lunedì, giugno 30, 2025
Cesare B Cairo Montenotte 13 agosto 1987 Questo omicidio non ebbe risonanza mediatica solo nella provincia di Savona ma anche a livello nazionale e non solo. Con questo delitto dai risvolti intricati, il piccolo centro della Valle Bormida assurse alla ribalta delle cronache nazionali. Fu una vicenda contorta e ingarbugliata, con chiari e scuri, con frequenti colpi di scena, dove tutto quello che sembrava come tale , in realtà non era come appariva, era come un teatrino in cui entravano ed uscivano attori sempre diversi con ruoli criptici. Una storia di sangue, di soldi e ovviamente di sesso, che coinvolse l’opinione pubblica con tutti i suoi numerosi protagonisti, offrendo all’occhio impietoso della gente una immagine, purtroppo veritiera, della piccola provincia, delle ipocrisie che nascono tuttora all’ombra dei campanili, delle storie extraconiugali che venivano nascoste ma che prosperavano e che si protraevano nel tempo spesso con un doloroso epilogo. Da questa vicenda si fece pure un film noir con Monica Guerritore come protagonista. Per una dei protagonisti della vicenda, forse la principale, si coniò un soprannome: la mantide di Cairo Montenotte, facendo riferimento all’abitudine dell’omonimo insetto femmina che uccide il partner maschio dopo il rapporto sessuale. Le vite di molte persone, coinvolte a vario titolo nelle indagini, furono rivoltate come calzini, molti particolari, soprattutto, intimi vennero messi in piazza e non solo nelle aule di tribunali. Ancora oggi, nonostante la conclusione giudiziaria con una colpevole condannata in via definitiva, molti dubbi sussistono , soprattutto nella gente del posto che conosceva benissimo i protagonisti della vicenda. La storia ebbe inizio con una improvvisa scomparsa di un uomo, Cesare B, classe 1931, noto personaggio e notabile della Valle Bormida, consigliere comunale di Cairo Montenotte, facoltoso farmacista, con la passione prima per l’equitazione e poi per il calcio. Egli è il patron della squadra calcistica locale, la Cairese, che segue con grande passione e che sponsorizza a livello economico dando la possibilità alla squadra di effettuare trasferte e di avere giocatori di spicco. Come tutti gli uomini , Cesare B, nonostante fosse sposato e quindi tenesse famiglia, amava frequentare le donne, quelle belle. Egli conosce e inizia a frequentare una donna , Gigliola G, molto graziosa , di corporatura minuta, con una caschetto di capelli biondo, grazie al suo fascino magnetico, lei sapeva affascinare e sedurre gli uomini nella loro fantasia. Di professione fa la gallerista, esponeva e vendeva quadri, nel centro di Cairo. Tuttavia la donna era nata professionalmente come infermiera, aveva anche svolto la professione sanitaria in un orfanotrofio e quindi in una fabbrica a sempre Savona , la Magrini, in quel contesto lavorativo si era sposata con un metronotte da cui ha 2 figli. In seguito contrarrà altri due matrimoni, avrà un’altra figlia, e avvierà altre relazioni . Fra l’altro la donna in prima istanza si chiamava Anna Maria, mutato successivamente nell’attuale Gigliola. Fra Cesare e Gigliola, nasce una relazione amorosa che si protrae, Cesare provvede a tutte le necessità economiche della donna, paga senza fare domande per tutto quello che gli viene chiesto. I pettegolezzi su questa relazione si sprecano considerando anche il fatto che cesare è un uomo molto conosciuto e stimato e che entrambi vivono in un paese dove la gente "mormora". Dunque il 12 agosto del 1987 , il farmacista scompare senza lasciare traccia. Da qui si sviluppa una storia complicatissima, il suo corpo in parte carbonizzato viene trovato sul monte Ciuto, una altura nelle adiacenze di Savona. Effettuato il riconoscimento grazie ad un portachiavi metallico che riporta il simbolo dell'ordine dei farmacisti, alle protesi dentali e alle lenti degli occhiali. Brin era di corporatura massiccia, per ucciderlo, trasportarlo sino a quel sito ci sono volute sicuramente più di una persona. La prima indiziata è la sua amica, Gigliola G, la quale sostiene che responsabili dell’omicidio e poi dell’occultamento furono due personaggi provenienti da Torino con cui l’uomo aveva delle pendenze economiche in corso. Secondo la sua versione nacque una colluttazione tra i due e il farmacista ne uscì pesto e sanguinante, quindi i due aggressori trascinarono via l’uomo. La donna non portò elementi oggettivi a sostegno della sua tesi e quindi venne arrestata e rinviata a giudizio. Un minuscolo frammento di teca cranica venne trovato sulle scale della casa della gallerista e alcune macchie di sangue erano sui muri della camera da letto della casa della Gigliola, dove in effetti viveva di fatto anche il Brin. Secondo gli inquirenti la responsabile principale dell’omicidio fu proprio lei che in concorso con il suo convivente, Ettore G, uccise con un corpo contundente sul capo, un martello o un altro soprammobile, l’uomo nella notte fra il 12 e il 13 di agosto dell’87 mentre egli era disteso inerme nel letto, infatti i fendenti sono chiaramente dall’alto verso il basso, il delitto è avvenuto d’impeto come risultato di tutta una serie di contrasti anche su questioni a carattere economico, che sarebbero alla lunga sfociati in una separazione, forse l’uomo aveva in progetto di tornare dalla propria famiglia e in questo caso veniva a mancare per la gallerista una fonte di reddito. Pare anche che il farmacista avesse rifiutato un prestito di un centinaio di milioni alla donna, richiesti da lei con insistenza. Inoltre sempre secondo le indagini c’era un gruppetto di quattro persone che aiutarono concretamente la coppia a trasportare e occultare il cadavere sino al monte Ciuto, cosa che la donna da sola non poteva oggettivamente fare, il quartetto era formato da un funzionario di polizia in pensione, un politico locale, un artigiano e un collaboratore della vittima, tutti questi verranno riconosciuti colpevoli e condannati a pene minori. Vi furono tre gradi di giudizio e nell’ultimo, presso la suprema corte di Cassazione, venne confermata la condanna a 26 anni per la donna a suo marito 15 anni, mentre agli imputati minori , quattro uomini, vennero date pene minori.
Pavimento a mosaico di epoca Roma ritrovato durante scavi nel secolo scorso sotto la "Bollente" ad Acqui Terme, I romani avevano creato queste terme sfruttando la discesa della piazza rispetto alla fonte termale, anzi accanto al pavimento cìerano anche delle casche di fanghi usati a scopi terapeutici termali.
Il tenente colonnello Maksym Ustimenko, 31 anni, è decollato domenica mattina presto dopo che la Russia ha lanciato un numero record di 537 armi aeree, tra cui 477 droni e 60 missili, ha affermato l'aeronautica militare ucraina. Ustimenko è riuscito a intercettare sette bersagli prima che il suo F-16 Falcon venisse colpito, non avendo il tempo di eiettarsi, ma solo il tempo necessario per dirigere il jet lontano da un'area residenziale, hanno affermato le autorità.
domenica, giugno 29, 2025
Margherita Catanese 27 giugno 1979 Savona Angelo Catanese, salì sul treno a Salerno in direzione di Savona, da tempo oramai non era più lui, uomo di grande intelligenza con una laurea in ingegneria, soffriva di una sindrome depressiva molto grave, a seguito di questa malattia aveva subito alcuni ricoveri in strutture psichiatriche a Nocera Inferiore, e questo lo aveva irritato molto, Angelo infatti attribuiva la responsabilità della sua malattia ai suoi parenti. Covava in lui un desiderio di vendetta, quando salì sul treno aveva nel borsello una pistola. Appena sceso a Savona, si recò al quartiere La Rusca, al civico 5 interno 4, dove lui sapeva abitasse la zia, Margherita, che riteneva corresponsabile della sua malattia oltreché dei suoi ricoveri. La zia , nubile, viveva da sola in un appartamento alla Rusca, il quartiere collinare di Savona, economicamente benestante conduceva una esistenza tranquilla e senza problemi. La donna lo accolse cordialmente e lo fece accomodare in cucina senza sospettare nulla. Quasi subito Angelo estrasse la pistola che si era procurato e sparò cinque colpi che la uccisero , poi si alzò , sollevò il corpo della vittima e dopo averla sistemata su una sdraio , uscì dall’appartamento, raggiunse la stazione e salì sul primo treno in direzione sud, voleva infatti tornare a Salerno. I vicini della zia, sentirono gli spari e videro l’uomo uscire dalla casa sporco di sangue, allarmati avvisarono la polizia che rinvenne il cadavere della donna. Dopo quattro giorni di ricerche giorni fu raggiunto dalla polizia in una pensioncina di Salerno dove si era nascosto e arrestato. Al momento dell’arresto aveva ancora gli abiti sporchi di sangue, ad una richiesta di spiegazioni sulle macchie , disse che era stato morso da un cane randagio, poi decise di collaborare e rese ampia confessione agli inquirenti. Ammise anche il suo rancore nei confronti dei parenti. Sottoposto in carcere a perizie psichiatriche venne riconosciuto non penalmente perseguibile per vizio totale di mente e quindi non venne rinviato a giudizio e si dispose il suo inserimento in una casa di cura adeguata per un periodo non inferiore a dieci anni.
6 giugno 1997 Damiano Nobile 6 anni Millesimo L'annuncio funebre è triste : E' volato in cielo Damiano Cosman, sei anni, ne danno il triste annuncio la madre Elena, i nonni materni, il padrino Carlo , i parenti. Questa è la orrenda conclusione a cui si arriva dopo anni di liti , di violenze, di minacce che il marito , Euro Claudio faceva in continuazione nei confronti della moglie Elena. L'uomo si era fatto notare appena arrivato in Val Bormida, in inverno circolava con un cappello da cowboy e con un lungo cappotto scuro, ma soprattutto era noto per il carattere collerico, inoltre affermava di poter predire il futuro e di saper leggere le carte, cosa che spesso faceva nel cortile di casa. Si faceva chiamare "il mago". Il grave era che tutti in paese, Millesimo, erano a conoscenza della terribile situazione in cui la madre e il bimbo si trovavano, entrambi portavano i segni di lividi per il comportamento indegno del marito padrone che addirittura avrebbe percosso la moglie già nella prima notte di nozze. La madre e il bimbo hanno timore del Nobile che li pedina, li segue li minaccia. La povera donna decide di iniziare la cusa di separazione, ma il comportamento dell'ex marito non si calma anzi chiede con insistenza di vedere Damiano anche se il piccolo è terrorizzato. Una richiesta della ex moglie di un TSO non viene accolta, il minore è affidato al Comune di Millesimo anche se la madre è riconosciuta come responsabile e accudente. Il sei giugno 1997, il "mago" si presenta presso l'asilo delle suore dove il piccolo Damiano era alla mensa, lo trascina a casa sua, in salita al Castello invano inseguito da una suora mentre l'asilo avverte i Carabinieri, giunto a casa con la sua preda, senza alcuna pietà lo uccide tagliandogli la gola con un coltellaccio da cucina lungo 25 centimetri, il fendente è stato inferto con tale violenza che ha quasi decapitato la piccola vittima, poi fugge dalla finestra per evitare la suora che lo aveva inseguito e che trova il corpo di Damiano in un lago di sangue, il piano dell'assassino è quello di far ricadere la colpa sulla ex moglie . La suora avviserà i carabinieri e poi disperata rientra in casa a pregare sul corpo di Damiano. Il "mago" arrestato, nega di essere l'omicida e accusa la moglie,trasferito in carcere a Marassi viene rifiutato dai detenuti e anche due legali lasciano la difesa di ufficio. Il 20 ottobre del 1999, l'assassino del suo discendente viene condannato all'ergastolo presso la Corte di Appello di Genova come sano di mente e riconoscendo i motivi abbietti che lo hanno spinto a tale omicidio.
Pierina Gallo Febbraio 1979 La panettiera di Cairo Montenotte Pierina Gallo è una donna di 57 anni, notissima sia a livello commerciale e prima ancora come persona, molto stimata a Cairo Montenotte, dove in quegli anni, tutti si conoscevano e intrattenevano rapporti cordiali. Nativa di Cortemilia, Pierina proveniva da una famiglia di commercianti, e proprio a Cortemilia aveva ancora casa, una piccola villetta sulla strada che porta a Serole, da adolescente aveva frequentato l’avviamento professionale mostrando ottime caratteristiche intellettive. Il padre con la moglie aveva una negozio di commestibili a Borgo San Pantaleo. La famiglia Gallo decide di trasferirsi a Cairo dove apre un forno con vendita di pane in Piazza Stallani, acquista anche un appartamento a breve distanza dal negozio. Dopo la morte dei genitori Pierina è coinvolta completamente nella attività commerciale, è sempre dietro il banco e il commercio le rende molto, la domenica, quando abbassa la serranda e va a fare una pausa, l’unica, nella sua casa natia di Cortemilia dove aveva le radici e i parenti. Viene trovata cadavere in casa sua, in piazza Stallani 8/1, nel febbraio del 1979, da un vicino di casa che aveva una macelleria nella stessa zona, a pochi metri dal negozio, sgozzata con 21 coltellate di cui quelle mortali inferte alla gola, con brutale violenza. La porta non era forzata e all’interno dell’appartamento non c’erano segni di colluttazione, solo cassetti e armadi aperti come se l’assassino avesse cercato qualcosa. Come al solito nessuno ha visto o udito nulla di rilevante per le indagini. Qualcuno ricorda solo che poco prima dell’omicidio, un giovanotto biondo, tarchiato e con i baffi, entrò in negozio ad effettuare un acquisto e si scambiò uno sguardo di intesa con la signora che era dietro al banco. Tra le dita della vittima fu trovata una ciocca di capelli biondi, all’epoca, siamo nel 1979, non esistevano le indagini scientifiche dei R.I.S. e quindi la ciocca repertata sulla scena del crimine non venne mai analizzata per estrarne il DNA. Pare anche che la commerciante avesse in quel giorno un appuntamento con un rappresentante, circostanza che però non fu mai confermata. L’unico risultato concreto delle indagini fu la denuncia ed il rinvio a giudizio per favoreggiamento, di una parente della Tina Gallo, per l’esattezza sua cognata, che negò sempre la presenza nel negozio di questo giovane biondo. In seguito sarà assolta con formula piena. Rimane ancora oggi l’interrogativo su chi e perché ha ucciso Tina Gallo con questa ferocia. Correva voce che la panettiera particolarmente benestante, prestasse denaro e che qualcuno che non essendo in grado di restituire la somma l’avesse aggredita dopo una discussione, ma su questa ipotesi non ci furono mai riscontri oggettivi. La Gallo lasciò una notevole eredità consistente in immobili e diversi libretti al portatore, tutta questa fortuna andò alla nipote a cui lei era particolarmente affezionata, infatti la nipote da piccola accompagnava sempre la zia nei ritorni domenicali a Cortemilia. A distanza di 11 anni dal delitto accade un fatto rilevante che avrebbe potuto aprire nuovi orizzonti sul caso, la ciocca di capelli biondi che erano stati trovata nella mano della vittima e repertata come prova è sparita dal Tribunale, forse nel corso del trasloco da Palazzo Santa Chiara, la vecchia sede, alla nuova sede in Via 4 Novembre, su questa distrazione non si riuscì mai a fare luce ma pare che in quegli anni non fosse la prima volta che queste sparizioni accadessero. In questo caso se in uno almeno dei capelli fosse presente il bulbo pilifero si sarebbe riusciti a risalire al DNA del proprietario e magari anche alla mano omicida che stroncò la vita di Pierina Gallo. A tutt’oggi questo è un omicidio insoluto
Angela Ferrero Finale Ligure 24 ottobre 1992 Angela Ferrero, una donna bionda dalla corporatura minuta, di professione albergatrice a Finale Ligure, viene trovata sotto un cumulo di materassi e cuscini, nel sua pensione “la finalese” in Via Pertica a Finale Ligure, morta per strangolamento, il corpo fu rinvenuto in uno sgabuzzino. Al momento della morte la donna aveva 39 anni. Il primo ad essere sospettato è l’ex marito Mohamed Faud Habib, un cittadino di nazionalità Egiziana, che avrebbe il vizio del gioco d’azzardo e che avrebbe perso somme elevate partecipando a serate in alcuni locali della zona. La moglie ha sempre provveduto a coprire i debiti del marito vendendo immobili di proprietà. Non solo l’uomo si faceva pagare i debiti di gioco dalla moglie ma ne era anche geloso e pochi mesi prima della morte della donna nel corso di una lite l’aveva minacciata di morte. Nonostante i sospetti nessun provvedimento restrittivo viene preso nei confronti dell’Egiziano che si rende irreperibile e torna nella sua patria. La vita matrimoniale dell’albergatrice Finalese non è stata mai facile, il marito di religione musulmana si è sempre opposto ad una educazione cattolica nei confronti delle due figlie e in un caso avrebbe anche tentato di portarle in Egitto. Intanto l’Egitto ha rifiutato l’estradizione e ha accettato una rogatoria internazionale , cioè un interrogatorio del Habib da parte di magistrati Egiziani in Egitto per avere almeno una dichiarazione da parte del marito. Il motivo per cui si rifiuta l’estradizione è molto semplice, Habib è musulmano e anche se noi occidentali non riusciamo a capire un fatto simile, secondo la legge coranica un marito che uccide la moglie ha diritto a numerose attenuanti e giustificazioni. Il primo processo si svolge con l’imputato contumace che viene condannato in primo grado a 15 anni e sei mesi di reclusione, ma il processo di appello ha una conclusione inaspettata, infatti lo stesso P.M. chiede l’assoluzione seppur con molti dubbi dell’imputato sempre assente al processo di appello, assoluzione che venne concessa dalla corte di Appello di Genova. La motivazione della assoluzione sta nel fatto che la data esatta della morte della donna non è stata mai fissata, poteva essere il 24 oppure il 26, inoltre il marito, primo indiziato aveva un alibi di ferro. Secondo la difesa le indagini non avrebbero focalizzato altri soggetti, che ruotavano attorno alla vittima e che non sono stati interrogati adeguatamente. A tutt’oggi nessuno sa chi uccise la povera albergatrice di Finale e pare che non esista la volontà di riaprire l’inchiesta.
Angelo Quartiano 47 anni, Clementina Carlini 47 anni, Maria Carlini in Quartiano 44 anni Dego 11 marzo 1957 Lorenzo Carlini, 37 anni, agricoltore, quella mattina salì sul treno per Dego, era partito sul presto dalla sua abitazione di Bubbio, una piccola stanza in affitto, armato di un fucile da caccia e di una pistola di grosso calibro, entrambi detenuti illegalmente. I pochi passeggeri sul treno pensavano fosse un cacciatore, in realtà, l'uomo stava progettando una strage, infatti convinto di aver subito dei torti per la suddivisione della eredità del padre, intendeva raggiungere Dego e uccidere per vendetta le sue sorelle e i loro mariti. Dopo la morte del padre le discussioni per l'eredità erano state frequenti con minacce da parte sua nei confronti dei parenti. Alto e di corporatura robusta, Lorenzo incuteva timore, già in passato i Carabinieri e il Sindaco lo avevano allontanato da Dego in seguito ai suoi atteggiamenti nei confronti dei congiunti, colpevoli, secondo lui di averlo penalizzato nella divisione dei beni ereditari. A Bubbio in provincia di Asti, dove si era trasferito, non era noto per il suo carattere gioviale, senza occupazione, aveva usato tutta la sua quota di eredità per andare avanti ed era stato costretto a vendere la sua abitazione, finendo in una stanza in affitto. Tutto ciò aveva accresciuto il risentimento nei confronti dei parenti che risiedevano in Piemonte e in Liguria. Lorenzo non nascondeva la sua rabbia, anzi manifestava apertamente la volontà di trovare delle armi per regolare i conti. La sua richiesta di porto d'armi era stata respinta ma nonostante questo, era riuscito a procurarsi un fucile automatico a cinque colpi e una pistola attingendo probabilmente a qualche deposito di armi clandestino creato durante la guerra civile. Quella mattina , quando scese dal treno a Dego, si diresse subito verso la casa dei suoi parenti, al numero 7 di via Roma, incontrando il sindaco e il vice sindaco, li minacciò con le armi che impugnava, intimandogli di allontanarsi. I due che lo conoscevano bene, intuirono quello che stava per accadere, si allontanarono subito, presagendo una tragedia e corsero a chiamare i carabinieri la cui caserma era nelle vicinanze. Intanto Lorenzo camminando velocemente, aveva raggiunto la casa dei parenti, bussò alla porta, gli aprì il cognato, Angelo, commerciante di legnami, con cui aveva condiviso la prigionia in Germania, contro cui puntò subito il fucile ed esplose tre colpi in rapida sequenza senza lasciare scampo alla vittima che cadde a terra fulminata. L'assassino scavalcò il corpo mentre dalla camera usciva il piccolo figlio di Angelo, Sergio di 8 anni che rimase agghiacciato di fronte alla scena, incurante del bimbo, raggiunse l'altra camera dove trovò la sorella Clementina che colpì con un solo colpo lasciandola riversa sul letto. L'altra sorella Maria, compreso quello che stava accadendo, si sporse dalla finestra nel disperato tentativo di cercare aiuto, Carlini la raggiunse alle spalle e la colpì una prima volta con l'ultima cartuccia poi la finì a pistolettate. Compiuta la strage l'uomo uscì dalla casa e si inoltrò nel bosco raggiungendo un vecchio cascinale in località Costa Lupara, dopo aver esploso qualche colpo a scopo intimidatorio per tenere lontana la gente che lo seguiva. Intanto i Carabinieri avevano raggiunto il luogo della strage, avevano constatato i tre omicidi e raccolto il piccolo Sergio che era sotto choc per quello che aveva visto. Dalla Compagnia di Cairo e al Comando Provinciale di Savona arrivavano automezzi carichi di militari che circondavano il casolare dove si era barricato il Carlini, il quale non pareva voler arrendersi, anzi minacciava chiunque dall'avvicinarsi, affermando di avere con sé abbondanti munizioni e di voler uccidere altre sei persone, che sembravano essere gli altri suoi parenti anch'essi giudicati da lui, come persone che lo avevano danneggiato nella spartizione del patrimonio ereditario. Dopo poche ore di assedio, l'omicida cedeva, si consegnava ai Carabinieri che lo ammanettavano e lo trasportavano in caserma. Gli abitanti di Dego e della Valle Bormida tutta, furono estremamente colpiti dalla strage per la riconosciuta bontà delle vittime e per la grande crudeltà manifestata dall'assassino. Al funerale ci fu una grande partecipazione corale di tutta la gente della zona e in prima fila il piccolo Sergio avvolto nel suo dolore. Il processo si svolse alle assise di Savona nel dicembre del 57, l'imputato che sin da piccolo lavorava con il padre nel taglio del bosco, aveva partecipato nel regio esercito alla campagna di Albania e Grecia, poi dopo la prigionia in Germania era tornato a lavorare con il padre come boscaiolo e da subito aveva avuto motivi di contrasto con il cognato che lavorava con lui. Reo confesso, ammise di aver compiuto la strage per motivi di interesse ma che le sue intenzioni non erano di uccidere bensì di ferire in modo grave i parenti allo scopo di farli soffrire per i torti subiti. Altre frasi pronunciate dal Carlini peseranno come macigni su di lui : “uccidere un uomo è come fumare una sigaretta”. Alla fine, dopo due ore di camera di consiglio la sentenza sarà durissima : ergastolo. In Valle Bormida molti tirarono un sospiro di sollievo, infatti non pochi pensarono alla possibile reiterazione del reato.
Anna Giunti Andora 31 dicembre 1997 Anna Giunti è una giovane prostituta di 32 anni, di origine Milanese che lavora non in mezzo alla strada ma in appartamenti che affitta periodicamente , spostandosi in varie località della riviera di ponente, l’ultimo domicilio sconosciuto, Condominio Ariete, al civico 24 di Andora in Via colombo, le è stato fatale, qualcuno l’ha accoltellata mortalmente. Chi l’ha trovata è stato il padrone di casa che aveva le chiavi, la cercava per sapere se le interessava rinnovare il contratto di affitto ancora per il mese di gennaio e l’ha trovata morta subito dopo la soglia di casa, trafitta da alcune coltellate, quasi svestita, senza la parte superiore dell’abbigliamento, l’autopsia stabilirà che non aveva compiuto alcun rapporto sessuale poco prima di essere assassinata . La donna era molto discreta nella sua attività, nessuno dei vicini sapeva che in quel piccolo appartamento ci abitava e soprattutto ci lavorava una prostituta, questo perché la donna sostava un mese in una località e poi si spostava per un’altra destinazione per non dare nell’occhio, inoltre lavora su prenotazione telefonica, aveva messo un annuncio sui giornale e pare avesse una numerosa e selezionata clientela, professionisti, imprenditori, calciatori, gente che poteva sborsare sino a 250 mila lire per ogni incontro. Nel corso della sua attività la vittima aveva accantonato un conto corrente di tutto rispetto, inoltre possedeva un portafoglio titoli molto elevato, infatti la donna poteva incassare ogni giorno sino a 2 milioni. Per questo omicidio verrà arrestato dopo circa tre mesi dal delitto, un camionista di 32 anni, abitante a Diano Marina, sposato con un figlio, a portare gli inquirenti da lui, le telefonata scambiate con Anna Giunti per prenotare l’incontro e il pedaggio autostradale registrato dal telepass, interrogato confesserà il delitto. Secondo l’assassino reo confesso, sarebbe nata una lite per il prezzo della prestazione, la donna avrebbe alzato la voce e il camionista l’avrebbe colpita con una sequenza di coltellate uccidendola. In seguito l’omicida dirà di avere reagito in quel modo perché anche sua moglie lo trattava allo stesso modo , rimproverandolo ad alta voce. L’uomo aveva il coltello a serramanico nella tasca posteriori dei pantaloni, lo estrasse e la colpì una prima volta alla gola, lei cercò di fuggire ma la inseguì colpendola ancora. Poi andò in bagno a lavarsi del sangue della vittima, recuperò i suoi soldi che aveva dato alla donna e quindi uscì per tornare alla sua vita normale, quella di facciata. L’uomo rinviato a giudizio, fu condannato in primo grado a 22 anni, con l’aggravante dei futili motivi. In Appello la pena fu lievemente ridotta di sei mesi. Ci fu anche un seguito marginalmente alla vicenda dell’omicidio , un uomo politico locale di Diano Marina, fu accusato di peculato per alcune conversazioni telefoniche con la prostituta, l’accusato avrebbe usato una utenza telefonica del Comune di Diano.
Anna Ricatto 12 dicembre 1947 Finale Ligure Pia Anna è una bimba di 9 anni, figlia di una giovane e bella donna, Maria Penazio, sposata e residente in Piemonte. La donna intrattiene una amicizia con un uomo anch’esso di San Damiano D’Asti, Carlo Enrione di anni 55. L’uomo si invaghisce della Maria e insiste affinchè lei inizi con lui una relazione extraconiugale. La donna inizialmente , lusingata dalla corte dell’uomo concede una certa confidenza che viene male interpretata dallo stalker, poi , per mantenere una correttezza nei confronti del marito, cerca di allontanare lo scomodo corteggiatore. Ma Carlo non demorde, insiste fino a giungere a minacciare la donna e inizia a covare odio verso il suo oggetto del desiderio. Nel dicembre del 1947, la donna con il marito, sua figlia Maria e la nonna della figlia, giungono a Finale per trascorrere alcuni giorni di vacanza. Enrione li segue e sulla passeggiata di Finalpia, forse in una crisi di gelosia, affronta la sua ex amante con una pistola. Ne segue una colluttazione in cui la nonna si aggrappa al braccio armato dell’uomo deviando la traiettoria della pistola, da cui partono alcuni colpi, forse diretti alla donna ma che vanno a colpire mortalmente la piccola Anna che muore. Enrione viene arrestato e sottoposto a fermo di polizia. In seguito, nel 1951, verrà processato in Corte di Assise a Savona e riconosciuto colpevole di omicidio, mancato omicidio e porto abusivo d’arma, inoltre dovrà versare un risarcimento di 300 mila lire. In base ad una sua accertata seminfermità mentale avrà un condono di 3 anni.
Caterina Rosso Cengio 1 novembre 1961 Caterina Rosso 50 anni, un femminicidio ante litteram, era una contadina di Cengio, abitava con il marito Luigi Vero e con il figlio unico in un casolare in località Vignale. La vita della povera donna passava senza particolari novità, sempre la stessa, divisa tra la cucina, l’aia, gli animali da cortile e la cura di un figlio portatore di disabilità Carlo 26 anni. IL marito, Luigi Vero 55 anni originario di Prunetto, era un marito padrone, non consentiva alcuna capacità decisionale alla donna inoltre da voci raccolte, era di una proverbiale avarizia, rimproverava la donna se per caso ammazzava una gallina per farne cibo e addirittura le impediva di acquistare dei medicinali nel caso fosse stata malata. La sua tirchieria cozzava contro uno stato economico buono, infatti Vero possedeva una estensione di terreno vasta, quasi sei ettari coltivati a grano e prato oltre ad alcuni bovini. Secondo la versione del marito quel pomeriggio si allontanò a pascolare gli animali e verso le 16 tornò a casa, dove aveva lasciato la moglie con il figlio. Appena arrivato trovò la moglie a terra, fuori , accanto all’ingresso del casolare con un sacco di juta sul viso. Sempre secondo la sua versione, tolse il telo dal corpo e vide il viso della donna sfigurato e sanguinante. Cercò di rianimarla ma fu tutto inutile, la donna era morta, assassinata con il cranio sfondato da un corpo contundente. Arrivò anche il figlio e Vero corse a Millesimo dal medico condotto il quale avvisò i Carabinieri che giunsero anch’essi alla cascina. Da subito i sospetti si orientarono verso il figlio che era disturbato mentalmente, soffriva in particolare di manie di persecuzioni, infatti fu sottoposto ad interrogatori molto pressanti che non portarono a nessun indizio a suo carico. Invece i sospetti iniziarono a puntare sul marito, in quel periodo antecedente la morte violenta della Caterina, le discussioni, sempre più violente, tra i due vertevano sulla richiesta sempre più insistente della moglie di acquistare un vitello a cui avrebbe provveduto il figlio, dando così la possibilità di un incarico lavorativo ad un ragazzo malato. Il marito si era cambiato di abiti, che furono trovati dai carabinieri macchiati di sangue sia con traiettoria a macchie che a spruzzo tipica di colpi vibrati con un oggetto, come per esempio una zappa e in effetti il capo della vittima era sfondato come se fosse stato colpito con tale attrezzo, che venne trovato in un piccolo magazzino della cascina, con la parte in ferro macchiata di sangue. Inoltre sin dai primi istanti il padre manifestava dei dubbi sul figlio che in passato era stato internato presso l’ospedale psichiatrico di Cogoleto e che era stato giudicato socialmente pericoloso. I due , padre e figlio, venivano sottoposti a fermo di polizia giudiziaria mentre iniziava una perquisizione della casa che portava al ritrovamento di barattoli di latta , nella stufa, contenenti 400 mila lire e in un baule di buoni fruttiferi emessi nel 1927 per diversi milioni di lire, tutto questo materiale cartaceo era macchiato di sangue. Il figlio affermava che tra i suoi genitori erano frequenti le liti per motivi di interesse e che la donna era alla ricerca del luogo dove il marito, molto avaro e risparmiatore, nascondesse i valori, fu rimesso in libertà e il padre trattenuto in custodia cautelare, quindi rinviato a giudizio e dopo 15 mesi di carcere, processato in Corte di Assise e assolto per insufficienza di prove. Nel corso della sua arringa la difesa disse che indubbiamente era il delitto di un folle ma che il folle non era sicuramente il marito della vittima.
Isabella Nunez Una splendida ragazza Argentina Settembre 1981 Isabella era una splendida ragazza Argentina dai capelli rossi, alta e affascinante, faceva la ballerina, era arrivata come tante in Italia alla ricerca di fortuna, voleva sfondare nel mondo dello spettacolo ma purtroppo non fu così. La ragazza particolarmente avvenente, iniziò a lavorare come intrattenitrice nei locali notturni di Torino e Milano e poi finì costretta a battere i marciapiedi della provincia di Alessandria. Il suo cadavere fu trovato nei pressi del cimitero di Spotorno che sorge in collina sopra la cittadina , ad un mese circa dalla morte in avanzato stato di decomposizione, quasi decapitata, infatti il suo assassino aveva colpito ripetutamente e con grande ferocia il cranio della ragazza, uno degli arti inferiori era stato staccato e portato ad una distanza di una dozzina di metri, forse da un animale, l’arma poteva essere una mazza di grosse dimensioni oppure una grossa chiave inglese. La sua borsetta era stata svuotata dei documenti e forse di quello che l’assassino riteneva dovesse prendere, poi aveva l’aveva gettato a pochi metri di distanza. La ragazza occupava con una sua amica un piccolo appartamento ad Albisola Superiore, lei era stata l’ultima a vederla viva, si era allontanata su auto di grossa cilindrata, di colore bianca in compagnia di due uomini, uno dei quali era un suo ex. La ragazza aveva tentato in passato di cambiare identità, comprando un passaporto falso e di allontanarsi dal sordido mondo che frequentava ma evidentemente non le riuscì.
Luisa Avellino Tagliate di Mallare 4 luglio 1937 Luisa Avellino era una giovane pastorella che aveva il compito di portare le mucche dalla sua casa colonica sita alle Tagliate di Mallare, sino ai pascoli, e così fece anche quella mattina del 4 luglio 1937, ma quel giorno, la giovane non tornò indietro come al solito perché incontrò la morte. Le mucche ritornarono alla stalla da sole a sera inoltrata, senza di lei. Allarmati, i suoi famigliari si misero alla sua ricerca e dopo qualche ora la povera ragazza fu trovata morta in località Pianazzo di Quiliano, uccisa, parrebbe a colpi di pietra. Queste le poche righe riportate da il quotidiano La Stampa Sera, non si conosce la data di nascita della pastorella. Ricerche condotte presso il Comune di Mallare non hanno permesso di trovare alcuna tomba con questo nome, presso l’anagrafe di Mallare non risulta alcun atto di morte e interpellati alcuni Avellino residenti a Mallare, essi hanno dichiarato di non ricordare alcun parente a cui fosse accaduto questo fatto. Insomma una ricerca molto complessa. Inoltre la località Tagliate di Mallare potrebbe essere alla confluenza amministrativa di tre comuni, oltre a Mallare, Altare e Quiliano. La località Pianazzo di Quiliano non è nota. Sono riuscito a contattare una pronipote della vittima che ricorda per sentito dire questo fatto. Riporto integralmente il suo racconto :”Un giovane del luogo, che si era invaghito della pastorella, la seguì mentre la giovane portava le mucche al pascolo, tentò un approccio che finì male , la ragazza resistette alle avances del ragazzo che perse il controllo la colpì con una pietra uccidendola. La signora prosegue nel racconto “Al funerale della ragazza, era presente tutto il paese, compreso l’assassino, i Carabinieri tennero un breve discorso ai presenti, dicendo che il colpevole sarebbe stato arrestato entro brevissimo tempo, perché aveva commesso un errore: aveva ancora le scarpe sporche del sangue della vittima, a queste parole egli di istinto, abbassò il capo per guardare le proprie scarpe e in questo modo si tradì. Fermato dai Carabinieri e messo sotto torchio ammise di aver ucciso la ragazza perché gli aveva resistito.” Ricordo un fatto analogo accaduto nel 1956 a Cosenza, un agricoltore ultrasettantenne, confessò sul letto di morte, di aver ucciso una pastorella. Accadde in questo modo, l’uomo nel 1906, incontrò in un luogo isolato una giovanissima pastorella, la voleva ma lei gli resistette. Allora il bruto con un colpo di accetta la colpì ad un braccio, quasi mozzandolo e la stuprò, poi la gettò da un dirupo. Per decenni l’omicidio rimase insoluto sino alla confessione in articolo mortis. Stessa cosa accadde, ma con un lieto fine, ad una pastorella di appena 10 anni a Cavalese, Claudia Bellante, rapita da un uomo su una 850 e trattenuta per 11 giorni in una baita in montagna. Ci furono battute con un migliaio di uomini e alla fine con l’ausilio dei cani , fu trovata la baita dove l’uomo teneva la bimba. Era un folle tuttavia innocuo e non torse un capello alla piccola.
Antonietta Signorile 16 anni Lorenzo Bianchi 26 anni Regione Lionetta (Albenga) 1 giugno 1976 Lorenzo e Antonietta erano una coppia di fidanzatini residenti lui ad Alassio e lei ad Albenga, molto diversi tra loro, lei giovanissima sedicenne ,senza esperienze di vita, bravissima ragazza , appartenente ad una numerosa famiglia, con cinque fratelli, e lui, Lorenzo già con precedenti penali per furti, rapine, prostituzione. La ragazza lavorava in una pensione ad Alassio come cameriera e proprio di fronte alla struttura alberghiera, abitava Lorenzo. I due ragazzi, dopo essersi conosciuti, avevano iniziato a frequentarsi, si amavano e forse lei progettava con il suo amore di riportare Lorenzo sulla retta via,dopo che era stato liberato di recente dal carcere, ma non è andata così purtroppo. I ragazzi quella sera, come al solito, si vedevano e sarebbero usciti assieme incontrandosi alle 22 sotto la casa di lei, lui era venuto a prenderla su un’auto , una Fiat 124 di colore verde, che gli era stata prestata da una commerciante di Albega, Jole C. .I loro cadaveri verranno ritrovati in quella stradina su quell’auto, alle 6 del mattino successivo, morti, devastati da alcuni colpi di doppietta, lei reclinata sul corpo di lui. Il bersaglio era sicuramente Lorenzo, Antonietta si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e ha perso la vita per questo. Esiste anche una misteriosa figura di un giovane, dal marcato accento napoletano, che pare fosse con Lorenzo quando questi venne a prendere in auto Antonietta e che ricomparve, da solo, verso le 2 del mattino senza la coppia. Di questo ragazzo nessuno sa dire il nome. La madre della ragazza nota l’auto con la coppia e con i due passeggeri seduti dietro, transitare sotto casa, in seguito li riconoscerà anche in sede di giudizio. Dai rilievi successivi si accerta che gli assassini erano due, saliti entrambi sull’auto e sedutisi sui sedili posteriori da dove hanno iniziato l’azione, inoltre al Bianchi è stato sparato inizialmente un colpo con una cal. 7,65 da dietro, la pallottola ha perforato il cranio e ha raggiunto la base dello sterzo. Il bossolo è stato trovato dietro, sotto i sedili. Evidentemente i due killer da dietro, hanno iniziato a discutere con il Bianchi, poi hanno deciso di sparargli un colpo di pistola alla testa, la ragazza si è intromessa e ha ricevuto un colpo di lupara alla mano e al braccio, quindi i due sono scesi e hanno sparato alla coppia dai finestrini finendoli. Fu una spietata esecuzione portata a termine con una ferocia incredibile, due ragazzi così giovani non dovevano morire in quel modo. Le indagini portano subito al mondo scuro che Lorenzo frequentava e in particolar modo ad una rapina avvenuta poco tempo prima, compiuta alla filiale bancaria dell’Ospedale Santa Corona, Lorenzo conosceva molti particolari connessi a questa rapina e avrebbe chiesto un prezzo troppo elevato per il suo silenzio, a persone che non potevano accettare ultimatum da un ragazzo, in quanto loro si consideravano capi malavitosi di alto rango, quindi molto probabilmente qualcuno molto in alto nell’organigramma della malavita organizzata diede l’indicazione di liquidarlo. La povera Antonietta che non c’entrava nulla con quel mondo perse la vita forse perché aveva visto i killer in faccia. Forse Lorenzo si era portato dietro la sua fidanzatina perché riteneva che la sua presenza lo avrebbe garantito da eventuali aggressioni ma si sbagliava. L’incontro tra la coppia e i due killer avvenne in un locale notturno, Il castello a Pietra Ligure, dopo qualche ora i quattro sulla stessa auto si spostavano in direzione di Albenga, in località Lionetta dove la discussione prese una brutta piega esi concluse con il duplice omicidio. Nei giorni successivi vengono fermati dai Carabinieri del Capitano Riccio due personaggi , Luigi D.R. e Fedele L.R., indagati e rinviati a giudizio. Il Procuratore della Repubblica definirà queste due persone nella sua arringa, come “ due boss che impongono la legge spietata del racket”. In primo grado D.R., di Afragola, verrà condannato all’ergastolo e l’altro imputato, L. R. assolto per insufficienza di prove, in Corte d’assise a Genova, Anche in Cassazione la sentenza verrà confermata, nonostante l’imputato continui a proclamare la sua innocenza. Sconterà la su pena presso il Carcere di Procida. Dopo sette anni di pena, chiese un colloquio con un magistrato in cui confessò il duplice omicidio dei due giovani e fece una chiamata di correità nei confronti dell’altro imputato prosciolto. Tuttavia questa sua dichiarazione non ebbe nessun effetto pratico visto che la sentenza era già passata in Cassazione. Secondo le sue dichiarazioni Lorenzo avrebbe voluto una tangente sui guadagni da prostituzione nella zona e questo avrebbe causato la sua condanna a morte che avrebbe coinvolto la sua giovane fidanzata.
Giovanni Solvero Osiglia 8 marzo 1990 Giovanni Solvero detto Tonin, 65 anni, aveva fatto la scelta di abitare in una cascina isolata ad Osiglia in località Fornacione, non sposato, stava lontano da tutti, anche dai parenti più stretti, peraltro non aveva che una sorella più anziana di lui, cieca , con cui non si incontrava da anni, gradiva solo la compagnia di un cane lupo con cui divideva la casa. Di corporatura robusta, era di buon carattere, socievole e comunicativo. Tuttavia non gradiva le intromissioni nel suo terreno dei cacciatori, dei cercatori di funghi o dei nomadi e aveva fatto cintare la sua proprietà di recente, anche se non aveva grandi ricchezze da proteggere. Non si fidava delle banche e teneva , come molti contadini in quella zona, i denari nascosti in casa. La mattina dell’otto marzo 1990, qualcuno lo colpisce mortalmente con una accetta che era nel fondo di Solvero e lo uccide con quattro fendenti che non lasciano scampo al contadino. Poi non visto si allontana senza lasciare traccia. Alle 8 del mattino una persona che vuole mantenere l’anonimato e che rimane temporaneamente sconosciuto, avvisa i Carabinieri della presenza del cadavere nell’aia della cascina, in seguit verrà identificato e interrogato in Caserma come persona informata dei fatti. Il corpo, quando viene rinvenuto, giace in un lago di sangue, fra la sua auto, una Ford Escort e la scala che porta al piano superiore dell’abitazione. L’aia della cascina è in disordine e probabilmente lo è da anni, la vittima che sta steso supino sul terreno dell’aia, indossa il suo abituale abbigliamento da campagna : un maglione di lana grezza, un paio di pantaloni sdruciti e ai piedi porta un paio di scarponi. Un testimone afferma di essere transitato dalla cascina intorno alle 7,30 e di non aver notato nulla, quindi l’omicidio deve essere accaduto nella mezzora successiva. Sulla fronte e sulla nuca di Solvero si potevano notare diverse e profonde ferite e l’accetta era stata abbandonata a pochi metri dal corpo. Chi l’ha usata per ammazzare il contadino, l’ha poi lavata sotto una fontanella e asciugata con uno straccio anch’esso abbandonato nell’aia che era tutta coperta di schizzi di sangue. La gente conosceva la vittima come una brava persona, viveva di poco, quel poco che gli poteva dare la terra del fondo che coltivava, essendo un uomo solo, viveva in un gran disordine, allevava dei maiali e come reddito godeva di una modesta pensione che gli garantiva un minimo di sopravvivenza. Durante la guerra, Solvero aveva fatto parte, per circa un anno, di una banda partigiana che operava nella alta Valle Bormida, forse il movente dell’omicidio andrebbe cercato in quel periodo, non troppo lontano, in cui spesso avvenivano delle atrocità da una parte e dall’altra, che indubbiamente possono aver lasciato dei rancori ancora vivi. A un centinaio di metri dalla cascina di Solvero, fu ucciso, 26 anni prima, un altro contadino, Enrico Damilano di 69 anni ex dipendente dell’ACNA, probabilmente a colpi di bastone, infatti la vittima aveva diverse ecchimosi sul ventre, nonostante questi segni inquietanti la morte fu rubricata come per cause naturali e quindi archiviata dalla Procura. Dopo l’omicidio di Solvero, il fatto acquista una luce diversa. Inoltre ad accrescere l’interesse per questi misteri si sa che uno dei figli del Damilano, di appena diciassette anni , nel corso della guerra sparì misteriosamente e non venne mai ritrovato. Qualcuno affermò che erano stati i Nazifascisti ma non vi furono mai riscontri oggettivi da parte del Comando Germanico. Potrebbe esserci la possibilità che le due morti siano collegati in qualche modo alla sparizione del giovane figlio di Enrico Damilano. Un altro dato obiettivo con cui devono fare i conti gli inquirenti è la difficoltà a reperire notizie certe di quel periodo burrascoso della nostra Nazione. Dopo mesi ed anni, l’omicidio di Giovanni Solvero rimase un mistero e la morte di Giovanni Damilano anche. La gente del posto continua ad affermare, a bassa voce, che la radice di questi delitti è da ricercarsi nel periodo della guerra civile che insanguinò quelle zone, in cui spesso abitanti dello stesso paese indossavano divise diverse.
Antonio Rosu Noli 40 anni 22 gennaio 1985 Il Signor Eugenio Fontana, Nolese d.o.c., detto “pignatin” il 13 aprile del 1985, stava legando delle viti con del filo di ferro, si accorse di averlo finito e allora si mise in movimento per trovarne degli altri, stava lavorando nel suo fondo agricolo in via De Ferrari a Noli, si avvicinò alla cisterna di acqua irrigua, vi salì sopra, spostò la grata e gettò uno sguardo distratto verso l’apertura superiore, gli sembrò di vedere una massa scura sul fondo di circa una cinquantina di cm., incuriosito ,prese una pertica e provò a smuovere l’acqua e dal fondo emerse un cadavere gonfio in avanzato stato di decomposizione che iniziò a galleggiare. Il contadino terrorizzato gettò la pertica e corse giù sul mare sino alla caserma dei carabinieri per avvisare del singolare ritrovamento. In base ad una chiave, ad un amuleto e a due collanine con dei ciondoli fu identificato per Antonio Rosu, di anni 40, di professione muratore d’inverno e bagnino nella bella stagione. Non era nella cisterna casualmente ma perché qualcuno forse ce l’aveva messo allo scopo di occultarne il cadavere. Il perito settore non trovò segni evidenti di violenze sul corpo , cranio intatto, nessuna ferita da taglio o da arma da fuoco e quindi attribuì la morte ad annegamento, ma egli era un provetto nuotatore quindi non poteva annegare in cinquanta centimetri di acqua ferma a meno che non vi fosse spinto con la violenza. la data della morte fu fatta risalire ad un mese prima del ritrovamento nella cisterna. L’ultima volta che fu visto in vita era il 22 gennaio, dopo nessuno lo ha più visto, viveva solo, non aveva legami sentimentali evidenti, girava per i bar del paese parlando con gli avventori. Dal punto di vista lavorativo era molto considerato sia come muratore che come bagnino e anche dal punto di vista umano era considerato una persona buona, gentile e disponibile ad aiutare il prossimo, proveniva da una numerosa famiglia Sarda di 12 fratelli, tutte persone per bene. L’unico fatto di un certo rilievo riguarda una aggressione di cui fu oggetto da parte di quattro sconosciuti. La procura dopo qualche settimana archiviò il fatto come una disgrazia , nonostante il parere contrario dei parenti, che dopo qualche anno, nel 93, presentarono un esposto in cui chiedevano la riapertura del caso ritenendo che si trattasse di un omicidio, infatti secondo il loro perito di parte, Antonio sarebbe stato ucciso, forse annegato oppure soffocato con un bavaglio , in un altro sito e poi nascosto morto nella cisterna e dopo qualcuno ha calato una grata sulla superficie della cisterna. Antonio secondo i suoi parenti e secondo alcuni amici, frequentava una donna di Vado Ligure sposata con un personaggio molto pericoloso e questa potrebbe essere la causa riconducibile alla sua morte che quindi non sarebbe accidentale. Ancora oggi questo omicidio è senza firma, un altro assassino che gira libero.
Armando Olivieri 4 settembre 1980 42 anni Pallare ( SV ) Questa è la classica storia dove al centro della contesa fra due maschi, c’è una donna, anche se non giovanissima, ha infatti 34 anni, anche se è sposata e ha oltre al marito, due figli, anche se non è una elegante lady ma bensì una contadina che vive in una casa rurale e che porta le vacche al pascolo. Questa donna, Carla B., da una decina di anni ha una relazione extraconiugale oramai stabile, con un pensionato del posto, molto benestante, Emilio Pizzorno di 58 anni, con cui si incontra appena possibile. Tuttavia la Carla, conosce un altro uomo, tale Armando Olivieri , di Carcare, di anni 42, operaio in una vetreria , sposato con due figli, e progetta di incontrarsi con lui ,trascurando il primo amante, Emilio. La donna che indubbiamente esercita un forte fascino su questi due maschi , si divide tra i due e impone al pensionato cinquantottenne di incontrarla soltanto alla mattina, quando lei accompagna le vacche al pascolo, evidentemente in altro orario Carla vedeva Armando. La dinamica in questo triangolo amoroso è molto primitiva, e potrebbe sfociare in gelosie molto violente, cosa che infatti accade. A poca distanza dal casolare dove vive Carla l’oggetto del desiderio di questi due contendenti, col marito e con i due figli oltre che al bestiame, alla sera del 4 settembre 1980, Emilio armato di una doppietta, in mezzo al bosco, spara due colpi a pallettoni calibro doppio 0, al rivale uccidendolo sul colpo. Il corpo verrà trovato il giorno successivo su di un sentiero nel bosco di Pallare da un abitante di Biestro e la Carla affermerà di non aver udito alcun rumore sospetto, tanto meno spari perché guardava la tv. Si appura che la vittima aveva un appuntamento nella località Casotto, si era fatto accordare un’ora di permesso dalle vetrerie, si era portato dietro una torcia elettrica e aveva nascosto l’auto in una cava per risalire il viottolo dove qualcuno gli aveva sparato. I Carabinieri risalgono facilmente al Pizzorno, che viene sottoposto all’esame del guanto di paraffina ed è l’unico che viene sottoposto a questo esame per stabilire se abbia usato armi da fuoco, e che risulta positivo, a questo punto non può negare la sua responsabilità nell’uccisione dell’Olivieri, ma tenta di negare il movente passionale che lo porterebbe ad una accusa di omicidio premeditato, affermando che è stata una tragica svista, secondo la sua tesi avrebbe sentito dei rumori provenienti dal bosco e sentendosi minacciato avrebbe fatto fuoco. Viene rinviato a giudizio, mentre la Carla è denunciata per favoreggiamento e si fa anche un giorno in cella di sicurezza. Nel corso del processo in corte di Assise a Savona, affermerà di aver sparato nel buio, sentendosi minacciato non sapendo contro chi avesse fatto fuoco e ipotizza la presenza di un terzo uomo che si prendeva gioco della Carla durante i suoi incontri di amore. Quando vide l’Olivieri steso sul viottolo, non lo soccorse in quanto a suo dire, non c’era più nulla da fare, i pallettoni avevano devastato il cranio del poveretto. Il processo si concluderà con una condanna a 14 anni oltre ad una provisionale di 20 milioni che Pizzorno verserà alla vedova dell’Olivieri.
Arrigo Molinari Ex funzionario di polizia 28 settembre 2005 Andora Andora, complesso residenziale Ariston, un tranquillo agglomerato di bungalows, di proprietà di un ex funzionario della polizia, il Questore a riposo Arrigo Molinari, è notte quando un ladruncolo tenta di introdursi nella direzione del villaggio turistico. Il ladro conosce perfettamente la topografia dell’interno, visto che ci ha lavorato come cuoco, spera di trovare dei soldi, non è la prima volta che entra di soppiatto senza essere mai visto. Inoltre sa che non esiste servizio di sorveglianza. C’è solo un vecchio signore che dorme all’interno della struttura turistica Arrigo Molinari che in teoria dovrebbe essere nel sonno più profondo, ma solo in teoria, infatti Molinari dopo aver subito due furti è in stato di allerta. Molinari è un vecchio poliziotto non dorme, anzi sta alzato ben vigile e presente a sé stesso. Il ladro per introdursi all’interno, afferra un cric e rompe un vetro. Il rumore del vetro infranto allarma Molinari che si dirige verso la sorgente del rumore. Il ladro si trova di fronte l’ex funzionario, che forse lo riconosce. Iniziano a lottare, Molinari ancora abile nel corpo a corpo, afferra al collo il ladro che inizia a trovarsi in difficoltà, afferra la prima cosa che trova a portata di mano, un coltello e colpisce mortalmente il suo antagonista che crolla a terra in un lago di sangue. Quindi il ladro fugge dal residence. In seguito confesserà al suo legale e si consegnerà spontaneamente . E’ un aiuto cuoco di Toirano che aveva già lavorato al residence e voleva ancora rubare come d’altra parte aveva già fatto altre volte. Affermava di cercare delle armi che sapeva essere in possesso dell’ex Questore, ma gli è andata male o meglio è andata molto male a Molinari che è morto per due fendenti di cui uno al collo che non gli ha dato scampo. Tutto sembra quadrare ma forse è meglio esaminare le caratteristiche della vittima e a questo punto nascono delle perplessità, molto, molto forti. Arrigo Molinari era un super investigatore, non solo preparatissimo dal punto di vista tecnico e professionale ma era anche un servitore dello Stato o meglio della ragion di Stato. Commissario a San Remo per una quindicina d’anni, vice questore nel capoluogo Ligure e Questore a in Sardegna a Nuoro, quindi agente operativo dell’Ufficio Affari Riservati presso Il ministero a Roma, Direttore della Scuola di Polizia di Ventimiglia, negli anni 50 indagò sull’O.A.S. l’organizzazione dell’esercito segreto, contribuì a bloccare il clan del marsigliesi che stava infiltrandosi in Nord Italia compiendo rapine particolarmente violente e sanguinarie, poi si trovò a confrontarsi con il fenomeno emergente delle Bierre, perseguendo Senzani e Fenzi, allora docenti universitari di rilevo. Poi, ci fu il caso Tenco, il cantante che si sarebbe suicidato con un colpo di pistola in albergo a San Remo per non essere stato ammesso alla finale del festival, quello che non convinse l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori, fu la serie di strani spostamenti del cadavere tra l’obitorio e l’albergo. Molti trovarono improprio e strano che un uomo di grande esperienza ed intelligenza come Molinari, facesse una fine simile, fu come se un testimone scomodo di quasi mezzo secolo di indagini venisse tolto di mezzo, in un modo troppo veloce e repentino. Inoltre pare che la vittima avesse a suo tempo aderito alla Loggia P 2 . Arrigo Molinari era anche il personaggio che aveva, quando "regnava" a Genova, libero accesso alla redazione di un grande quotidiano locale e negli anni successivi anche nella redazione, dello stesso giornale, di Savona. In queste sue frequentazioni aveva lo strano hobby di registrare le sue conversazioni con i redattori del giornale. Pare che le registrazioni finissero in un dossier a futura memoria, si era negli anni 80, ai tempi dell’affare Teardo .
Barbara Calvo 21 anni 19 dicembre 2000. Barbara Calvo è una bellissima ragazza bionda di 21 anni, con un bel sorriso, di Albenga località Campochiesa, scomparsa da casa senza lasciare traccia, viene trovata da una pattuglia dei carabinieri della Stazione di Pieve di Teco, il 1 gennaio 2001, ai piedi del viadotto Trexenda, al passo Cesio presso Pieve di Teco, a poca distanza dalla carcassa della sua auto precipitata, una polo grigia , e lei a breve distanza dal mezzo. Non vi sono segni apparenti di violenza. La ragazza uscita di casa dalla casa della famiglia con cui viveva a Campochiesa, sarebbe dovuta tornare nel giro di pochi minuti ma invece non è tornata, aveva lasciato a casa gli occhiali e il liquido per le lenti a contatto quindi stava per tornare, i suoi genitori erano usciti a mangiare una pizza con l’accordo di vedersi tutti assieme in casa. Poi più nessuna notizia e appena la famiglia denuncia la scomparsa, la zona viene battuta alla sua ricerca , anche un elicottero si alza in volo per effettuare delle ricerche in volo, era stata cercata ovunque anche attraverso una nota trasmissione televisiva che si occupa di persone scomparse, centinaia di manifesti stampati dal babbo tipografo, con la foto del suo viso erano stati affissi ovunque in Liguria senza alcun risultato tangibile. Tuttavia alcuni fatti fanno nascere delle perplessità , la famiglia durante le ricerche ricevette delle telefonate minatorie, il corpo della vittima venne ritrovato quasi composto a breve distanza dal rottame dell’auto, una Volkswagen Polo targata SV 435494, come se fosse stato posato lì, per poter cadere nel vuoto l’auto avrebbe dovuto attraversare una stretta apertura nel guardrail e poi precipitare nel vuoto, insomma una azione abbastanza complicata per chi volesse suicidarsi .Il 26 dicembre un testimone avrebbe visto la ragazza parlare con un uomo, sempre sulla Statale 28, l’atteggiamento dell’uomo era minaccioso, tuttavia il testimone non si fermò e proseguì per la sua strada e sempre lo stesso giorno due bracconieri avrebbero visto l’auto già nel dirupo. Per gli amici e i genitori barbara era una ragazza vivace e con tanta voglia di vivere, che mai e poi mai avrebbe solo pensato al suicidio, era anche entusiasta per il nuovo lavoro che aveva trovato. Una delle ipotesi che si fa è che possa essere incappata in qualcuno che le abbia fatto del male e poi abbia deciso di inscenare un suicidio. Di questo caso, tuttora irrisolto si è anche occupata la trasmissione “Chi l’ha visto “.
Bernardo Fucione, Caterina Patrone, Oreste Fucione Località Campasso, Stella Santa Giustina ( Savona) 21 giugno 1925 Bernardo Fucione di anni 56, la moglie Caterina Patrone di anni 40, e il piccolo figlio Oreste di appena 12 anni, si guadagnavano da vivere facendo gli agricoltori, abitavano una piccola cascina in località Campasso a poca distanza dall’abitato di Stella S. Giustina. L’intero nucleo famigliare venne sterminato in pochi minuti intorno alle 12,30 . Fu una strage compiuta a colpi di roncola o di accetta , il primo corpo ad essere trovato è quello del capo famiglia, Bernardo, che ha tentato di fuggire lungo un sentiero che scende al paese ma è stato inseguito e raggiunto e colpito ripetutamente e lasciato in una pozza di sangue, poi è stata rinvenuta la moglie, ammazzata in casa, al primo piano in camera da letto e abbattuta anch’essa, con diversi colpi di accetta, poi il figlio, il piccolo Oreste, il quale deve aver sentito le urla della donna e probabilmente ha tentato la fuga ma anch’esso ha fatto poca strada, raggiunto e ammazzato sempre con la stessa arma poi abbandonata accanto al corpicino, rossa di sangue sino alla metà del manico. Alcuni contadini dopo aver rinvenuto i tre cadaveri corsero ad avvisare i Carabinieri che accorsero sul posto in seguito piantonato dai soldati che sono di guarnigione al Forte del Giovo sino all’arrivo del magistrato. C’è una coincidenza inquietante, nello stesso paese qualche mese prima, un contadino fece la stessa orrenda fine della famigliola Fucione, nella stalla della sua casa colonica solo la moglie riuscì ad avere salva la vita fingendo di non conoscere l’omicida che invece le era ben noto. Due ragazzini Faustino e Pierino Pescio, amici di giochi dell’Oreste, sono gli unici testimoni oculari del pluri omicidio , affermarono che mentre erano sul versante della collina di fronte alla cascina, di aver inteso delle urla disperate e di aver quindi visto Oreste correre disperatamente inseguito da un uomo armato di una scure. Essi riconobbero nell’inseguitore tale Luigi Frecceri, infatti gridarono all’indirizzo dell’inseguitore < è Luigi è Luigi !> ma nonostante fosse sicuro di essere stato riconosciuto, non desistette dall’inseguimento, anzi li minacciò da lontano agitando la scure verso di loro. Luigi Frecceri, un trentenne forte e robusto, era il nipote di Caterina, frequentava assiduamente la casa dei Fuscione. Uomo molto solitario e di carattere chiuso, non aveva mai avuto una fidanzata, emigrato in Nord America, aveva soggiornato qualche anno in California e poi con i soldi guadagnati, era tornato a Santa Giustina comprando un casolare a circa 200 metri dalla abitazione dei Fuscione dove abitava da solo, lontano dai suoi fratelli con cui non aveva rapporti. Da una delle ricostruzioni dei Carabinieri, Frecceri intorno alle 12 di quel giorno fosse a casa della zia, di cui era appunto assiduo e con cui aveva iniziato una animata discussione, nella camera al primo piano, forse il confronto ha preso una brutta piega e Freccero ha colpito la donna con l’accetta alla guancia e al braccio destri, quasi recidendo di netto la mano dal polso, il colpo successivo lo calò sul capo abbattendo la donna. Il marito era nella stanza attigua che si radeva con un rasoio, sentendo l’accaduto entrò nella stanza da letto e con quello strumento affrontò il nipote ferendolo al viso, ma ebbe la peggio e tentò di fuggire da basso per le scale, inseguito dall’assassino che lo raggiunse in fondo al sentiero e lo colpì ripetutamente alla nuca sino ad ucciderlo. Il piccolo Oreste aveva visto tutto, bloccato dal terrore, appena vide l’assassino puntare verso di lui provò a scappare ma venne raggiunto dalle lunghe falcate dell’uomo e colpito alla tempia, alla guancia e al viso che si aprì in due parti. Poi Freccero posata la scure, fuggì nel bosco verso la sua abitazione, questa è la versione ufficiale del fatto anche se ce ne furono altre non suffragate da elementi probanti. I bimbi che assistettero al macello di Oreste diedero l’allarme in paese ai contadini che corsero a portare soccorso, inutilmente , infatti i tre corpi erano devastati, e ai Carabinieri che iniziarono subito le ricerche di Frecceri. Fu rastrellata tutta la zona, anche una miniera venne ispezionata senza trovare nulla. Il giorno successivo , una pattuglia di Carabinieri di Stella S. Giovanni trovano il cadavere dell’assassino che galleggiava in laghetto denominato Gotto, morto da ore. L’orologio era fermo alle 13, quindi la morte risaliva a mezzora dopo la strage, anche in questo caso non si appurò se fosse stato un suicidio oppure una caduta incidentale finita in un annegamento.
Bruno Pasero 5 aprile 1985 Albisola Capo Canosio è un piccolo borgo della Valle Maira in provincia di Cuneo, abitato da un centinaio di anime, alto 1200 metri sul livello del mare, aria pulita e vista sulle montagne, negli anni 80, da questo pugno di case era giunto ad Albisola, Bruno Pasero di anni 43, Piemontese d.o.c. , con una valigia piena di vestiti ed altri effetti personali e soprattutto con la voglia di costruirsi una nuova vita magari trovando un altro lavoro più confacente alle sue aspirazioni. Magro, con un paio di baffi, era un uomo solo e senza affetti, al paese da dove veniva, aveva un fratello Lorenzo, che aiutava a gestire un piccolo albergo, il Miramonti. In realtà in Liguria le aspirazioni migliorative del Bruno non vennero soddisfatte pienamente, lavorò in qualche ristorante della zona come aiuto cuoco poi rimase senza un lavoro, cominciò a vagare per il bar della zona, tra Savona ed Albisola e dato che aveva la qualifica di invalido, venne ospitato a spese del Comune di Albisola in un alloggio parcheggio, Villa Bianca, dove soggiornavano persona bisognose di assistenza sociale. L’uomo viveva una apparente e triste quotidianità, fino a quando venne trovato morto, in circostanze molto inquietanti: impiccato alla ringhiera di un condominio di Albisola Capo a poca distanza dall’Aurelia , all’interno di un cortile condominiale, ad una altezza di un metro e mezzo da terra, al collo aveva un laccio stretto, gli arti inferiori erano flessi in un modo innaturale, chi ha trovato il cadavere afferma che i polsi erano legati dietro la schiena ma non ci sarebbero conferme ufficiali a questo particolare, invece sul capo aveva diverse e profonde ferite che sembrano prodotte da percosse, la morte risaliva ad almeno sei ore prima del ritrovamento. L’idea che si erano fatti gli investigatori dei Carabinieri, era che fosse stato coinvolto in una lite , finita male , e che qualcuno avesse voluto mascherare la morte di Bruno Pasero, inscenando un suicidio a mezzo impiccagione. L’uomo, che soggiornava ad Albisola da circa tre anni, era conosciuto come una persona innocua non conflittuale, inoltre non possedeva somme di denaro che potessero giustificare una rapina, a parte alcuni ricoveri in ospedale per cure cardiologiche e per leggere intossicazioni a livello epatico , nulla di serio, aveva poi trascorso la convalescenza a Canosio dal fratello per poi tornare ad Albisola. L’unico neo nella sua vita era rappresentato da un denuncia per un piccolo furto. Anche al suo paese natale saputa la notizia , tutti sono rimasti sconvolti dalla notizia e soprattutto dalle modalità in cui è stato trovato morto. Le perquisizioni nel piccolo alloggio dove egli viveva, non hanno portato ad alcuno risultato, solo disordine e abbigliamento sparso. All’interno del cortile dove è stato trovato il corpo vi sono dei ponteggi che sarebbero stati più idonei ad un suicidio ammesso che così sia avvenuto e invece è stata usata una ringhiera di un ballatoio. Inoltre pochi giorni prima di essere trovato morto aveva spedito una cartolina al suo paese con sei saluti. Tutto questo non fa presupporre una volontà suicida. Anche questo è una morte senza spiegazioni.
Calogero Messina detto Lillo Borghetto Santo Spirito 24 maggio 1983 19 anni Calogero era un giovane artigiano di Borghetto, figlio di un commerciante di frutta e verdura, come molti altri proveniva dal sul dell’Italia, bravo ragazzo e gran lavoratore, atletico e prestante, piaceva molto alle donne della zona. Fu trovato nel maggio del 1983, alle 1,30 del mattino del 24 maggio 1983, agonizzate in un lago di sangue con vaste ferite al torace da arma da taglio, in una traversa privata che va in direzione di Toirano. Era stato accoltellato senza pietà con diversi fendenti. Trasportato dall’ambulanza a santa Corona vi spirò nonostante tutti i tentativi di salvarlo. La dinamica fu ricostruita nel corso del processo , secondo il P.M. il ragazzo si vedeva con alcune donne che esercitavano il mestiere più antico del mondo sulla Strada Statale n. 1, le donne erano sensibili al suo fascino, ma queste avevano , una in particolare, un protettore. Secondo la tesi dell’accusa durante il processo, la donna che si era incontrata con Calogero, disse al suo protettore di essere stata rapinata dell’incasso della notte e indicò come responsabile del furto proprio il giovane artigiano. Il magnaccia lo accoltellò a sangue, lasciandolo rantolante nel vicolo e , pare, impedendo ai presenti di soccorrerlo. Ovviamente il ragazzo venne attirato in una zona buia con uno stratagemma e colpito con un fendente al cuore che non gli lasciò scampo. Esperto di arti marziali e molto forte fisicamente aggredito da più persone si difese strenuamente ma probabilmente venne trattenuto alle spalle mentre il suo assassino lo colpiva al cuore con un coltello. Resosi conto di avere una fortissima emorragia al torace, il giovane carpentiere si toglieva la camicia e con essa tentava di bloccare la perdita di sangue senza tuttavia riuscirci. L’ambiente notturno che il giovane frequentava si è chiuso a riccio ed è permeato da una omertà molto profonda che non permette di arrivare ad ottenere confidenze. Tuttavia a marzo dell’84, viene rinviato a giudizio Antonio Di Caprio, pare che il movente fosse il fascino che Calogero, bello e affascinante, avesse sulle donne della scuderia del di Caprio che assieme ad altri gestiva in zona. A indirizzare gli inquirenti verso il Di Caprio fu una segnalazione anonima, in effetti egli aveva gli abiti sporchi di sangue e il giorno successivi alla morte del ragazzo si era trasferito a Genova dove fu fermato dalla polizia. In seguito nel corso di un processo, l’imputato fu prosciolto e ancora oggi non si sa chi abbia ucciso a coltellate il povero Calogero.
Carlotta Michetti 16 febbraio 1923 Gli squartatori di Bormida Carlotta Michetti era una solida donna di campagna, abitava a Bormida, ben voluta da tutta la popolazione di Bormida, aveva 63 anni, da tempo la donna che viveva sola, in una umile casa colonica era costantemente in lite, per motivi di proprietà e di confini, con una famiglia vicina, i Zunino. Come accade in questi casi, i litigi erano continuativi e avevano portato la Carlotta addirittura a essere aggredita dalla famiglia dei vicini, Bernardo Zunino di 47 anni e Maria Teresa Giribone di 44 anni. A seguito di questa zuffa, Carlotta aveva sporto querela, poi ritirata a seguito di pagamento dei danni da parte dei Zunino. Il 16 febbraio del 1923, la donna scomparve, tutte le ricerche furono vane, era come volatilizzata. I suoi vicini affermarono che era partita per la riviera dove aveva dei parenti e che prima di partire aveva venduto loro una capra e un certo quantitativo di castagne. L’atteggiamento degli Zunino era molto sospetto visto che spesso cambiavano la versione sulla sparizione della vicina. Improvvisamente Bernardo si allontanava e raggiungeva la Francia come per sfuggire a qualcosa. Nel corso di una perquisizione nella abitazione dei Zunino, si rinvennero degli effetti personali della Michetti , lenzuola e stoviglie, all’interno della casa dei Zunino. Particolare inquietante nella stalla della Michetti, fra il letame furono trovati uno scialle e un grembiule della scomparsa, macchiati di sangue oltre ad una calza della Carlotta sotterrata a poca distanza dalla abitazione dei Zunino. Inoltre un fratello di Bernardo, Basilio, fu notato una sera, nei pressi della casa della scomparsa, con un baule sulle spalle di cui affermò in seguito di ignorare il contenuto. In casa sua, i Carabinieri trovarono delle lenzuola a cui erano state strappate le iniziali identificative e soprattutto dei titoli per un valore di 8000 lire, non di proprietà dei Zunino. La moglie di Bernardo fu messa sotto pressione e confessò che il marito aveva ucciso la vecchia, inoltre ammise di aver dovuto lavare gli abiti del coniuge , lordi di sangue. La moglie e il fratello del latitante furono posti sotto arresto mentre le ricerche proseguivano. La confessione della Giribone è semplice e terribile allo stesso tempo: il marito uccide Carlotta, con una roncola, la smembra, si fa aiutare da lei e dal fratello per occultare il tronco con la testa a Tecchio Vecchio e gli arti a Ranco di Maglia, sotterrandoli. Inizialmente il corpo fu sepolto a poca distanza da casa, sotto un melo, poi fu dissepolto e dopo essere stato smembrato sparso nel raggio di un chilometro quadrato, nella notte del 1 maggio 1923. Fu un lavoro lungo e macabro. Bernardo Zunino fu arrestato in Francia e estradato in Italia, confessò di essersi incontrato nella casa della donna per offrirsi di acquistare la casa ma lei rifiutò, nacque una discussione che presto degenerò e l’uomo la aggredì e la colpì furiosamente con una accetta o una roncola, lei si difese strenuamente, infatti gli avambracci del cadavere apparivano segnati da profonde ferite da difesa, l’assassino dovette faticare non poco per finire la donna, cosa che fece con sette fendenti. Le urla della vittima avevano richiamato la moglie dell’assalitore che giunta sul luogo dell’aggressione aveva constatato l’accaduto. Tutti i Zunino in stato di arresto saranno rinviati a giudizio presso la Corte di Assise di Savona per omicidio volontario e furto. Il processo sarà seguitissimo da centinaia di persone che affolleranno l’aula della corte di Assise di Savona. Alla fine del dibattimento, Bernardo Zunino, riconosciuto colpevole, verrà condannato a 30 anni di detenzione più 10 anni di vigilanza speciale oltre alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, la moglie verrà condannata ad un anno peraltro già scontato in carcerazione preventiva e anche il fratello di Bernardo, Basilio sarà assolto.
CRISTINA Savona 23 settembre 2006 Per anni aveva aiutato la madre e il padre, nella gestione di una piccola gioielleria in centro a Savona, poi deceduti i genitori, aveva ceduto l’attività, continuando il suo lavoro come impiegata in ente pubblico. Cinquantenne, alta e magra, con gli occhi sporgenti e i capelli di un vistoso colore rosso, la si vedeva passeggiare per le vie dello struscio savonese, dopo la separazione dal marito in compagnia del suo cagnolino. Era una figura caratteristica della città. In estate si sedeva sulle panchine dei giardini della piazza della ex stazione per sfuggire al caldo, oppure per cercare qualcuno con cui scambiare qualche parola, preferibilmente uomini. La donna era invalida civile per un deficit visivo, pareva non avere svaghi particolari, fumava molto e giocava al lotto e basta. Abitava in un appartamento all’angolo tra Via Luigi Corsi e Via Guidobono, al secondo piano, da dove la si notava affacciata a guardare la strada, come se aspettasse qualcuno. Questa era l’immagine pubblica, in realtà c’erano altri interessi, la donna era una accanita giocatrice, inseguiva i numeri ritardatari, spesso perdeva cifre rilevanti e qualche volta vinceva, era cointeressata nella compravendita di oggetti antiquariato e in oro, era attratta dal mondo della divinazione e dell’occulto, progettava di leggere lei stessa i tarocchi a richiesta infatti aveva anche messo un annuncio sui giornali, consolidava le amicizie occasionali che faceva anche per strada, soprattutto quelle maschili . In una mattina di settembre del 2006 , una sua amica dopo averle telefonato inutilmente diverse volte, pensando al peggio, telefona il 118. Alle 12,30 circa, Cristina verrà trovata distesa sul letto in un lago di sangue, con alcune profonde ferite da arma da taglio al collo e al petto, un cordoncino stretto attorno al collo , molte ecchimosi segnano i suoi arti e il tronco, schizzi di sangue macchiano le pareti, la casa è a soqquadro e la televisione è accesa con il volume alto. L’autopsia stabilirà la morte nella notte tra il 23 e il 24 settembre, confermerà che qualcuno l’ha colpita con violenza e che lei si è difesa, almeno per quanto ha potuto, il setto nasale è fratturato, è stata colpita con un coltello che ha provocato vaste emorragie e infine è stata strangolata con un cordoncino da tenda. L’arma del delitto è a terra e viene esaminata. Chi l’ha uccisa non ha rubato nulla dall’appartamento, nonostante nella casa fossero presenti una somma di denaro e gioielli. Da subito si sospettò di due persone che frequentavano la sua casa, un pregiudicato e un promotore finanziario e anche di un tossicodipendente con cui lei ebbe una vivace discussione ai giardini, ma risultarono tutti estranei al fatto. Si cercò fra le sue numerose frequentazioni maschili e si stabilì che la donna riceveva nel suo appartamento, non sempre questo avveniva per motivi legati al sesso o per denaro. Anzi qualcuno dei suoi non era sicuramente prestante dal punto di vista sessuale. La donna frequentava molti uomini, per lo più maturi, spesso conosciuti per strada o ai giardini, il che li rende invisibili agli inquirenti. Ipotizzando che l’assassino si trovi tra di essi si comprende la difficoltà a identificarli. Nel 2008 la procura chiese l’archiviazione. Nel maggio del 2009 si completarono alcune indagini scientifiche, dopo aver controllato i tabulati telefonici, si esaminò il sifone e lo scarico dei lavandini della casa ed in effetti si trovarono tracce di DNA , la cui quantità non permetteva di fare comparazioni con quelle di un eventuale sospettato. Si filmò anche la Messa in suffragio per non lasciare nulla di intentato. Dopo due anni e mezzo di indagini serrate dal delitto, senza alcun risultato, la polizia iniziò a perdere le certezze iniziali. Ancora oggi, questo omicidio va a sommarsi quelli che sono avvenuti a Savona e zone limitrofe e che non hanno un responsabile. Un altro
Daniela 9 mesi Cairo Montenotte 15 agosto 1992 Nello stesso stabile dove anni prima due giovani ragazze erano state assassinate e dove il loro omicida si era suicidato gettandosi nel vuoto, accade un’altra terribile tragedia, questa volta in un appartamento al secondo piano: un uomo di 48 anni Nicola P. di professione operaio ma di fatto disoccupato, dopo l’ultima lite con la moglie , decide di compiere un gesto indegno di un padre, uccide la piccola figlia di appena 9 mesi, Daniela, la afferra per le caviglie e la sbatte con violenza e ripetutamente sul pavimento, davanti all’altro figlio di 2 anni che non scorderà mai quella scena. Poi prende il corpicino con il visetto tumefatto e la sistema sul letto matrimoniale, prende un mazzo di fiori e li posa accanto al corpicino, quindi attende il ritorno della moglie. La moglie, Franca di 36 anni, di professione bidella presso la scuola media locale, dopo l’ennesimo maltrattamento ad opera del marito, aveva deciso di andare dai Carabinieri per presentare denuncia di maltrattamenti e di lasciare definitivamente il marito violento, il quale aveva anche perso il posto di lavoro, arrivata in Caserma chiede ai militari di essere accompagnata a casa per poter ritirare i propri effetti personali. Giunta alla casa sotto scorta, incontra il marito per le scale, che le annuncia di averle ucciso il figlioletto. La donna disperata, accompagnata dai Carabinieri corre in casa e nella camera da letto trova la conferma alle parole del marito. Gli stessi Carabinieri sono increduli di fronte a questa tragedia a cui in tanti anni di carriera non hanno mai avuto la sorte di assistere. Viene chiamato il medico e l’ambulanza ma non c’è nulla da fare per soccorrere il piccolo Daniele, è morto. I Carabinieri arrestano l’assassino e lo portano in caserma, mentre la madre urla tutto il suo dolore. L’assassino confesserà che ha ucciso il bimbo per fare dispetto alla moglie. Nel febbraio del 1993, Nicola Pelle, dopo tutta una serie di perizie psichiatriche, sarà giudicato affetto di vizio totale di mente e il Gip ne ordinerà il ricovero in una struttura psichiatrica dove sarà curato.
Monica Loretta e Nadia 28 novembre 1987 Cairo Montenotte Monica e Nadia sono due giovani studentesse di 16 e 20 anni, belle ed intelligenti, frequentano le superiori, abitano assieme alla madre Tilde in un piccolo appartamento di Via Colla a Cairo, la donna separata da un caporeparto della Vetri Dego , proprio quella notte fatidica aveva le due ragazze a dormire a casa sua. Tilde di 42 anni, conviveva da 5 anni, con un imprenditore edile di 45 anni, Franco P, che all’esterno, pareva essere tranquillo, ma non era proprio così, l’uomo infatti era geloso, ossessivo, possessivo , seguiva la sua compagna di nascosto e l’aveva già minacciata di morte. I rapporti tra i due conviventi si erano deteriorati e la donna stava per uscire da quel rapporto che la stava facendo soffrire moltissimo, l’uomo , come tanti altri non accettava di essere lasciato. Quella notte mentre la sua convivente è a lavorare in una pizzeria del centro di Cairo, a mezzanotte passata, entra in casa della sua compagna usando una copia delle chiavi, affronta prima Monica, in quel momento sola, e la uccide strangolandola, poi rimane in attesa dell’altra figlia della Tilde, Nadia, e quando questa alle 2 rientra, le spara con una doppietta cal. 12 due colpi, il primo colpo la ferisce al fianco e il secondo la prende al collo dandole il colpo di grazia. L’arma si inceppa e Perini la abbandona nell’appartamento, quindi abbandona i due corpi e sale sino all’ottavo piano, raggiunge il tetto del palazzo e ci si barrica. Quando più tardi alle 4, arriva in ritardo, dal lavoro in pizzeria, la povera madre la quale si trova davanti i corpi devastati delle due ragazze, disperata chiama il 118, che non può fare altro che costatare la morte delle due povere vittime. Affluiscono sul posto anche i Carabinieri che cercano l’assassino, lo individuano sul tetto, da dove minaccia di suicidarsi gettandosi in strada. Lo stabile è circondato da ingenti forze di polizia e da tiratori scelti, arrivano anche i vigili del fuoco che vorrebbero catturare l’assassino con delle reti ma devono desistere. L’uomo getta giù in strada un foglietto dove ha scritto delle frasi deliranti, in cui esprime un folle e morboso attaccamento per la ragazza più giovane. Iniziano le trattative per ottenere al resa dell’artigiano che scrive sui muri delle frasi sconnesse in cui chiede perdono per quello che ha fatto. Arrivano anche i suoi parenti, fratello e madre, e un sacerdote che tentano di convincere l’uomo a desistere dal suicidio ed ad arrendersi. Passano diverse ore e si arriva al giorno successivo, con una folla di curiosi che segue la vicenda. Fa freddo, una patina di ghiaccio si è creata sul tetto, i colloqui con Perini allo scopo di convincerlo a desistere, si susseguono, prima il Parroco, poi il Comandante dei Carabinieri , in ultimo il Pretore tutti senza esito. Poi dopo 24 ore di assedio, di alternanze tra risa e pianti, tra urla e parole sommesse, a mezzanotte passata l’omicida, illuminato dalle fotoelettriche si getta dall’ottavo piano e pone fine alla sua vita.
sabato, giugno 28, 2025
martedì, giugno 24, 2025
Il bilancio delle vittime dell'attacco russo al Dnepr è salito a otto, secondo i dati aggiornati. 84 persone sono rimaste ferite, tra cui 10 bambini. Non molto tempo fa, le persone viaggiavano in questa carrozza. Ora le lenzuola sono intrise di sangue. Il paese terrorista deve essere punito per i suoi crimini.
lunedì, giugno 23, 2025
lunedì, giugno 16, 2025
sabato, giugno 07, 2025
lunedì, giugno 02, 2025
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