentre agli imputati minori , quattro uomini, vennero date pene minori.