mercoledì, febbraio 18, 2009

IL SOMMO POETA NON GRADISCE I CONTI IN TASCA


Per il sommo poeta ci sarebbe un compenso cash (circa 350 mila euro) e/o l’esclusiva sui diritti dei materiali d’archivio, vale a dire i 691 minuti che comprendono tutte le apparizioni Rai di Benigni, dal famoso Woytilaccio alla palpazione di Baudo proprio sul palco dell’Ariston. A di là dei contanti, il passaggio sarebbe epocale. Se la Rai perdesse i suoi diritti e creasse quindi un precedente contrattuale sulle sue cosiddette «teche» (gli archivi filmati che hanno un valore storico e televisivo immenso), si aprirebbe la strada anche per analoghe richieste di altri artisti. Un arrembaggio che svuoterebbe la tv di Stato di uno dei suoi valori fondanti: essere l’unico depositario di un tesoro che racconta la storia e il costume dell’Italia del Novecento.

Dopo la sua ben pagata sceneggiata, il sommo poeta vola a Montecarlo, in un hotel esclusivo a 5 stelle, strano per l'attore piu' rosso d'italia!!!

Tuol Sleng: il campo di prigionia dove i Kmer rossi gareggiavano con i nazisti


PHNOM PENHDouch, il professore di matematica, per quaranta mesi sterminò tutta la classe intellettuale cambogiana con rigore scientifico, dentro il liceo di Tuol Sleng, nel cuore della capitale Phnom Penh, impegnato in un teorema personale di algebra degenerata. La sua voce è bassa, rispettosa, ma nello stesso tempo si snoda senza incertezze e soggezione. Sembra stia recitando un mantra, una preghiera buddista, invece incide la colonna sonora di un incubo ancora carico di interrogativi. E il suo aspetto mite, anonimo, quasi gracile, in nessun modo si concilia con il ruolo del carnefice. Tra il 1975 e l’inizio del 79, durante il regime tenebroso e maniacale di Pol Pot, due milioni di uomini e donne, quasi un terzo della intera popolazione, furono brutalmente eliminati. In mezzo a loro oltre diciassettemila cambogiani - quadri del partito, diplomatici, monaci buddisti, ingegneri, medici, professori, studenti, artisti della antichissima tradizione nazionale di musiche e danze - entrarono nella scuola trasformata in centro di tortura. Solo sei ne sono usciti vivi. Gli altri furono portati alla periferia della città e uccisi in una risaia. Di notte. Uccidere con il buio era una ossessione degli uomini con il pigiama nero, ovunque.Douch è il soprannome scelto da giovane quando entrò nella guerriglia. Il vero nome è Kang Khek Ieu. Dopo la caduta dei khmer rossi il carnefice si era mescolato con i suoi compatrioti, tra campi profughi e villaggi di provincia, scomparso come tanti nel caos del dopoguerra, inghiottito dal nulla. Si era convertito al cristianesimo attraverso i missionari della Golden West Christian Church di Los Angeles. La sua vera identità è stata scoperta nel '98, e in breve tempo i soldati lo hanno arrestato. Dopo la morte di Pol Pot e di Ta Mok, il «macellaio» zoppo, resta il testimone più inquietante della follia politica progettata dai khmer rossi. Oggi è custodito nella prigione dell’Onu, a Phnom Penh, in attesa che si apra dopo trenta anni e infiniti rinvii il processo ai khmer rossi per genocidio. Ma per oltre otto anni, dopo la cattura, è stato in un carcere cambogiano, controllato dai militari del suo Paese. Questa è l’unica intervista autorizzata in tutto il periodo di detenzione. Senza registratore, senza macchina fotografica, senza parlare direttamente con lui in francese o in inglese, ma con la mediazione obbligata di un interprete cambogiano. Il generale Neang Phat, segretario di Stato, e altri generali sono seduti nella stessa stanza, ascoltano e scrutano questo uomo indefinibile e inafferrabile, che alcuni di loro vedono per la prima volta. Douch è il ritratto perfetto della banalità e della innocenza del male.Quando era stato creato il centro di tortura dentro il liceo di Tuol Sleng?«Il 15 agosto 1975, quattro mesi dopo l’ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh. Ma cominciò a funzionare effettivamente solo nel mese di ottobre».Lei è stato il responsabile fino dall’inizio?«Sono stato chiamato con l’incarico preciso di crearlo, di metterlo in funzione. Anche se non ho mai saputo perché la scelta fosse caduta su di me. Certo, prima del ‘75, quando i khmer rossi vivevano nella clandestinità, nella giungla, nelle zone liberate, io ero il capo dell’Ufficio 13, ero il responsabile della polizia nella zona speciale confinante con Phnom Penh».Chi organizzava la vita nel centro, chi decideva i metodi degli interrogatori?«Quelli che interrogavano venivano in parte dall’Ufficio 13, erano uomini che avevano lavorato con me, ex quadri dell’organizzazione. E poi c’erano quelli provenienti dalla divisione 703, militari, gente che usava violenza e brutalità. Si può dire che i carcerieri erano di due tipi. Quindi il personale della prigione in gran parte non era reclutato da me».Come si svolgeva la sua giornata in quel luogo?«Ogni giorno dovevo leggere, controllare le confessioni. Facevo questa lettura dalle sette di mattina a mezzanotte. E ogni giorno, verso le tre del pomeriggio, mi chiamava il professor Son Sen, il ministro della difesa. Lo conoscevo da quando insegnavo al liceo. Era lui che mi aveva chiesto di unirmi alla guerriglia. Mi chiedeva come procedeva il lavoro».E poi?Arrivava un messaggero, un emissario, che raccoglieva le confessioni pronte e le portava a Son Sen. Lei sa che i khmer rossi avevano svuotato le città. Non c’era popolazione urbana, le scuole erano chiuse, gli ospedali chiusi, le pagode vuote, le strade vuote. Solo pochissime persone potevano muoversi. Questi messaggeri erano gli unici collegamenti tra un ufficio e un altro. La sera non dormivo a Tuol Sleng. Avevo varie case, e per ragioni di sicurezza dormivo ogni notte in un luogo diverso».Lei ha avuto momenti di incertezza, dubbi, sentimenti di ribellione mentre sterminava tutta la classe intellettuale del suo paese?«Per capire quel mondo, quella mentalità, lei deve tenere presente che la pena capitale è sempre esistita in Cambogia». Anche nei bassorilievi dei templi di Angkor Wat ci sono scene di massacri orrendi, ma erano state scolpite molti secoli fa.«Certo i capi dei khmer rossi avevano studiato alla Sorbona a Parigi, non erano selvaggi incolti. Ma a Tuol Sleng comunque c’era una convinzione diffusa e tacita, che non aveva bisogno di indicazioni scritte. Io, e tutti quelli che lavoravano in quel luogo, sapevamo che chi entrava lì dentro doveva essere demolito psicologicamente, eliminato con un lavoro progressivo, non doveva avere scampo. Qualsiasi risposta non serviva per evitare la morte». Sopra di lei qualcuno chiedeva il suo parere?«Quei metodi non mi convincevano da quando lavoravo all’Ufficio 13. Ma allora, se vuole, c’era il pretesto della lotta rivoluzionaria, della clandestinità, l'idea di neutralizzare le spie infiltrate, o quelle che potevano essere spie. Poi quando è cominciato il lavoro a Tuol Sleng ogni tanto chiedevo ai miei capi: ma dobbiamo usare tutta questa violenza? Son Sen non rispondeva mai. Nuon Chea, il Fratello numero due nella gerarchia del potere, che stava sopra di lui, invece mi diceva: non pensare a queste cose. Personalmente non avevo risposte. Poi con il passare del tempo ho capito: era Ta Mok (considerato da tutti il più sanguinario dei khmer rossi) che aveva ordinato di eliminare tutti i prigionieri. Vedevamo nemici, nemici, nemici dappertutto. Quando scoprii che nella lista delle persone da eliminare c'era anche Von Vet, il ministro dell’economia, rimasi veramente sconvolto, scioccato».Lo interrompe con rabbia il generale Neang Phat, fino a quel momento composto e taciturno. Si toglie le scarpe, le calze, gli mostra i segni delle torture che ha ancora oggi sulle gambe, a distanza di oltre trenta anni. «Eravamo quattromila uomini nel mio gruppo, siamo sopravvissuti in quattro. E per salvarci siamo dovuti scappare oltre confine. Voi invece avete continuato a torturare ed uccidere». Tacciono gli altri militari. Tace l'interprete. Suo padre era l’ambasciatore cambogiano in Cina, il Paese grande protettore di Pol Pot. Fu richiamato in patria e morì a Tuol Sleng, amministrato da quel piccolo uomo a piedi scalzi che adesso gli sta davanti. Douch risponde al generale, la sua voce riprende fiato, si esprime in modo concitato. Poi congiunge le mani, si piega in avanti, nel gesto dei monaci buddisti, sul viso si disegna un sorriso. In Cambogia e in molte regioni d'Oriente sorridere è un gesto di dolcezza, di cortesia, ma anche di ambiguità, di imbarazzo a volte di autentica perfidia. Questa stanza rettangolare, silenziosa, pulita, bene ammobiliata, è piena di incubi. Fuori è una bellissima giornata di sole e di clima mite. Che cosa provava davanti a quel numero crescente di vittime che lei contribuiva ad alimentare?«Ero spinto in un angolo, come tutti in quel meccanismo, non avevo alternativa. Nella confessione di Hu Nim, il ministro dell’informazione, uno dei grandi dirigenti khmer, anche lui arrestato, c’era scritto che la sicurezza in una certa zona era garantita, bene assicurata. Ma Pol Pot, il Fratello numero uno, il capo di tutto, non era soddisfatto per questa affermazione, era troppo normale, bisognava sospettare sempre, temere qualcosa. E quindi arrivava la solita richiesta: interrogateli ancora, interrogateli meglio».Che significava solo una cosa, nuove torture. «Succedeva così. Per esempio nel caso di mio cognato. Lo conoscevo bene, si erano creati sinceri legami di parentela, ma dovevo egualmente eliminarlo, sapevo che era una brava persona ma invece dovevo fingere di credere a quella confessione estorta con la violenza. Così per proteggerlo non avevo analizzato con troppo rigore quelle dichiarazioni. E in quella stessa occasione i superiori avevano cominciato a non avere più fiducia piena in me. Contemporaneamente non mi sentivo più sicuro».In concreto cosa era successo?«Un giorno mi telefonano alle cinque di mattina. Quello per noi non era un orario normale. Mi dicono che sono convocato per una riunione nell’ufficio dei messaggeri. Come ho detto prima quello era un centro molto importante nel sistema di potere creato da Pol Pot, erano gli unici che potevano muoversi. Nemmeno i diplomatici delle pochissime ambasciate rimaste aperte avevano libertà di movimento. Mandavano qualcuno in strada, chiamavano il soldato che stava lì vicino, quello ascoltava e poi andava a riferire».Una impossibilità totale di movimento.«Erano state eliminate le comunicazioni telefoniche nel Paese, non esisteva più il servizio postale. Tutte le direttive arrivavano e tornavano indietro attraverso questi messaggeri, questi corrieri, nelle strade vuote una persona veniva notata subito».E allora quel giorno della telefonata?«Alle cinque di mattina prendo una motocicletta e vado vicino alla stazione ferroviaria, appunto dove si trovava quell'ufficio. Vedo una luce accesa in una casa. Ho pensato che fosse arrivata anche per me l’ora di essere eliminato. Trovavano sempre qualche accusa infondata. E invece lì mi dicono: deve venire da voi un messaggero, quando arriva arrestatelo e poi cominciate con gli interrogatori».Lei ha mantenuto il suo incarico fino all'ultimo. Era un esecutore perfetto?«Obbedivo, chi arrivava da noi non aveva possibilità di salvezza. E io non potevo liberare nessuno».Fino a quando ha continuato a funzionare il campo di Tuol Sleng?«Fino al sette gennaio 1979, quando le forze di liberazione cambogiane appoggiate dai vietnamiti hanno conquistato Phnom Penh. In quel momento il mio superiore era Nuon Chea, il Fratello numero due».Non esisteva un piano per l’emergenza, non c’era il timore che ormai gli oppositori avessero forze sufficienti per far cadere il regime?«Non c’era alcun piano in caso di fuga, di ritirata. Organizzammo tutto sul momento. Eravamo trecento uomini a Tuol Sleng. Tutti insieme ci dirigemmo a piedi verso la stazione della radio, che a quel tempo era in una zona piuttosto periferica. E da quel punto ci dividemmo in due gruppi, ognuno per la sua strada».Da quel momento lei scompare dalle cronache cambogiane, si perdono le sue tracce. E un giorno si converte al cristianesimo. Cosa la porta a quella decisione?«Mi sono convinto che i cristiani sono una forza, e che questa forza può vincere il comunismo. Al tempo della guerriglia io avevo venticinque anni, la Cambogia era corrotta, il comunismo era pieno di promesse, io ci credevo. Invece quel progetto è completamente fallito. Sono entrato in contatto con i cristiani nella città di Battambang, con la Golden West Christian Church, con il pastore Christopher LaPelle».Sembra un nome francese.«No, è un cambogiano. Si chiama Danath La Pel. Ha adottato quel nome per diffondere meglio il messaggio di Cristo nel mondo. All’inizio degli Anni 80 si è trasferito in America. E nel ‘92 è tornato in Cambogia, per aiutare i suoi compatrioti a trovare Cristo».Quindi lei non segue più gli insegnamenti del Bhudda, è un cristiano?«Sì».E padre Christopher conosceva la sua vicenda, il suo ruolo a Tuol Sleng? «All’inizio no, però dopo la conversione ho raccontato tutto».Gli altipiani dell’Indocina sono stati il santuario di Pol Pot, gli stessi luoghi quaranta anni dopo ospitano adesso le chiese dei missionari cristiani.«Significa che anche altri hanno fatto la mia scelta».Lei oggi è pentito, ma tutte quelle migliaia di vittime, quella violenza con metodi primitivi, quelle menzogne trasformate in verità?«Se uno cerca la responsabilità, e i diversi gradi di responsabilità, io dico che non c’erano vie di fuga per chi entrava nella macchina del potere ideata da Pol Pot. Solo ai vertici conoscevano la vera situazione del Paese, ma i quadri intermedi non sapevano. E poi c'era quella ossessione della segretezza. Certo lei mi chiede se non potevo ribellarmi, almeno fuggire».Appunto.«Ma se tentavo di fuggire loro avevano in ostaggio la mia famiglia, e la mia famiglia avrebbe subito la stessa sorte degli altri prigionieri di Tuol Sleng. La mia fuga, la mia ribellione non avrebbe aiutato nessuno».Oggi non c’è un khmer rosso, anche tra i capi di quel regime, come Khieu Samphan o Jeng Sary, che ammetta di avere avuto colpe, responsabilità. Eravate tutti codardi allora, o siete tutti bugiardi oggi?Dalla bocca di Douch non esce alcuna parola. Dal fondo della sala qualcuno insistentemente dice che il tempo a disposizione è scaduto, che è arrivata l’ora del pranzo per il prigioniero. Il pretesto più banale, più burocratico, per interrompere il racconto del carnefice. Douch, il seguace di Pol Pot, e oggi seguace di Cristo, congiunge le mani, si inchina, e si allontana. La scodella di riso è pronta. L’ora della giustizia per il genocidio della Cambogia invece aspetta da trenta anni.
da La Stampa








martedì, febbraio 17, 2009

45.000 VISITE A QUESTO BLOG


Ringrazio tutti coloro che hanno visitato, stanno visitando e visiteranno questo blog, che ha superato 45.000 visite...
trasformandolo in un opinionista autorevole

lunedì, febbraio 16, 2009

FOIBE : TOMBE SENZA NOMI E SENZA FIORI

FOIBE: TOMBE SENZA NOMI E SENZA FIORI DOVE REGNA IL SILENZIO DEI VIVI E IL SILENZIO DEI MORTI.

I PARENTI DELLE VITTIME ATTENDONO A DISTANZA DI ANNI CHE SIA FATTA GIUSTIZIA E CHIAREZZA SULLA TRAGEDIA, ( da poco sono state aperte le indagini dal coraggioso giudice Pititto ),

MA PURTOPPO SI ATTENDE ANCORA........., ANZI LO STATO ITALIANO COSA FA? CONTINUA A PAGARE LA PENSIONE MINIMA A 32 MILA PERSONE RESIDENTI NELL'EX JUGOSLAVIA SPENDENDO 16 MILIARDI DI VECCHIE LIRE AL MESE, IN SEGUITO AL RICONOSCIMENTO AI FINI CONTRIBUTIVI DEL PERIODO MILITARE SVOLTO NELLE FILE PARTIGIANE. UNA NOTIZIA CHE FA SEMPLICEMENTE RABBRIVIDIRE E RENDE ANCORA PIU' NECESSARIO RIEMPIRE, SENZA CALCOLI STRUMENTALI, QUESTA PAGINA BIANCA DEL NOSTRO PASSATO.

L'INPS: E' LA LEGGE CHE CI COSTRINGE A PAGARE. L'istituto si difende "a noi non interessa la fedina penale" E i titini sotto accusa contrattaccano: "mai fatto niente di male. Comunque, pensate ai crimini commessi in Jugoslavia dai fascisti".


INPS paga ogni mese 32 mila pensioni minime a persone residenti nell'ex jugoslavia, sborsando complessivamente quasi 200 miliardi di vecchie lire l'anno. E tra i titolari di pensione ci sono anche personaggi che sono indagati dal giudica Pititto per gli eccidi delle Foibe. Ma com'è possibile una cosa del genere? " siamo obbligati dalla legge a versare queste pensioni", sostiene Vittorio Spinelli dall'ufficio stampa dell'INPS. Si, perchè in base ad una direttiva della comunità europea è riconosciuto ai fini contributivi il periodo militare svolto nelle file partigiane. "Inoltre", soggiunge Spinelli, "la dichiarazione dei contributi non è mai accompagnata dalla fedina penale. Si tratta di un'assicurazione e in quanto tale asettica. Se tra gli aventi diritto risultano anche dei criminali di guerra, titini o nazisti che siano, dobbiamo continuare a pagarli essendo la pensione un diritto che non si può revocare per questi motivi".

Uno dei titolari di pensione INPS che risultano indagati a Roma è Ciro Raner, che vive a Crikvenica, cittadina turistica della Croazia. "Non ho fatto del male a nessuno", dice respingendo ogni accusa. "Negli anni trenta ho giocato a calcio in serie A con la Spal, la Fiorentina il Catania. Per l'italia ho prestato servizio militare, ero un sergente di sanità, diligente e discilinato", spiega Raner, giustificando così, con il servizio militare con la successiva lotta partigiana nelle file di Tito, la pensione INPS. Testimoni ancora in vita lo indagano come il brutale comandante del lager di Borovnica, un campo che non aveva niente da invidiare a quelli nazisti.

Negava di essere coinvolto nella tragica, storia delle foibe anche Mario Toffanin, responsabile del massacro della malga di porzus, in friuli, e finito nelle maglie dell'inchiesta romana per la sua collaborazione con il IX corpus di tito. "Giacca", come era chiamato in battaglia, viveva a Skofije, in Slovenia, a un paio di chilometri dal confine con l'otalia. "ma quale genocidio", protestava così. "io sono stato graziato da Pertini nel 1978. Sono un uomo libero, vado a Trieste quando mi pare, per trovare mio figlio."


I "PRESUNTI" INFOIBATORI PAGATI DALL'INPS - CIRO RANER - NERINO GOBBO - FRANCO PREGELY - GIORGIO SFILIGOI - OSCAR PISKULIC - GIOVANNI MOTIKA - GIUSEPPE OSGNAC - GUIDO CLIMICH - GIOVANNI SEMES - MARIO TOFFANIN



CIRO RANER
Età: 83 anni Residente: Croazia. Incarico: comandante nel 1945-46 dei Lager di borovnica vicino Lubiana. Testimonianze: il racconto di un sopravvissuto, deposizione scritte degli x deportati e un documento del ministero degli affari esteri. Pensione INPS: 569.750 lire per tredici mensilità. 50 milioni circa di arretrati. Dal maggio 1945 al Marzo 1946 Ciro Raner comandò il campo di concentramento di Borovnica dove sono stati deportati oltre duemila italiani, in gran parte militari che si erano arresi. " eravamo in fila con uno scodellino per avere un mestolo d'acqua sporca e patate (...), quello davanti a me cercò per fame di raschiare il fondo della pentola. Subito la guardia Partigiana lo colpì con una fucilata trapassandogli il torace. Arrivò il Raner che, dopo aver preso la mira, diede il colpo di grazia al ferito sparandogli alla nuca", racconta Giovanni Prendonzani, sopravvissuto a Borovnica e ancora in vita a Trieste dove ha rilasciato la sua testimonianza ai carabinieri. Sempre nel lager di Borovnica: "il 15 maggio 1945 due italiani lombardi per essersi allontanati duecento metri dal campo furono richiamati e martirizzati col seguente sistema: presi i due e avvicinati gomito a gomito li legarono con un filo di ferro fissato per il lobi delle orecchie precedentemente bucate a mezzo di un filo arroventato. dopo averli in questo senso assicurati li caricavano di calci e di pugni fino a che i due si strapparono le orecchie. Come se ciò non bastasse furono adoperati come bersaglio per allenare il comandante e le drugarize ( sentinelle ) che colpirono i due con molti colpi di pistola lasciandoli freddi sul posto"; Questo racconto è riportato sul documento n. 62, archiviato nella stanza 30 al primo piano del ministero degli affari esteri e consegnato al giudice Pititto.


NERINO GOBBO
Età: 79 anni. Residente: Slovenia. Incarico: nel maggio-giugno 1945 responsabile di Villa segrè a trieste luogo di tortura delle milizie jugoslave. Testimonianze: denuncia alle autorità alleate, riportata negli annali del comitato di liberazione nazionale dell'Istria, sentenza della Corte d' Assise di trieste che lo condanna in contumacia a 26 anni di reclusione. Pensione INPS: 532.500 lire per tredici mensilità. 30 milioni circa di arretrati Nerino Gobbo, conoscito come il comandante "Gino", ricopriva l'incarico di commissario del popolo delle milizie di Tito, che con il IX corpus avevano occupato il capoluogo giuliano il primo maggio 1945. Fino a metà gigno fu responsabile di villa segrè di Trieste. Silva Spagnol, membro del comitato di liberazione nel capoluogo giuliano, denunciava agli alleati nel 1946 la scomparsa della professoressa di lettere del liceo Petrarca, Elena Pezzoli, membro della resistenza. " Il 20 maggio 1945, Elena Pezzoli era tradotta in macchina dagli agenti in borghese a Villa Segrè, sede del commissariato del secondo settore dipendente dalla difesa popolare (le milizie degli occupanti titini). (...) la Pezzoli fu torturata nella notte del 21 maggio e si sono uditi i lamenti e i rumori di cinghia (...). Il giorno 9 giugno la Pezzoli era scomparsa e con lei il comandante Gino, Nerino Gobbo", si legge nella denuncia acquisita dalla magistratura di Roma. Acquisita pure la sentenza del 17 gennaio 1948 della corte d'Assise di Trieste, in cui i giudici scrivevano: "Dopo qualche giorno tutta la squadra si trasferiva a dipendenze del commissario del popolo Gino di nome Nerino Gobbo. (...) Come risultò dalle deposizioni dei testi tutti i detenuti venivano bastonati e seviziati, taluni costretti a bastonarsi a vicenda a persino a mettere la testa nel secchio delle feci". Gobbo fu condannato in contumancia a 26 anni di reclusione.



FRANCO PREGEIJ
Età: 80 anni. Residente: Slovenia. Incarico: commissario politico del IX corpus del maresciallo Tito a Gorizia. Testimonianze: denuncia dei familiari delle vittime e documento del PCI. Pensione INPS 569.650 lire per tredici mensilità. 45 milioni circa di arretrati. Dal primo maggio al 9 giugno 1945. il comandante "boro", alias Franco Pregeij fu il commissario politico del IX Corpus dell'esercito partigiano jugoslavo, che aveva occupato Gorizia. Dei 900 italiani deportati dal capoluogo isontino, 665 non tornarono più a casa. Fra gli scomparsi anche Licurgo Olivi e Augusto Sverzutti, entrambi esponenti del comitato di liberazione. "La mattina del 5 maggio 1945 furono invitati a salire su una macchina, sulla quale c'era anche il professore Mulitsch e il commissario Boro. Giunti in piazza della Vittoria il professor Mulitsh fu fatto scendere mentre la macchina proseguì verso il palazzo Coronini ( comando del IX Corpus titino a Gorizia), Da allora non sono più tornati" questo hanno denunciato i familiari di Sverzutti nel 1946 alla questura del capoluogo isontino. Emilio Mulitsch, responsabile del CLN di Gorizia, ha confermato la vicenda con una relazione conservata nell'ufficio storico del PCI ( documento 4004, pag. 1-4, reg C). Lo studioso pordenonese Marco Pirina ha trovato negli archivi sloveni i numeri di matricola di Sverzutti (n. 1728) e Olivi (n. 1799), deportati nel carcere di Lubiana, un ex manicomio. L'ultima registrazione del 30 dicembre 1945 indica che i prigionieri sono stati trasferiti verso "ignote destinazioni". L'intera documentazione è nei fascicoli della Procura di Roma.


GIORGIO SFILIGOI
Età: 74 anni. Residenza: Slovenia. Incarico: collaboratore del IX corpus jugoslavo. Testimonianze: esposto alla procura di Gorizia del commissario di pubblica sicurezza di Cormons. Pensione INPS: 571.850 lire per tredici mensilità. 20 milioni circa di arretrati " Sergio " era il nome di battaglia di Sfiligoi, che dal 1944 al '45 fu utilizzato come "deportatore" di italiani dal IX Corpus del Maresciallo Tito. " il 29 aprile 1945 (...) Sfiligoi Giorgio prelevò. preso le proprie abitazioni le seguenti persone: Brurnat marino, Bullo Giuseppe, Tavian Giovanni, Ronea Enrico, Gasparutti rodolfo e Pascolat francesco. All'insaputa del locale comitato di liberazione furono trasferiti, la notte del 30 aprile a (...) mons. Angelo Magrini si recò in Idria, ove ottenne la liberazione dei catturati, i quali fecero ritorno a cormons presso le loro abitazioni. Nella notte del 6 maggio 1945, i predetti sventurati furono nuovamente prelevati dallo Zulian Nerino, dal Mariani Clodoveo e dallo Sfiligoi Giorgio e trasportati - a mezzo di un autocarro - a caporetto e là consegnati allo Zulian Mario che li freddò" ciò è quanto si legge nell'esposto del commissario di pubblica sicurezza di Cormons del 10 maggio 1949 acqusito agli atti.


OSCAR PISKULIC
Età: 83 anni. Residente: Croazia. incarico: capo dell'ozna, la polizia segreta di Tito, a fiume dal 1943 al 1947 Testimonianze: familiari delle vittime, un membro del CLN di fiume e documenti vari.
Oscar piskulic, detto "Zuti", fu dal 1943 al 1947 il capo della temuta ozna, la polizia segreta jugoslava di Fiume. L'avvocato Augusto Sinagra, che con la sua denuncia ha avviato l'inchiesta sul genocidio delle foibe, accusa proprio Piskulic e altri funzionari dell'ozna, fra i quali gli Italiani Norino Nalato e Giuseppe Domancich. Alla procura di Roma sono stati consegnati 553 nomi di connazionali uccisi o scomparsi nel capoluogo quarnerino e dintorni, dal 3 maggio alla fine dei 1945. " I familiari di alcuni degli uccisi essendosi recati, spinti dall'angoscia, alla sede dell'Ozna a Fiume dove erano raccolti i cadaveri, avevano constatato che i funzionari a cui si erano rivolti erano medesimi individui che erano penetrati nelle loro case per prelevare i congiunti poscia uccisi. (...) In tal modo l'uomo e la donna che avevano diretto il prelevamento dell'ex deputato della costituente Sincich vennero identificati nel capo dell'ozna Oscar Piskulic e nella sua amante (...)" si legge nella testimonianza di Luksic Lanini, membro del CLN di Fiume, consegnata alla Procura di Roma. Il figlio Giuseppe Sincich, interrogato recentemente dal pubblico ministero Pititto, ha confermato le responsabilità di Piskulic sottolineando che suo padre "era un democratico, un economosta, perseguitato dai fascisti, ma i democratici a quel tempo davano molto fastidio".
Da Adnkronos del 28 novembre 2000 Roma - Gli atti del procedimento a suo carico sono solo in lingua Italiana e non Croata. Così Oskar Piskulic, imputato nel processo sulle Foibe che si tiene alla Corte d'Assise di Roma, ha fatto ricorso al tribunale di Strasburgo per violazione della convenzione Europea dei diritti dell'uomo. La corte d'assise ha infatti rigettato l'eccezione di nullità delle notifiche e dell'ordinanaza di contumacia, mentre gli atti pervenuti a Piskulic sono in lingua italiana e non in lingua croata, come specificamente previsto - sottolinea il legale Livio Bernot - dalla Convenzione, anche alla luce della più recente normativa.


IVAN MOTIKA
Età: 92 anni Residente: croazia Incarico: pubblico accusatore per l'Istria dal 1943 al 1947. Testimonianze: familiari delle vittime. L'8 settembre del 1943 l'esercito italiano era allo sbando su tutti i fronti. In Istria ne approfittarono i partigiani di Tito conquistando diverse cittadine. Ivan Motika ricopriva il ruolo di " giudice del popolo ", che decideva il destino degli Italiani. " Il castello di Pisino era diventato in quei giorni prigione e quartier generale dei partigiani di tito, il cui luogotenente (...) era tale Ivan Motika; nel castello si svolgevano i cosiddetti "processi" del "tribunale del popolo", presieduto dallo stesso Motika, che sentenziava a decine o centinaia le condanne a morte degli italiani. (...) Il 30 ottobre i resti dei due congiunti (padre e zio dell'estensore di questa testimonianza, imprigionati da Motika) furono riportati alla luce da una cava di bauxite a villa Bassotti. (...) " Erano nudi, le mani legate con il filo spinato ed erano stati tagliati i genitali e levati gli occhi. In tutto si recuperarono 23 salme" così si legge nella deposizione della procura di trieste di Leo Marzini, che racconta di aver incontrato in quei giorni tremendi, lo stesso Motika per chiedergli spiegazioni: " non fece nulla per limitare le sue responsabilità e si limitò a dire che forse si era trattato di un errore". La deposizione raccolta a Trieste è stata inviata alla procura di Roma assieme ad altre testimonianze, fra le quali spicca quella di Nidia Cernecca che ricorda ancora il padre decapitato su ordine di Motika, soprannominato " il boia di Pisino".


GIUSEPPE OSGNACCO
Età: 79 anni Residente: Slovenia. Incarico: comandante militare della banda partigiana Beneska ceta dal 1944. Testimonianze: deposizione al processo contro Beneska ceta e testimonianze varie. Pensione INPS: 569.750 lire per tredici mensilità, 30 milioni d'arretrati. Giuseppe Osgnacco, detto "josko", ex sergente dell'esercito italiano, era il comandante militare della banda partigiana Beneska ceta fin dal 13 agosto 1944. La formazione operò nelle valli del Natisone con l'obiettivo dichiarato di annettere più territorio possibile della Venezia Giulia alla jugoslavia di Tito. Nel 1959 fu istruito un processo contro gli appartenenti alla Beneska ceta, ma l'amnistia promulgata da Palmiro Togliatti nel 1946, fece si che fosse dichiarato il non luogo a procedere. Nella nuova inchiesta della Procura di Roma i reati di strage ai danni della popolazione italiana, con finalità di PULIZIA ETNICA, non pssono andare in prescrizione. Le testimonianze raccolte da Giuseppe Vasi, un udinese che ha dedicato gran parte della sua vita a ricostruire i drammatici giorni della guerra sui confini orientali, sembrano confermare che la Beneska ceta passava quasi sempre per le armi i prigionieri. "Sono state almeno 40 le persone ammazzate nei boschi circostanti le valli del Natisone tra militari tedeschi, fascisti e anche civili". Ma la sorte più ingrata toccò a due giovani carabinieri, secondo la testimonianza oculare di Giovanni Lurman consegnata alla procura di Roma. " I partigiani ordinarono loro di spogliarsi (...), li legarono mani a piedi e li spinsero nella buca (...). Loro piangevano dentro e più buttavano terra e sassi si sentiva che urlavano" racconta il testimone che ammette di averli disseppelliti personalmente un mee dopo, all'arrivo delle truppe "alleate" (1945), riscontrando che almeno uno dei militari non aveva la pur minima ferita e quindi era morto dopo essere stato sepolto vivo.


GUIDO CLIMICH
Età: 78 anni Residente: Croazia. Incarico: responsabile dell'ozna di Pisino ( Istria ) nel 1945. Testimonianze: Associazione famiglie deportati in jogoslavia. Nome di battaglia "Lampo", Guido Climich era, alla fine della guerra, il temuto capo della polizia segreta di tito a pisino nella penisola istriana. L'associazione famiglie deportati in jugoslavia aveva racolto numerose dichiarazioni sulla sparizione degli italiani, poi consegnate alla questura di Gorizia. "mio figlio mechis Giovanni fu prelevato il 3\5\1945 dai partigiani titini (...). Con altri otto paesani furono interrogati da un funzionario dell'Ozna, guido climich (...). circa il 25 0 28 maggio furono portati a montona e racchiusi nelle carceri (...). Il 12 giugno 1945 un folto gruppo di prigionieri fu prelevato di notte. (...) pochissimi fecero ritorno e io non seppi più nulla di mio figlio" scriveva in uno stentato italiano Antonio Mechis il 25 giugno del 1949


GIOVANNI SEMES
Età: 83 anni. Residente: Croazia. Incarico: comandante militare di Zara e capo della Polizia segreta di tito dal 1944 al 1945. Testimonianze: documenti della regia marina e jugoslavi. Il generale Giovanni Semes, che occupò Zara il 31 ottobre 1944, era comandante militare della piazza e capo della polizia segreta di Tito nella zona. Il giornale croato " Narodni list " ha pubblicato, cinquant'anni dopo, il bando di fucilazione degli abitanti del quartiere di Borgo Erizzo e di altri zaratini. Ventinove italiani erano compresi nel bando firmato dal generale giovanni Semes, ma altri "settantrè non hanno avuto la fortuna di essere giudicati perchè sono finiti nella fossa marina dell'isola Lavernata nell'arcipelago delle Coronarie" scrive Ivjca Matesie in un'inchiesta giornalstica, acquisita agli atti dal pubblico ministero. Lo studioso Marco pirina ha segnalato alla procura di Roma la relazione del secondo reparto della regia Marina del 20 giugno 1945, conservata presso l'archivio centrale dello stato, che conferma quasi tragici fatti imputabili al generale Semes.


MARIO TOFFANIN
Deceduto nel 1999, Mario Toffanin che abitava in Slovenia, era comandante dei "gap" ( gruppi armati partigiani ) nell'alto Friuli e nella provincia di Gorizia. La sua storia è negli archivi del IX corpus di Tito: Toffanin, nome di battaglia "giacca", è il responsabile della strage delle malga Porzus sui monti friulani. Fra l'8 il 13 febbraio del 1945 massacrò con i suoi uomini, tutti partigiani garibaldini rossi, 22 combattenti della resistenza della brigata "Osoppo", che si opponeva all'annessione alla Jugoslavia della Venezia giulia. nel 1957 Toffanin fu condannato all'ergastolo per l'eccidio di Porzus, ma si nascose prima in jugoslavia e poi in Cecoslovacchia. Nel 1978 venne graziato dal presidente Pertini. La pensione INPS era VOS 04908917: nonostante le sanguinose azioni anti-italiane, ha ricevuto 672.270 lire di pensione dall'INPS fino alla morte. Questi sono solo alcuni dei nomi presenti nel "libro paga dell'INPS"

venerdì, febbraio 13, 2009

IL MASSACRO DI KATYN: UN CRIMINE COMUNISTA











Il massacro della foresta di Katyń, noto anche più semplicemente come Massacro di Katyń, avvenne durante la seconda guerra mondiale e comportò l'esecuzione di massa, da parte dell'Unione Sovietica, di soldati e civili polacchi. L'espressione si riferì inizialmente al massacro dei soli ufficiali polacchi detenuti del campo di prigionia di Kozielsk, che avvenne appunto nella foresta di Katyn, vicino al villaggio di Gnezdovo, a breve distanza da Smolensk. Attualmente l'espressione denota invece l'uccisione di circa 22.000 cittadini polacchi: i prigionieri di guerra dei campi di Kozielsk, Starobielsk e Ostashkov e i detenuti delle prigioni della Bielorussia e Ucraina occidentali, fatti uccidere su ordine di Stalin nella foresta di Katyn e nelle prigioni di Kalinin (Tver), Kharkov e di altre città sovietiche.
Molti polacchi erano stati fatti prigionieri a seguito dell'invasione e sconfitta della Polonia da parte di tedeschi e sovietici nel settembre 1939. Vennero internati in diversi campi di detenzione, tra cui i più noti sono Ostashkov, Kozielsk e Starobielsk. Kozielsk e Starobielsk vennero usati principalmente per gli ufficiali, mentre Ostashkov conteneva principalmente, guide, gendarmi, poliziotti e secondini. Contrariamente ad una credenza diffusa, solo 8.000 dei circa 15.000 prigionieri di guerra di questi campi erano ufficiali.
L'eccidio di Katyn fa riflettere perché da esso emergono aspetti della dittatura staliniana che è stato a lungo imbarazzante riconoscere, vale a dire il carattere fortemente repressivo e le tendenze imperialistiche. Il massacro rispondeva ad una logica ben precisa di ulteriore indebolimento della Polonia appena asservita. Infatti, poiché il sistema di coscrizione polacco prevedeva che ogni laureato divenisse un ufficiale della riserva, il massacro doveva servire ad eliminare una parte cospicua della classe dirigente nazionale. Tutto ciò nel quadro di una spartizione della Polonia tra Germania ed URSS, due potenze che rappresentano due sistemi culturali ed ideologici opposti ed antitetici, ma che, per circa 2 anni e fino al giugno 1941, furono legate da un patto di alleanza. Il 5 marzo 1940, secondo un'informativa preparata da Lavrentij Beria (capo della polizia segreta sovietica) direttamente per Stalin, alcuni membri del politburo dei SovietStalin, Vyacheslav Molotov, Kliment Vorošilov, e Beria stesso – firmarono un ordine di esecuzione degli attivisti "nazionalisti e controrivoluzionari" detenuti nei campi e nelle prigioni delle parti occupate di Ucraina e Bielorussia. L'ampia definizione del capo d'accusa comportò la condanna a morte di una parte importante dell'intellighentsia polacca, oltre a poliziotti, riservisti e ufficiali in servizio attivo. Morirono oltre 22.000 uomini, compresi circa 15.000 prigionieri di guerra.
La scoperta del massacro nel 1943 causò l'immediata rottura delle relazioni diplomatiche tra il governo polacco in esilio a Londra e l'Unione Sovietica. L'URSS negò le accuse fino al 1990, quando riconobbe nell'NKVD la responsabile del massacro e della sua copertura.




NICOLICK - IL POSTEGGIATORE ABUSIVO FA I SOLDI E L'ATA NON INTERVIENE

martedì, febbraio 10, 2009

IL LIBRO DI NICOLICK

NICOLICK REPORTAGE :LA PISCINA SCOPERTA DI SAVONA , DEGRADO INFINITO

Ospedale San Paolo di Savona, degrado e incuria, NICOLICK

nicolick, 39 biglietti di sola andata

ROM CHIEDONO IL PIZZO A CHI PAGA IL POSTEGGIO A SAVONA IN PIAZZA DEL POPOLO A SAVONA - NICOLICK

LA VERGOGNA NON CONOSCE LIMITI







Nel 2009 esistono dei personaggi che hanno la faccia di negare l'esistenza delle Foibe....e omaggiano i boia ed i carnefici degli italiani



"E' una vergogna. Ora abbiamo la prova concreta che a sinistra c'è ancora chi ha il coraggio di negare le Foibe o peggio, di trasformare i torturatori in liberatori". Lo dichiara Noah Mancini, del Blocco Studentesco, in merito all'omaggio floreale che i collettivi universitari, la sigla Militant e il collettivo Senza Tregua, hanno in programma oggi presso il monumento ai partigiani jugoslavi al cimitero di Prima Porta."Hanno chiamato la loro iniziativa - ha aggiunto Mancini - 'settimana antirevisionista'. Omaggiare i partigiani di Tito il 10 febbraio, giorno del ricordo dei martiri delle Foibe, è una provocazione e un insulto ai 20mila italiani infoibati e i 350mila esuli".Azione Universitaria nel Giorno del Ricordo ha promosso iniziative in tutti gli Atenei. Ma ''non mancano le solite note stonate - sottolinea Au - con i collettivi della Sapienza che andranno a depositare fiori sulle tombe dei Titini infoibatori, manifesti negazionisti delle Foibe affissi presso la facoltà di Lettere di Roma Tre''. Anche Gianluca Iannone, presidente nazionale di Casapound Italia, commenta l'iniziativa promossa dagli studenti dell'Onda in onore dei partigiani Jugoslavi: "L'infamia e la viltà sono vergogne che lasciano eredi".

ELUANA.....UN PENSIERO E NIENTE PAROLE


SEI BELLISSIMA PER NOI E PER TUTTI

OGGI IL GIORNO DEL RICORDO : LA TRAGEDIA DELLE FOIBE


Oggi, “Giorno del Ricordo” delle Foibe, negli istituti scolastici di ogni ordine si svolgeranno attività di approfondimento sugli eventi che “costrinsero centinaia di migliaia di italiani, abitanti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, ...
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... a lasciare le loro case spezzando secoli di permanenza continuativa in quei territori”.
L’invito agli istituti è giunto attraverso una lettera inviata dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini a tutti i dirigenti scolastici d’Italia. Il responsabile del Miur invita docenti e studenti ad organizzare eventi che possano approfondire il quadro storico, “anche con il coinvolgimento delle associazioni degli esuli”, e fare chiarezza su “un quadro storico, circostanziatamente documentato, che, tenendo conto della particolare situazione dell’Italia del dopoguerra, possa fornire un contributo di analisi e di studio di questi fatti”.
Le iniziative auspicate da viale Trastevere, istituite con la legge numero 92 del 30 marzo 2004, sono “volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero”.
La terribile pagina di storia a cui fa riferimento il Giorno del Ricordo è quella che interessò i territori dell’Istria a partire dall’autunno del 1943, subito dopo l’armistizio, fino al 1947, dove furono rastrellate, deportate e uccise migliaia di persone, per lo più italiani, dai partigiani comunisti dell’esercito di Tito. Ancora oggi, dopo circa sessant'anni, non ci sono cifre ufficiali relative ai deportati, agli italiani uccisi durante la prigionia e, soprattutto, agli infoibati.

lunedì, febbraio 09, 2009

MANIFESTO INOPPORTUNO

Nelle strade di Savona si puo' osservare un grande manifesto che definisco, per lo meno, inopportuno : due donne, giovani, belle ed eleganti, sono costrette a subire le aggressive attenzioni di due uomini in uniforme, uno ne tiene una da dietro, per la collottola e torcendole un braccio, l'altro con un berretto in testa, preme l'altra donna contro una auotovettura e nel frattempo la palpa. Il manifesto , 6 per 3, reclamizza una griffe di abbigliamento , molti passanti si fermavano ad osservarlo con curiosita', anche dei ragazzini lo hanno visto. A parte lo scopo meramente pubblicitario che e' stato raggiunto, visti gli ultimi gravissimi fatti di cronaca, che hanno visto vittime numerose donne , stuprate e picchiate, in diverse occasioni, mi pare che questo manifesto sia decisamente diseducativo verso i giovani e lancia un messaggio decisamente inquietante , visto il ruolo che una volta di più le donne in genere sono costrette a rivestire : un oggetto passivo di violenza. Come d'altra parte accade nella realta' piu' terribile.

martedì, febbraio 03, 2009

DISCARICA ABUSIVA






















Un'altra discarica abusiva
In un punto particolarmente bello e panoramico, in mezzo alla neve, si staglia una discarica abusiva di mobili, elettrodomestici, casse, congelatori, bauli e altre amenità, abbandonate da qualche incivile in questo punto, posto ad una confluenza tra due splendide strade panoramiche, Via alla Strà e Via Madonna del Monte, che portano rispettivamente a Quiliano e l’altra in direzione di Savona attraversando la Conca Verde. E’ una vera vergogna che grida vendetta per l’ambiente offeso.

lunedì, febbraio 02, 2009

LETTERA DEI GENITORI DEI DUE RAGAZZI AGGREDITI A GUIDONIA

Al Presidente della Repubblica
Al presidente del Consiglio
Ai Presidenti delle Camere
Al Ministro della Giustizia
A tutti

È grande il dolore che ci accompagna da quel maledetto giovedì notte in cui i nostri cuori sono stati spezzati così come la vita dei nostri figli e di chi gli sta vicino. Quella notte doveva essere una come tante, vissuta liberamente con la spensieratezza della loro età, ma questi due giovani ragazzi sono stati brutalmente ‘aggrediti, umiliati, seviziati e privati della loro dignita’‘. Hanno dovuto subire l’aggressione piu’ vile e vigliacca che esista per un uomo e per la sua donna.
Nonostante tutte le parole che sono state spese per questa triste vicenda, niente può descrivere le atrocità di cui sono stati capaci questi mostri che non possono essere definiti persone.
I nostri figli sono costretti a farsi coraggio per affrontare le loro paure in ogni momento, perché quando chiudono gli occhi è ancora vivo il ricordo di quel terribile incubo.
Lei ha ancora davanti agli occhi l’immagine di quei mostri che accanendosi sul suo corpo ne approfittavano con violenza e lui sente ancora le urla e l’impotenza di non poter fermare così vili atrocità. La loro voglia di vita li porta ad essere uniti in questo calvario per cercare di riprendersi il loro futuro.
Ogni giorno anche noi cerchiamo di esser loro vicini, cerchiamo di trovare ‘il modo giusto’ per incoraggiarli ad andare avanti in questa brutta realtà, bruscamente segnata dalla cattiveria e dalla malvagità”.
Noi non sappiamo come comportarci, perche' quello che e' successo e' talmente crudele e fa cosi' male che rende impotenti anche noi e ci fa sentire nauseati dalla societa' che ci circonda. Una societa' in cui non c'e' piu' rispetto per la dignita' umana e nella quale non avremmo mai immaginato potesse accadere quello che e' successo''

domenica, febbraio 01, 2009

Norma Cossetto
















… Norma Cossetto era una splendida ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite).Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Umberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà…… Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d'arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri".Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.Un'altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: "Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella Foiba.…La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra…