mercoledì, ottobre 26, 2016

La strage dell'ex O.P. di Vercelli



Anche il Piemonte non uscì indenne dalla Guerra Civile ed ebbe le sue numerose vittime.

L'ex ospedale psichiatrico di Vercelli
Una verità che si vorrebbe cancellare dalla memoria ma che pesa come un macigno sulla città di Vercelli.

Uscendo dal casello autostradale di Vercelli si affronta la tangenziale ovest che porta al centro cittadino, ai lati impianti industriali, autosaloni, si svolta a destra e ci si immette in Via Trino e dopo un ponte di modeste dimensioni a destra si nota una grande area boscosa, da cui emergono dei fabbricati di colore grigio, rosso mattone, con degli alti muri grigi e delle pesanti cancellate che cingono questo perimetro.
Una piazza si apre di fronte alla facciata scrostata dell'ingresso, ai lati del portoncino due grandi cancelli sbarrati, come pure sono sbarrate le finestre con delle vecchie serrande verdi.
Accanto a dei pini giganteschi una minuscola lapide con un simbolo e con un nastrino tricolore, circondata da un rettangolo di mattoni, tutto qui per commemorare tante vite spezzate dall'odio ideologico. Sul lato di sinistra accanto al muraglione grigio, vi sono decine di orticelli e così pure sul lato posteriore, altri orti provvisori, una pineta e una bassa vegetazione folta e rude che qui chiamano baraggia, sul lato di sinistra del muro corre una stradina sterrata, dove la notte si appartano le coppiette in cerca di intimità. Il sito è abbandonato da tempo, a parte i gatti e pochi operai di qualche ente locale, nessuno vi gira da anni.
Aggiro l'area dal retro e trovo un piccolo varco nella rete metallica, a fatica, utilizzando una vecchia scala ci entro. La vegetazione la fa da padrona, ovunque alberi di alto fusto che nessuno pota da anni, a terra erba alta e rovi, quelli che un tempo erano viali alberati sembrano prati incolti e sono coperti dagli aghi di pino. In mezzo a tutto questo verde invasivo si riconoscono una ventina di padiglioni in grande rovina, la maggior parte di grandi dimensioni che avevano un tempo, usi diversi: cucine, dormitori, magazzini, amministrazione e quant'altro.
Si respira un'aria di abbandono di desolazione e di morte, infatti questo posto nel 1945, era la caserma della 182° Brigata Garibaldina comandata da Giulio Casolare affiancato da un commissario politico , Giovanni Baltare. Soprattutto è l'epicentro di una strage avvenuta più di 70 anni fa, tra l'11 e il 13 di maggio del 1945 a guerra finita, compiuta con grande ferocia su 75 prigionieri appartenenti alla Repubblica.
Mi siedo su un muretto e mi guardo attorno e raccolgo le idee, dopo la caduta della R.S.I. i Fascisti di Vercelli , formano una colonna di circa 2000 unità, la cosiddetta colonna Morsero, dal nome del Federale di Vercelli, e muovono, ancora armati e inquadrati, verso Novara da cui proseguire per Valtellina senza poterla raggiungere.
Giunti a Castellazzo Novarese il 27 aprile, si arrendono alle formazioni partigiane del Novarese comandate da un certo Moscatelli. Tutti vengono concentrati per giorni nel Campo di calcio di Novara, in condizioni di igiene precaria. Decine di Novaresi dalle case sovrastanti l'area dell'impianto sportivo lanciano addosso ai poveretti rifiuti ed escrementi senza che i partigiani di guardia intervengano a fermare questa gogna crudele. Questa cosa va avanti sino al 12 maggio 1945, quando un reparto della 182° Brigata Garibaldina, arriva inatteso e pretende la consegna immediata dei prigionieri repubblichini che avevano operato a Vercelli. Moscatelli tentò di opporre resistenza alla inusuale richiesta poi , dopo un colloquio telefonico con Moranino, consegnò i prigionieri. L'intenzione era quella di liquidare i prigionieri prima dell'arrivo delle truppe Angloamericane che non volevano lasciare autonomia decisionale ai combattenti comunisti e non vedevano di buon occhio i cosiddetti tribunali del popolo e le numerose esecuzioni sommarie che derivavano dai loro giudizi.
Moranino, detto Gemisto, un ex operaio comunista di Tollegno, comandava la piazza di Vercelli e al comando di Biella c'era Ortona detto Lungo, laureato in legge e di professione impiegato, entrambi comunisti di provata fede e purtroppo entrambi futuri Parlamentari della repubblica Italiana.
Settantacinque Repubblicani vengono caricati su un autobus e su un autocarro e scortati sino all'ex Ospedale Psichiatrico di Vercelli, una dozzina di prigionieri sono fucilati frettolosamente appena fuori dal campo di calcio di Novara , poi la colonna prosegue e raggiunge il manicomio di Vercelli intorno alle 19 .
Medici ed infermieri sono obbligati ad allontanarsi mentre la violenza si scatena sui prigionieri, depredati, spogliati e pestati a sangue all'interno di un padiglione del manicomio, le cui pareti rimarranno macchiate a lungo di sangue. L'unico che assiste parzialmente allo scempio è un prete, il cappellano della struttura, Don Manzo, dopo aver dato l'assoluzione ai morituri deve uscire anch'esso. Nessuno deve vedere quello che accade.
Divisi in gruppi di 4 o 5, gli sventurati, inizia l'azione portata avanti dai gruppi di fuoco, con una brutalità ed una ferocia da manuale : una quarantina di fascisti vengono portati all'interno del palazzo comunale di Albano Vercellese, dove subiscono il solito processo farsa, poi allineati sul ponte di Greggio , uccisi a colpi di mitra e gettati nel Canale Cavour.
Un gruppo portato a Lazzirate e passato per le armi in un avvallamento, altri ancora vivi, immobilizzati con del filo di ferro e distesi sul piazzale antistante l'ingresso del Manicomio, schiacciati ripetutamente dalle ruote di alcuni camion in modo tale da fargli perdere ogni fattezza umana, ridotti ad informi mucchi di carne, altri ancora dati alle fiamme e ancora agonizzati per le ustioni sepolti negli orti posti a lato della recinzione.
All'alba del 13 aprile 1945, lo scempio era concluso, solo una decina di prigionieri era ancora in vita. Stranamente fu risparmiata loro la vita e furono tradotti al vecchio carcere di Vercelli.
La Questura di Vercelli ha quantificato , al ribasso, in cinquantuno il numero delle vittime del massacro, di 27 il numero degli esecutori materiali e di due i responsabili di questa strage.
Questo eccidio, completamente inutile e di matrice sadica, di cui si conoscevano i responsabili colpì enormemente l'opinione pubblica, anche quella che aveva collaborato con la Resistenza, infatti questi militari repubblichini avevano completamente cessato di essere di ostacolo alla lotta contro il Fascismo, essendo terminato di fatto l'essere della Repubblica Sociale.
A margine dell'eccidio vanno registrati alcuni comportamenti singolari dei partigiani comunisti, con una difformità di trattamento a seconda dei prigionieri, o meglio a seconda della classe sociale di appartenenza: per esempio un caporione partigiano si innamorò di una ragazza che ricopriva il grado di ufficiale delle Ausiliarie, la fece liberare e quindi la sposò, la donna era figlia di un grande imprenditore della zona, alla cui morte il partigiano ereditò una fortuna.
Ma non era finita , quattro importanti gerarchi fascisti, alti ufficiali delle Brigate Nere e della Guardia Nazionale repubblicana, evitarono per una ben strana scelta ,il plotone di esecuzione, mentre la furia omicida dei boia comunisti si scatenò indiscriminata sui semplici gregari, sulla bassa forza, su tanti giovani e giovanissimi che nella maggior parte scelsero la R.S.I. non per convinzione ma più semplicemente per necessità, volarono solo gli stracci come al solito. Molte vittime erano giovanissimi delle Fiamme Bianche, dei plotoni di Onore che con i combattimenti avevano ben poca pratica, quasi tutti classe 1922 – 23 che al momento dell'eccidio avevano da poco passato i vent'anni. Gli elementi più violenti e più feroci agirono quella notte, in un'orgia di sangue orrenda.
Sin dal 1946 alcuni giornali locali si interessarono all'eccidio, ovviamente non quotidiani di partito, Il Popolo Nuovo, l'Eusebiano e La Verità, attraverso delle inchieste giornalistiche molto precise e approfondite, divulgando senza filtri, quello che era accaduto all'interno e nei pressi del Manicomio. Furono inchieste molto coraggiose, per il periodo storico e perchè Vercelli era una città decisamente comunista, ci furono infatti dei tentativi di tacitare questi media, anche con l'intervento di alcuni parlamentari del P.C.I. Nel 47 i responsabili della strage vennero indagati e perseguiti, nel 1948 furono rinviati a giudizio per il reato di omicidio continuato ed aggravato. Nel frattempo Moranino e Ortone furono eletti al Parlamento della repubblica nel Gruppo Parlamentare del P.C.I..
Nel 1953 la Procura della Repubblica di Torino presenta domanda di autorizzazione a procedere nei confronti dei due Parlamentari con l'accusa di omicidio continuato aggravato. Tuttavia nessuno fu toccato a livello penale, se non per un'altra strage, quella della missione Strassera avvenuta nel 1944, a Portula sulle Alpi Biellesi. Un eccidio, questa volta non di Fascisti, ma bensì di cinque esponenti della resistenza non comunisti e di agenti operativi dell'O.S.S., oltre chè di due donne sposate con le vittime.
Ci furono delle indagini e l'On. Moranino processato in contumacia e condannato all'ergastolo per sette omicidi, dovette fuggire dall'Italia in Cecoslovacchia, dove fece per qualche anno lo speaker a Radio Praga in funzione anti Italiana. Una strana coincidenza fu che sin dal 1953 proprio a Praga, si addestrarono molti futuri brigatisti rossi che poi avrebbero compiuto azioni terroristiche in Italia. In seguito Gemisto ebbe una riduzione della pena , poi nel 1965 il Presidente Saragat lo graziò e nel 1968 rientrò in Italia dove venne rieletto al parlamento con i resti. Nel 1971 morì per un infarto.


l'eccidio della prigione di Finalborgo

L'eccidio della prigione di Finalborgo


A Finale Ligure, in provincia di Savona, esattamente a Finalborgo, esiste un complesso monumentale, è quello di Santa Caterina che risale al 1400. Molto interessante è il torrione al cui interno vi sono ancora adesso, molto ben conservate, una dozzina di celle, con le inferriate e con i portoncini a chiavistello, lo spioncino e soprattutto senza finestre il che impediva ai detenuti di vedere al di fuori. Le celle sono davvero anguste , misurano due metri per 1,40. Il complesso e anche la prigione sono visitabili e si possono notare sulle pareti delle camerette le scritte incise sulle pareti dai prigionieri.
Nel luglio del 1945, questa prigione ospitò , temporaneamente, undici prigionieri appartenenti a vario titolo alla R.S.I. tutti erano stati giudicati dalla Corte di Assise Speciale di Savona e condannati a pene diverse, tre di essi alla pena capitale e gli altri otto a detenzioni carcerarie di alcuni anni.
I detenuti politici erano quindi stati trasferiti a Finalborgo dal Carcere di S. Agostino di Savona per motivi di sicurezza, infatti qualcuno a fine giugno, aveva lanciato una bomba a mano all'interno del cortile del penitenziario di Savona, , ferendo dei prigionieri ed uccidendone due. Si pensava che a Finalborgo i Repubblichini sarebbero stati al sicuro.
Ma non era finita : il 1 luglio del 1945 verso sera, alcuni automezzi pesanti, due camion e alcune autovetture giunsero a Finalborgo, ne scesero una trentina di uomini armati, con la divisa di partigiano , si fecero aprire con modi autorevoli il carcere dallo scarso personale penitenziario e mostrando un ordine di prelevamento si portarono via tutti i detenuti.
Il documento di prelevamento era autentico come autentici erano i timbri apposti sui fogli che evidentemente erano stati trafugati dagli uffici, i quali non sapevano nulla di questo prelevamento, quindi si trattava di una attività illegale, i detenuti infatti erano già stati giudicati da un tribunale regolare e dovevano scontare la pena che gli era stata comminata ma qualcuno aveva deciso altrimenti.
Gli abitanti delle case adiacenti alla prigione, sentirono il trambusto, e videro gli uomini armati che caricavano sui mezzi i prigionieri ma nessuno si interessò di sapere dove sarebbero stati portati i prigionieri. Erano tempi bui in cui la legge era assente, lo stato quello di diritto non era presente. Intervenire a difesa di prigionieri, in più fascisti, sarebbe stato molto rischioso.
Prigionieri e rapitori scomparvero senza lasciare traccia sui camion che si allontanarono in direzione di Rialto. Un quotidiano locale ipotizzò allegramente che a portare via gli ex fascisti fossero stati i loro ex camerati per impedire che scontassero le pene della Corte di assise Speciale, ma non era andata così, come al solito i partigiani comunisti si erano dati da fare per amministrare la giustizia, lo loro ovviamente, a danno dei loro ex nemici.
Nessuno dei detenuti venne più ritrovato nonostante le indagini dei Carabinieri, poi nel febbraio del 1953, casualmente, fu trovata dai Carabinieri una fossa comune nei boschi intorno a S. Ermete. Quella è una località nell'entroterra che domina Vado Ligure, una zona famigerata, abitualmente utilizzata dai partigiani comunisti per eliminare gli ex fascisti e per farvi sparire i corpi delle vittime. Una zona denominata Campo Stringhini o in altre occasioni Campo dei Francesi dove erano e sono tuttora sepolti molti resti di repubblichini.
Furono effettuati degli scavi e all'interno della fossa vennero trovati, guarda caso, i resti di 11 corpi.
Si procedette alla identificazione dei resti e si appurò senza ombra di dubbio che i cadaveri appartenevano ai prigionieri di Finalborgo, tutte figure di spicco nella organizzazione militare della R.S.I., e quindi particolarmente odiate dai partigiani comunisti che evidentemente volevano chiudere i conti una volta per tutte : Raimondi Alberto ufficiale delle Brigate Nere classe 1921, Zunino Alberto anch'esso Brigata Nera classe 1916, Revelli Carlo sottocapo della Div. San Marco classe 1923, Grosso Antonio semplice squadrista delle Brigate Nere classe 1897, Benedetti Natale un poliziotto, agente di Pubblica Sicurezza classe 1918, Possenti Luigi Capitano della Guardia Nazionale repubblicana nonché responsabile della Gioventù Italiana del Littorio Classe 1916, Genovesi Giacomo Ufficiale delle Brigate Nere Classe 1920, Mazzanti Mario maresciallo della Div. San Marco Classe 1910, Ghibaudo Antonio squadrista delle Brigate Nere Classe 1981, Roveda Ernesto squadrista delle Brigate Nere Classe 1890.
Nel corso dell'esame autoptico dei resti, si appurò che tutti i corpi presentavano ferite di arma da fuoco, che tutti avevano i polsi immobilizzati dietro la schiena con dei cavi telefonici, tutti tranne Possenti a cui era stato riservato un trattamento “di favore”, infatti era stato incaprettato e sopra al suo torace qualcuno aveva gettato un pesante macigno.
Possenti era particolarmente inviso ai Partigiani Rossi e il rancore aveva spinto gli assassini a seppellire quest'ultimo ex fascista agonizzante e ancora vivo, forse perchè era già scampato ad un attentato e questa volta volevano essere sicuri che morisse nel modo adeguato.
Il prete che presenziò alla esumazione, osservando quello che era stato fatto ai corpi disse che sarebbe stato molto difficile perdonare gli assassini che non vennero mai scoperti ed arrestati, ma tutti a Finale Ligure sapevano e sanno ancora ora, chi commise il massacro, la maggior parte della banda si è portato il segreto nella tomba ma qualcuno è ancora vivo e a causa dell'età, ogni tanto, al bar si lascia andare a delle piccole confidenze, però nessuno lo prende sul serio , pensando ad una demenza senile.


Roberto Nicolick

la strage di malga Bala


La strage di Malga Bala
L'eccidio di 12 carabinieri compiuto dai Partigiani Slavi




La galleria di Bretto ora Log Pod Mangrtom , si trova a meno 240 metri s.l.m. ha una lunghezza di 4.844 metri, larga 2,5 metri e 2 di altezza, collega la miniera a Bretto , sul versante opposto del Passo del Predil a 626 metri s.l.m.. sulle Alpi Giulie, in territorio Goriziano.I lavori di costruzione della galleria cominciarono nell’agosto del 1899 e terminarono nel giugno del 1905. Questa galleria fu anche usata, nel corso della Grande Guerra, dalle truppe Austriache per trasportare uomini e materiali che vennero usati nell'offensiva di Caporetto. La galleria attualmente segna il confine tra l'Italia e la Slovenia. Nel 1944, vista l'importanza strategica della centrale ad essa collegata, fu presidiata da un distaccamento di Carabinieri, piazzati presso Bretto di sotto, in una piccola caserma, facilmente difendibile. Il 24 marzo del 1944, di sera , un reparto di partigiani Slavi appartenenti al IX Korpus, giunto inosservato, circondò dapprima l'avamposto, poi sequestrarono il sottufficiale in comando, il Vicebrigadiere Perpignano e un suo subalterno, il Carabiniere Franzan, costringendoli a comunicare loro la parola d'ordine con cui riuscirono ad entrare nel presidio che conquistarono senza sparare un solo colpo. Da quel momento inizia per i Carabinieri un percorso di sofferenze e sevizie crudeli che abitualmente gli Slavi, infliggevano abitualmente agli Italiani. I componenti del presidio vengono disarmati, l'armeria e il deposito viveri saccheggiati , i Carabinieri prigionieri vengono caricati come muli con tutto il materiale e costretti ad evacuare l'avamposto di Bretto. Prima di allontanarsi gli Slavi minano la caserma e la centrale idroelettrica. A notte inoltrata quando il gruppo formato dagli slavi armati e dai carabinieri prigionieri, si inerpica su un sentiero che li porta prima al Monte Izgora alto circa 1000 metri, poi verso la Val Bausiza, qui in una stalla gli Slavi fecero una sosta e costrinsero i prigionieri a mangiare un minestrone in cui avevano sciolto della soda caustica e del sale nero grezzo, con il risultato di ustionargli la faringe, l'esofago e lo stomaco causando dolori lancinanti mentre il sale nero produce una dissenteria inarrestabile. Arrivati all'altipiano di Bala, raggiunsero una costruzione isolata, una malga, dove questa banda di partigiani Slavi era acquartierato e in quel posto inizia la parte finale in cui i criminali diedero il meglio o il peggio di se stessi, manifestando una malvagità senza limiti.
Compiuto il massacro i boia slavi si allontanarono dal casolare.
Passarono una decina di giorni in cui il Comando Italiano trovò la caserma deserta e diede inizio alle ricerche, all'inizio di aprile 1944, una pattuglia della Wehrmacht.
mentre effettuava un pattugliamento si trovò a transitare sull'altipiano e la attenzione dei militari fu attratta da un grosso masso, posto ad una decina di metri dalla baita. In particolare quello che incuriosì i soldati tedeschi, fu uno strano mucchio di neve.
Quando cominciarono a rimuovere la neve del mucchio, trovarono i corpi denudati dei poveri Carabinieri, quasi tutti con le orbite prive degli occhi, alcuni avevano la bocca cucita con del filo di ferro, tutti erano in posizione inarcata con i polsi e le caviglie strette da filo di ferro che, particolare orrendo, si connetteva anche i genitali. Qualcuno era stato castrato e aveva nel cavo orale i propri genitali, tutti i toraci e i dorsi presentavano profonde ferite da sfondamento, forse prodotte con un piccone. Gli slavi si erano anche divertiti a marciare sui poveretti, infatti sulla pelle di tutti i cadaveri c'erano orme di scarponi chiodati. Non era stato sparato un solo colpo di arma da fuoco, i Carabinieri erano stati torturati con grande sadismo e finiti come animali da macello. Il sottufficiale che comandava il distaccamento dei Carabinieri, aveva avuto un trattamento diverso ma non migliore, prima che iniziasse il massacro era stato appeso ad un gancio, a testa in giù, costretto a guardare lo scempio dei suoi sottoposti poi i macellai Slavi lo avevano finito a calci.
Gli stessi militari Tedeschi non avevano mai visto nulla di simile. Il Comando Italiano venne avvisato e con grande velocità i corpi furono caricati su un camioncino e ricomposti presso una Chiesa di Tarvisio e il 4 aprile 1944 vennero officiati dei solenni funerali. Le salme vennero inumate presso il Camposanto di Manolz di Tarvisio. Nonostante rastrellamenti effettuati in seguito, i responsabili di questo scempio non vennero mai presi anche se si conoscevano i soprannomi di alcuni di questi assassini Socian e Zvonko. Tuttavia La Procura militare di Padova, nel 2002 ha riaperto il fascicolo sulla strage, individuando i presunti responsabili dell'eccidio. Dalle indagini emergono i nomi di Franz Pregelj, un ex insegnante che ricopriva l'incarico di commissario politico del IX Korpus, altri nomi coinvolti nelle indagini degli inquirenti Italiani sono quelli di Aloiz Hrovat, che vive in Slovenia, e di Silvio Gianfrante, un partigiani gappista che operava lungo il confine tra Italia e ex Jugoslavia.
Molto tardivamente, nel marzo del 2009, un Presidente della Repubblica Italiana concesse a questi martiri la medaglia D'oro al merito civile con questa motivazione : «Nel corso dell'ultimo conflitto mondiale, in servizio presso il posto fisso di Bretto Inferiore, unitamente ad altri commilitoni, veniva catturato da truppe irregolari di partigiani slavi, che, a tappe forzate, lo conducevano sull'altopiano di Malga Bala. Imprigionato all'interno di un casolare, subiva disumane torture che sopportava con stoica dignità di soldato, fino a quando, dopo aver patito atroci sofferenze, veniva barbaramente trucidato. Preclaro esempio di amor patrio, di senso dell'onore e del dovere, spinto fino all'estremo sacrificio.»
Ecco i nominativi dei 12 appartenenti all'Arma Benemerita trucidati
- V.Brigadiere PERPIGNANO Dino,
- Car. DAL VECCHIO Domenico,
- Car. FERRO Antonio
- Car. AMENICI Primo,
- Car. BERTOGLI Lindo,
- Car. COLSI Rodolfo,
- Car. FERRETTI Fernando,
- Car. FRANZAN Attilio,
- Car. RUGGERO Pasquale,
- Car. ZILIO Adelmino,
- Car. Aus. CASTELLANO Michele,
- Car. Aus. TOGNAZZO Pietro

Roberto Nicolick


i 17 alpini del melogno

L’eccidio dei 17 Alpini a Colle Tortagna, Calizzano

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 Arrivati sulla spianata del Colle del Melogno, imbocchiamo sulla sinistra l'antica strada militare sterrata che, dopo alcune curve, attraverso un bosco ceduo, porta ad un bivio, svoltando a sinistra , dopo circa 200 metri, superando a piedi un recente cancello, si perviene alla sommità della collina, interamente occupata dalla pianta poligonale del  Forte Tortagna, attorniato da un fossato, protetto da terrapieni, il forte è ad una altezza s.l.m. di circa 1090 metri, da qui lo sguardo arriva sino al mare.
L’ingresso del forte, servito da un ponte levatoio insicuro, mostra un architrave con sopra inciso il nome della fortificazione , Forte Tortagna. All’interno, una caserma con gli alloggiamenti e in posizione leggermente sopraelevata si vedono le postazioni dei cannoni che vi erano collocati. L'esterno del forte e reca i segni di recenti vandalismi e incuria.
Qui avvenne una delle tante atrocità commesse nel corso della Guerra Civile, uno dei tanti episodi in cui Italiani che si consideravano “buoni”, scannavano altri Italiani che erano considerati “cattivi”:
A fine novembre del 1944, due plotoni di alpini , appartenenti alla 67° compagnia del Battaglione Cadore, Divisione Monterosa, entrano in contatto, sulla strada montana che porta a Bardineto, con preponderanti formazioni partigiane, la 5° brigata Partigiana Garibaldina composta da ben tre distaccamenti.
I combattimenti che seguono sono violentissimi , uno dei due plotoni riesce a sganciarsi e riesce a ritornare al proprio reparto acquartierato a Ceva, mentre l’altro viene circondato, continua a combattere in attesa di rinforzi che tuttavia non possono raggiungere nell’immediato, la zona impervia per sostenere il reparto accerchiato.
Il plotone perde nella mischia, l’ufficiale comandante, il tenente Armando Merati, che viene sostituito da un sottotenente medico, Mario Da Re, il quale con altrettanto valore, guida il reparto nella difesa della posizione. Lo scontro dura per otto lunghissime ore la brigata partigiana subisce forti predite, cade negli scontri anche l’alpino semplice Primo Durante armi in pugno .
Al termine dello scontro, gli alpini superstiti verranno disarmati e dichiarati prigionieri di guerra. In seguito saranno portati al forte Tortagna e rinchiusi in una cantina, nel livello più basso della fortificazione. La loro vita sta per finire in modo tragico infatti non era precisamente costume delle brigate partigiane rispettare lo status di prigioniero di guerra ai militari della R.S.I..
Dopo essere stati segregati all’interno di una cantina del forte Tortagna, gli alpini verranno passati per le armi in spregio a qualsiasi convenzione militare e soprattutto umana. Un giovanissimo alpino, poco più che diciassettenne, sopravvisse alla strage e ebbe la possibilità di riferire al proprio comando cosa accadde ai suoi camerati , il ragazzo si chiamava Albareti e potrà scampare alla morte grazie al sacrificio del suo comandante, il sottotenente Mario Del Re, che chiederà la grazia per il giovanissimo alpino, data l'età. Ecco i fatti in base al racconto dello scampato e anche di alcuni appartenenti alla formazione partigiana.
I prigionieri, dopo la loro cattura, vennero da subito privati delle armi e poi dell’abbigliamento personale, giacche, calzoni, maglioni e calzature. I poveretti trascorsero la gelida notte in condizioni terribili, all’interno di una umida segreta, a quota 1030, in un mese e soprattutto in una località nota per le temperature decisamente rigide e senza abbigliamento. Alla mattina erano quasi assiderati.
Era imminente un contrattacco dei militari della R.S.I., avvisati dal plotone sfuggito all’accerchiamento, per liberare i 17 prigionieri, a questo punto i partigiani decisero di eliminare i prigionieri per evitare che venissero liberati nel corso dell'attacco nemico.
All’alba del 27, iniziarono i prelevamenti dei prigionieri, per portarli davanti al plotone di esecuzione che li aspettava in uno spiazzo nella foresta a breve distanza dal forte.
Quando il comandante Del Re, comprese la sorte che attendeva i suoi soldati, li incitò ad avere coraggio e li invitò a cantare le più note canzoni degli alpini, corpo a cui essi appartenevano.
Sul colle Tortagna , in quella livida mattina, due suoni contrastavano e stridevano tra di loro: uno era dolce e continuo, prodotto dalle voci degli alpini che con coraggio, intonavano le loro caratteristiche e struggenti melodie della montagna e l’altro intermittente e assordante era il suono delle armi da fuoco con cui i boia partigiani fucilavano i loro inermi prigionieri.
Ecco i nomi degli alpini, uccisi senza un minimo di pietà e di giustizia : Calcinotti Edoardo, Canziani Giovanni, De Rin Tullio, De Battè Brunetto, De Biasi Mario, Fiorini, Garda Ivo, Meraviglia Antonio, Pietrobono Osvaldo, Ragazzoni Vittorio, Rorato Luigi Ermanno ,Saturio Antonio, Scola Alfredo, Tornabene Mario, Uliana Saverio, Vanele Mario, Viviani Zeldino. L’ultimo a cadere fu il sottotenente medico Mario Del Re che ebbe un comportamento onorevole sino all’ultimo istante della sua vita, cadde gridando in faccia ai suoi aguzzini “ Viva l’Italia”, in seguito, verrà decorato dal Governo della Repubblica Sociale Italiana di Medaglia D’oro al Valor Militare.
I corpi dei militari, saranno esumati e ricomposti solo quattordici anni dopo, nel 1958 presso il Cimitero di Vittorio Veneto, frazione Ceneda. Sul sito della strage a quota 1090, è stato posto un cippo in memoria delle vittime di questa ennesima ed assurda strage e annualmente viene celebrata una messa in memoria dei caduti.
Roberto NICOLICK
 


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Portuali

Portuali una storia, una epopea
E’ uscito qualche mese fa un cortometraggio che tratta del porto di Savona e soprattutto dei portuali, una categoria di lavoratori che hanno tuttora il compito di movimentare le merci da e sulle navi mercantili che attraccano nei porti. Si potrebbe definire quella dei portuali o dei camalli che dir si voglia, come un’era, una epopea, con i suoi eroi, con le sue luci e con le sue ombre, con le sue precise caratteristiche ma sarebbe opportuno anche dire altre cose, magari meno santificanti ma più genuine su questa categoria di operatori, che per amore di verità non si possono tacere, pur senza voler inficiare l’onestà della quasi totalità delle migliaia di persone che hanno lavorato sulle banchine del porto di Savona.
Parlo con cognizione di causa perché mio padre era un portuale, un camallo di Savona, classe 1921, categoria tiraggio, Steva o anche Stevanin, per lunghi anni ha mantenuto una famiglia con moglie e quattro figli, grazie alla Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie, al suo sudore, alla sua fatica spesa sulle banchine di tutte le zone in cui era suddiviso il porto. A 25 anni entrò nei ruoli della al CULMV, prima come avventizio e poi come socio. Essere socio al porto, era considerata in quel periodo, una fortuna a Savona, un posto di lavoro sicuro anche se molto faticoso e pure pericoloso, questo era il sogno di molti giovani Savonesi, negli anni 50 e 60 e forse anche dopo.
Avevo 8 anni, d’estate ero libero dalla scuola, e mi recavo qualche mattina ad aspettare mio babbo dal lavoro, dopo che aveva passato la notte a caricare o scaricare qualche nave. Mi mettevo accanto al varco , dove c’erano i cancelli e la guardiola della finanza, a sinistra le Dogane e a destra la palazzina della compagnia.
Una fiumana di uomini, di tutte le taglie, in canottiera bianca o blu, con la bicicletta per mano, uscivano dal varco, molti sorridenti, altri accigliati e sicuramente stanchi, ma soprattutto erano persone , nel vero senso della parola. Quelle centinaia di portuali rappresentavano uno spaccato socio-psicologico di una città con i suoi pregi e anche con i suoi difetti. Qualche volta all’uscita si formava un capannello di uomini vocianti perché al centro di esso due loro colleghi si prendevano a pugni, era uno spettacolo, botte da orbi e poi dopo qualche minuto di pugni ben dati e presi, i due contendenti pesti e contusi andavano all’osteria a bere assieme.
Quando i portuali iniziavano un lavoro, sapevano l’ora e il giorno di inizio ma non sapevano quando avrebbero finito, questa era una dura e impegnativa caratteristica di questo lavoro. Un’altra peculiarità era l'elevato rischio infortunistico, si poteva cadere dentro una stiva vuota, essere schiacciato da una imbragata di una gru, arrotato da uno dei camion che entravano ed uscivano dal porto, cadere in mare da una banchina, travolto dai vagoni del treno che passava sui binari delle banchine.
Alcuni portuali erano privi di un dito, altri claudicanti come mio padre, altri portatori di diverse fratture assemblate da qualche mezzo di sintesi, c’era un bel campionario di traumi da lavoro, perché oggettivamente la normativa antinfortunistica lasciava molto a desiderare e gli operatori erano personaggi insofferenti alle regole.
Il lavoro era tutto, ma anche i soldi, che attraverso questo particolare lavoro erano molto importanti, e non erano pochi per i canoni dell’epoca, guadagnati con fatica ma erano tanti e spesso spesi a mente leggera, tanti ne entravano e tanti ne uscivano.
Un’altra cosa importante per i portuali erano le donne, spesso corteggiate con modi bruschi e non da nobiluomini, ma pur sempre presenti nella loro mente e nei loro desideri. E le donne dell’epoca sapevano di essere desiderate dai camalli e spesso ci marciavano, soprattutto quelle spregiudicate che spolpavano il portafogli di questi uomini forti e rudi ma semplici, che cadevano nelle reti della seduzione femminile. I camalli erano molto “guasconi”nelle loro manifestazioni, quando arrivava in città qualche compagnia di varietà, con ballerine al seguito, si recavano allo spettacolo, presso il Teatro “Gabriello Chiabrera” e omaggiavano queste soubrette con spettacolari mazzi di rose rosse nella speranza di conquistarle.
I portuali erano al 99% di fede comunista-qualunquista, in quanto il partito era nel loro immaginario, purtroppo solo nelle loro menti, uno strumento di liberazione delle masse oppresse e non come nella realtà un poltronificio.
Quindi quando in città arrivava qualche politico non comunista, quelli liberi dal lavoro si catapultavano in piazza a disturbare il comizio menando i poveri disgraziati che plaudivano all’oratore, e in qualche occasione a scontrarsi con la Celere. Su questa politicizzazione della categoria molti furbastri ci hanno marciato, scalando i vertici della Compagnia, facendo pochissime ore di lavoro sulle banchine, strumentalizzando il lavoro degli altri e usando il consenso dei compagni per assumere cariche politiche o istituzionali grazie ai flussi elettorali molto disciplinati.
In realtà i portuali conoscevano benissimo la stoffa dei loro dirigenti e le loro ambizioni, ma forse preferivano così per poter continuare a mugugnare. Ricordo un episodio sintomatico, negli anni 60 attraccò a Savona, una nave dell’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, con a poppa la bandiera rossa con la falce e martello. Espletate le operazioni amministrative, i portuali salirono a bordo per iniziare i lavori di scarico ed estasiati di essere su una nave del paradiso dei lavoratori, vollero subito abbeverarsi alle fontanelle di acqua potabile, magnificando tra loro la bontà e la purezza dell’acqua dell’Unione Sovietica. Loro non sapevano che quell’acqua, che stavano trangugiando con tanto entusiasmo, proveniva dalla rete idrica del Comune di Savona che si era allacciata con una manichetta ai serbatoi della nave. Bevevano l'acqua del Sindaco , non di Kiev, ma di Savona.
Sulle tavole dei portuali c’era sempre cibo in abbondanza, anche esotico, riso a profusione, banane in quantità, pesce surgelato e ananas perché quella era merce che arrivava sui mercantili nel porto di Savona e andava, in un modo o in un altro, ad guarnire appunto le tavole delle famiglie dei lavoratori. Anche le stecche di sigarette compivano viaggi di andata senza ritorno, dalle navi all'interno ai tasconi dei giacconi dei portuali che non obbligatoriamente fumavano, ma facevano quella che si chiama violazione sulle norme dei tabacchi esteri, alimentando un commercio illegale in città, che rivaleggiava con quello del Monopolio.
I nomignoli che i portuali si affibbiavano tra loro erano un capolavoro di fantasia e di inventiva, ne voglio ricordare solo uno: “Gilera”, appiccato al compianto Vitaliano, che per anni lavorò sulle banchine del porto di Savona e che cavalcava per le vie cittadine, come un centauro, appunto un motociclo Gilera da cui il soprannome.
Ora il vecchio porto non esiste più, i vecchi ganci sono un ricordo da esporre in una bacheca, la fiumana di portuali è un rigagnolo e le storie che si raccontano tra loro i vecchi camalli stanno sparendo nelle nebbie del tempo in qualche triste ospizio.

Roberto Nicolick
Una triste storia di odio fra fratelli
la Pucicca
Questa storia è molto triste e descrive puntualmente la situazione nelle aree rurali dell'entroterra Savonese a cavallo del 25 aprile 1945.
Nella zona dell'alta Valle Bormida, operava una Brigata Partigiana Garibaldina, La Baltera, composta da alcuni distaccamenti che agivano in assoluta autonomia, soprattutto nei confronti dei contadini, requisendo quello che serviva loro, cibo, vestiti, coperte senza preoccuparsi se ciò portava danno al già magro bilancio di queste famiglie, togliendo letteralmente il cibo dalla bocca dei figlioletti.
Sulla strada che collega la cittadina di Carcare con il Comune di Pallare, c'è la località Fornelli, ora nota per una ottima trattoria. Nella prima periferia del paese c'erano degli insediamenti contadini, in particolare una famiglia, proveniente da Cravarezza, con numerosi figli, soprannominati i Pucic. Tra di loro una ragazza appena ventenne, di nome Elena, che era soprannominata anch'essa Pucicca. La ragazza che era graziosa, “parlava” con un ragazzo di un paese limitrofo che secondo alcune voci nutriva simpatie fasciste.
Tra lei e il fratello Enrico, che era comunista, non correva buon sangue. Come spesso avviene in molte famiglie, l'incomprensione porta rancore che cresce sino a portare a conflitti insanabili. Il fratello, nutrendo un odio insano verso la sorella, si rivolge ad una banda di quei partigiani comunisti che battono la zona, affermando che Elena avrebbe una relazione con un Repubblichino a cui avrebbe spifferato i movimenti delle bande partigiane aggiungendo che se non la ammazzano loro lo avrebbe fatto egli stesso.
La sorte della ragazza è segnata. Una notte di marzo del 1945 un gruppo di uomini armati arriva alla casa colonica dove abita la ragazza , la prende e la porta via per un viaggio senza ritorno.
La poveretta, che come tante altre vittime giustiziate sommariamente, è innocente, viene fatta marciare, lungo sentieri e stradine impervie, conosciute solo ai suoi sequestratori o ai pastori della zona, per alcune ore, sino a raggiungere una radura ornata di faggi, in località Vallegino e da lì sino al luogo dell'esecuzione.
In quel luogo i criminali con il fazzoletto rosso la abusano, quindi viene assassinata con un colpo alla nuca. Pare che allo scempio ed all'assassinio della Elena, assista anche il fratello Enrico, responsabile morale dell'accaduto.
Con lei viene ucciso anche un bravo giovane di Udine, colpevole di indossare la divisa dei Repubblichini ma che in realtà era buono di carattere, tanto da aiutare i contadini quando ce n'era bisogno. Compiuto il misfatto gli assassini hanno fretta di tornare al loro accampamento, la buca che accoglie il corpo martoriato della loro vittima, è scavata frettolosamente ed è poco profonda, per cui la ragazza rimane in balia degli elementi e degli animali, volpi, tassi e corvi numerosi in quella zona.
Un pastorello che ora è ultraottantenne, mi ha parlato dell'accaduto, che comunque è notissimo in tutta la valle nei minimi particolari, perchè per portare al pascolo le pecore passava accanto a quella radura, ricorda benissimo la scarpa con un piede che emergeva dal terreno erboso appena smosso.
Era il piede della povera Elena detta Pucicca, abbandonata come un sacco di rifiuti dai suoi impietosi e crudeli assassini, sotto un palmo di terra, in una lontana ed isolata radura a circa settecento metri sul livello del mare, con una splendida vista panoramica. Nessuno pagherà per questo omicidio, tranne lo scellerato fratello che morrà travolto dal treno, qualcuno afferma non per cause accidentali ma gettato sotto il treno, mentre le spoglie della giovane ragazza non verranno mai recuperate nonostante si sappia il luogo della sepoltura.
I genitori del ragazzo di Udine, ammazzato assieme alla ragazza, dopo alcune ricerche infruttuose finalmente vennero a conoscenza dove era stato occultato, chiesero ed ottennero l'autorizzazione al recupero delle spoglie del figlio, che ebbero luogo solo dopo una decina di anni. Alcuni ragazzini, del posto,ora anziani, erano presenti al momento dello scavo e del recupero.
Essi ricordano le due montagnole di terra, una accanto all'altra, su cui, a differenza del terreno circostante, che era nudo, cresceva uno strato di erba verde brillante.
La famiglia della ragazza, non si interessò mai del recupero, almeno per darle una cristiana sepoltura e fu falcidiata da strani decessi che azzerarono quasi tutti i parenti di Elena.
Sono stato in quella radura, pochi giorni fa, dove ancora oggi non c'è pace e si nota un leggero infossamento dove era il corpo del ragazzo e accanto un piccolo rilievo di terriccio guarnito di bassa vegetazione, probabilmente dove è ancora oggi la povera Elena.
Ho percepito una sensazione di freddo e chi mi ha accompagnato dice che in alcune notti senza luna , il vento che sibila tra i faggi fa uno strano rumore, come un lamento.

I vecchi del posto affermano che è la Pucicca che vuole essere trovata e tolta dal bosco.
Caterina Fort
detta Rina
la belva di Via San Gregorio


Caterina Fort detta Rina, nasce in Friuli a Santa Lucia di Budoia, ultima di cinque figli , in una famiglia contadina, è una ragazzina spigliata e dai profondi occhi scuri, la sua vita viene segnata dalla tragica morte del padre che , in sua presenza, cade in un orrido morendo.
Il dolore sarà così terribile che la giovinetta, subirà un blocco dello sviluppo negli organi genitali, mentre il resto del suo corpo proseguirà a svilupparsi normalmente.
A sedici anni, arriva a Milano, dove lavora come domestica, In effetti Rina, è un tipo che non passa inosservato, dalle forme procaci, dalle labbra carnose e dai capelli neri, con uno sguardo penetrante ma, al di là del suo aspetto fisico è affetta da una frigidità che le impedisce di avere piacere dai rapporti di natura sessuale.
Si fidanza con una bravo giovane che dopo poco, si ammala di TBC e muore lasciando nella Rina, un grande vuoto, alla ricerca di una stabilità affettiva, su unisce in matrimonio con un uomo del suo paese, il quale purtroppo nella prima notte di matrimonio, da in escandescenze e deve essere ricoverato in manicomio.
La donna, torna a Milano, in un bar è notata casualmente da un uomo meridionale, Giuseppe Ricciardi, che si invaghisce e la corteggia con insistenza sino a quando lei cede. Lui afferma di essere singolo, commerciante di tessuti e che vuole aprire un negozio in centro. L'uomo non è bello, neppure affascinante e tanto meno intelligente, ma può dare alla Rina una parvenza di stabilità che è quello lei che cerca. Iniziano a convivere e Rina lavora nel negozio di tessuti dell'uomo, formalmente come commessa ma di fatto è la padrona.
Poi accade l'imprevedibile, dietro insistenza di Rina che vorrebbe sposarsi, Giuseppe ammette di avere una famiglia, moglie e tre figli, giù a Catania, anzi la moglie Franca Pappalardo, aspetta da lui il quarto. E' una delusione cocente per Rina, ma fintanto che la moglie e i figli rimangono lontani, lei può continuare il suo menage e l'attività in negozio.
Ma, la moglie arriva a Milano, portando con sé i figli, capisce che il marito ha una relazione extraconiugale, lo invita a tornare alle sue responsabilità ed egli , debole, tentenna ma obbedisce. Giuseppe con i suoi tradimenti è sicuramente il responsabile morale di quello che accadrà dopo. Rina in seguito a questa ennesima delusione che la vita le fa subire, ha un crescendo di odio, la sera del 24 novembre 1946, sapendo che Giuseppe era a Firenze, esce dal negozio di pasticceria dove lavora. Sotto una pioggerellina battente raggiunge Via San Gregorio, al civico numero 40, dove sa che abita la moglie del suo ex amante, con i tre figli.
Sale le scale sino al primo piano e suona al campanello, le apre Franca a cui Rina chiede di entrare per scambiare alcune parole. Franca la riceve in cucina e come d'uso in meridione, le offre un bicchierino di Rosolio, su cui Rina lascia traccia di rossetto.
La conversazione iniziata pacata, trascende, le due donne iniziano ad accapigliarsi e a lottare, ma Rina, più giovane e vigorosa ha la meglio e abbatte sul pavimento Franca, impacciata dalla maternità.
Poi afferra una spranga di ferro e inizia a colpirla al capo. Franca a terra, urla e corre in suo aiuto, il primogenito Giovannino di 9 anni che salta addosso alla Rina, la quale con un fendente della spranga lo neutralizza. Poi si reca in salotto e aggredisce la piccola Pinuccia di 5 anni che cercava di sfuggire nascondendosi, anche la bimba è colpita dalla spranga e cade a terra nel suo sangue.
Ma il peggio viene raggiunto con l'aggressione del piccolissimo Antoniuccio, di appena 10 mesi, seduto sul seggiolone, che strillava terrorizzato. Rita lo colpisce con uno solo colpo della spranga nel cranio, a seguito del quale si accascia con il capo sul seggiolone.
Il silenzio cala sulle stanze lorde dei sangue di una povera donna incinta e dei suoi tre bimbi, mentre Rita esce dalla porta. Nessuno dei vicini ha sentito le urla delle vittime. Dopo una breve sosta nel sottoscala, Rita torna nell'appartamento, nota che nessuno è ancora deceduto, prende degli stracci, li imbeve di ammoniaca e li infila a forza nella gola della donna e dei bimbi, dando loro il colpo di grazia. Poi si allontana definitivamente. Una vicina troverà tutto quello scempio e avviserà la Polizia. Gli inquirenti non hanno mai visto nulla di simile, una efferatezza così elevata, una ferocia che non ha rispettato nessuno: ovunque sangue, materia celebrale e vomito e quattro corpi con il cranio devastato. La testimonianza di una commessa porta subito il commissario Nardone sulle tracce di Rita Fort, interrogata manifesta una freddezza presente solo in una persona innocente,ma tre piccole macchie di sangue sul suo abbigliamento la tradiranno, sangue della Franca. Arrestata, Rita Fort sino all'ultimo cercherà di dare versioni diverse, rinviata a giudizio subirà nel 1952, la condanna all'ergastolo, confermata tre anni dopo meritandosi l'appellativo di belva di Via San Gregorio. Verrà anche sottoposta a perizia psichiatrica dallo stesso specialista che ha esaminato la Cianciulli, meglio nota come la saponificatrice di Correggio e verrà giudicata come capace di intendere e di volere.
Sconterà la pena nel carcere di S. Frediana a Firenze e dopo 28 anni di detenzione, per buona condotta, sarà graziata dal Presidente della Repubblica e rilasciata in libertà condizionata. Lasciando il carcere, donerà ad alcune detenute i suoi unici averi: tre bambole di pezza. Sparirà nell'oblio, cercando di farsi dimenticare cambiando anche cognome da Fort a Furlan, per poi morire il 2 marzo 1988, a causa di un arresto cardiaco , in solitudine, in un piccolo appartamento a Firenze.

Roberto Nicolick