giovedì, ottobre 27, 2016
mercoledì, ottobre 26, 2016
Gli alpini di colle Tortagna
L’eccidio
dei 17 Alpini a Colle Tortagna, Calizzano
.
Arrivati
sulla spianata del Colle del Melogno, imbocchiamo sulla sinistra
l'antica strada militare sterrata che, dopo alcune curve, attraverso
un bosco ceduo, porta ad un bivio, svoltando a sinistra , dopo
circa 200 metri, superando a piedi un recente cancello, si perviene
alla sommità della collina, interamente occupata dalla pianta
poligonale del
Forte Tortagna, attorniato da un fossato, protetto da terrapieni, il
forte è ad una altezza s.l.m. di circa 1090 metri, da qui lo sguardo
arriva sino al mare.
L’ingresso
del forte, servito da un ponte levatoio insicuro, mostra un
architrave con sopra inciso il nome della fortificazione , Forte
Tortagna.
All’interno, una caserma con gli alloggiamenti e in
posizione leggermente sopraelevata si vedono le postazioni dei
cannoni che vi erano collocati. L'esterno del forte e reca i segni
di recenti vandalismi e incuria.
Qui
avvenne una delle tante atrocità commesse nel corso della Guerra
Civile, uno dei tanti episodi in cui Italiani che si consideravano
“buoni”, scannavano altri Italiani che erano considerati
“cattivi”:
A
fine novembre del 1944, due plotoni di alpini , appartenenti alla 67°
compagnia del Battaglione Cadore, Divisione Monterosa, entrano in
contatto, sulla strada montana che porta a Bardineto, con
preponderanti formazioni partigiane, la 5° brigata Partigiana
Garibaldina composta da ben tre distaccamenti.
I
combattimenti che seguono sono violentissimi , uno dei due plotoni
riesce a sganciarsi e riesce a ritornare al proprio reparto
acquartierato a Ceva, mentre l’altro viene circondato, continua a
combattere in attesa di rinforzi che tuttavia non possono raggiungere
nell’immediato, la zona impervia per sostenere il reparto
accerchiato.
Il
plotone perde nella mischia, l’ufficiale comandante, il tenente
Armando Merati, che viene sostituito da un sottotenente medico, Mario
Da Re, il quale con altrettanto valore, guida il reparto nella difesa
della posizione. Lo scontro dura per otto lunghissime ore la brigata
partigiana subisce forti predite, cade negli scontri anche l’alpino
semplice Primo Durante armi in pugno .
Al
termine dello scontro, gli alpini superstiti verranno disarmati e
dichiarati prigionieri di guerra. In seguito saranno portati al forte
Tortagna e rinchiusi in una cantina, nel livello più basso della
fortificazione. La loro vita sta per finire in modo tragico infatti
non era precisamente costume delle brigate partigiane rispettare lo
status di prigioniero di guerra ai militari della R.S.I..
Dopo
essere stati segregati all’interno di una cantina del forte
Tortagna, gli alpini verranno passati per le armi in spregio a
qualsiasi convenzione militare e soprattutto umana. Un giovanissimo
alpino, poco più che diciassettenne, sopravvisse alla strage e ebbe
la possibilità di riferire al proprio comando cosa accadde ai suoi
camerati , il ragazzo si chiamava Albareti e potrà scampare alla
morte grazie al sacrificio del suo comandante, il sottotenente Mario
Del Re, che chiederà la grazia per il giovanissimo alpino, data
l'età. Ecco i fatti in base al racconto dello scampato e anche di
alcuni appartenenti alla formazione partigiana.
I
prigionieri, dopo la loro cattura, vennero da subito privati delle
armi e poi dell’abbigliamento personale, giacche, calzoni, maglioni
e calzature. I poveretti trascorsero la gelida notte in condizioni
terribili, all’interno di una umida segreta, a quota 1030, in un
mese e soprattutto in una località nota per le temperature
decisamente rigide e senza abbigliamento. Alla mattina erano quasi
assiderati.
Era
imminente un contrattacco dei militari della R.S.I., avvisati dal
plotone sfuggito all’accerchiamento, per liberare i 17 prigionieri,
a questo punto i partigiani decisero di eliminare i prigionieri per
evitare che venissero liberati nel corso dell'attacco nemico.
All’alba
del 27, iniziarono i prelevamenti dei prigionieri, per portarli
davanti al plotone di esecuzione che li aspettava in uno spiazzo
nella foresta a breve distanza dal forte.
Quando
il comandante Del Re, comprese la sorte che attendeva i suoi soldati,
li incitò ad avere coraggio e li invitò a cantare le più note
canzoni degli alpini, corpo a cui essi appartenevano.
Sul
colle Tortagna , in quella livida mattina, due suoni contrastavano e
stridevano tra di loro: uno era dolce e continuo, prodotto dalle voci
degli alpini che con coraggio, intonavano le loro caratteristiche e
struggenti melodie della montagna e l’altro intermittente e
assordante era il suono delle armi da fuoco con cui i boia partigiani
fucilavano i loro inermi prigionieri.
Ecco
i nomi degli alpini, uccisi senza un minimo di pietà e di giustizia
: Calcinotti Edoardo, Canziani Giovanni, De Rin Tullio, De Battè
Brunetto, De Biasi Mario, Fiorini, Garda Ivo, Meraviglia Antonio,
Pietrobono Osvaldo, Ragazzoni Vittorio, Rorato Luigi Ermanno ,Saturio
Antonio, Scola Alfredo, Tornabene Mario, Uliana Saverio, Vanele
Mario, Viviani Zeldino. L’ultimo a cadere fu il sottotenente medico
Mario Del Re che ebbe un comportamento onorevole sino all’ultimo
istante della sua vita, cadde gridando in faccia ai suoi aguzzini “
Viva l’Italia”, in seguito, verrà decorato dal Governo della
Repubblica Sociale Italiana di Medaglia D’oro al Valor Militare.
I
corpi dei militari, saranno esumati e ricomposti solo quattordici
anni dopo, nel 1958 presso il Cimitero di Vittorio Veneto, frazione
Ceneda. Sul sito della strage a quota 1090, è stato posto un cippo
in memoria delle vittime di questa ennesima ed assurda strage e
annualmente viene celebrata una messa in memoria dei caduti.
Roberto
NICOLICK
.
Amalia 1945
L’omicidio di Amalia
Desiglioli
una giovanissima
ragazza, molto bella ed avvenente, alta e snella, capelli neri
corvini, occhi marroni molto espressivi e profondi , muore
assassinata nelle vie di Savona, durante la notte del 12 maggio 1945,
a liberazione avvenuta. La giovane donna a nome Amalia Desiglioli ha
da poco compiuti i 18 anni ed è piena di speranze per il futuro che
vorrebbe poter migliorare, fra i suoi obiettivi c'è fare l’attrice
entrando nel mondo dello spettacolo per sfuggire alle tristezze
dell’immediato dopo guerra con le sue stragi e con la sua cupezza.
Nata a il 24 aprile
1927, abita in un quartiere antico di Savona, Villapiana, con la
famiglia in cui è perfettamente integrata, viene assassinata con un
colpo di pistola alla testa, poco dopo la mezzanotte, mentre tutti
dormono o se sono svegli si guardano bene dal farsi gli affari degli
altri .
Il 12 maggio 1945, a
notte inoltrata, tre persone in uniforme da partigiani, si
presentano presso l’abitazione dove , bussano alla porta con fare
autoritario, dichiarando di essere inviati dal Prefetto della
Liberazione che all'epoca era un capo partigiano, persona peraltro
conosciuta dalla ragazza e dalla sua famiglia. La giovane Amalia,
fiduciosa, nonostante i tempi oscuri, scende in strada con i tre
uomini e viene ritrovata, dopo una mezzora , morta ammazzata in una
via poco lontano dalla casa dove è uscita con fiducia nelle persone
che sono venute a rilevarla, salita Aquileia, con una chiazza di
sangue che si allarga sotto il capo , qualcuno le ha sparato un solo
colpo e preciso alla nuca. Ovviamente i suoi assassini non saranno
mai identificati e un opportuno documento stilato il 25 di maggio
1945, dal Comitato di Liberazione collegato alla Questura di polizia
ausiliaria partigiana, la definirà come una appartenente alle
famigerate Brigate Nere. Quindi nei confronti di una “fascista”
tutto è permesso anche ucciderla senza essere puniti.
Questi i dati
oggettivi di un’altra ennesima omicidio :
Amalia, lavorava come
impiegata nell'ufficio addetto alla sistemazione degli sfollati e ai
danneggiati dei bombardamenti alleati, presso l’attuale prefettura
, che negli anni della seconda guerra mondiale era la sede del Fascio
e della Federazione Provinciale Fascista Repubblicana . Amalia
abitava con la famiglia , madre, padre , un fratellino tredicenne
Angelo, una sorella Margherita e un fratello più grande Alessandro
militare nella Marina Militare.
La famiglia di Amalia
era di modestissime condizioni economiche e come tutti in quel
periodo doveva fare i conti con pochi generi alimentari . Molti
savonesi , per arricchire la misera dieta, si recavano presso la zona
dell’angiporto , dove accanto ad un insediamento industriale,
potevano usare dei contenitori di metallo, in cui veniva versata
dell’acqua di mare. Il fondo di queste latte veniva scaldato con
del fuoco di legna e l’acqua di mare evaporando lasciava sul fondo
del sale. Era un metodo semplice ed alla portata di tutti per
produrre sale, da poter scambiare con altri generi alimentari.
Amalia e una sua
collega ed amica, Anna, in quella occasione decidono di recarsi con
mezzi di fortuna nell’entroterra collinare e scambiare il sale con
uova o farina ed arricchire i pasti delle rispettive famiglie. Ma le
cose vanno male, le due ragazze vengono fermate dalla Polizia
annonaria, perquisite e viene rinvenuto il sale . Le due poverette
sono accusate di “borsa nera”, reato molto grave all’epoca.
Come immediato provvedimento vengono licenziate e lasciate a casa dal
lavoro di impiegate. Lavoro che permetteva loro di vivere.
Arriva l’aprile
1945 e si comincia a respirare aria di caduta per la Repubblica
Sociale Italiana. Le due ragazze , il 24 aprile 1945 alla vigilia
della grande fuga dei fascisti e delle loro famiglie verso il
nord,accompagnate dai genitori e dal fratellino si recano in
Prefettura – Casa del Fascio, dove lavoravano, per reclamare gli
ultimi stipendi e la liquidazione, cosa che viene loro accordata.
Il fratellino di
Amalia osserva incuriosito la confusione all’interno della casa
del fascio, vede la smobilitazione degli uffici, i documenti bruciati
all’interno di un bidone nel cortile, vede anche alcuni militi in
camicia nera, irriducibili, che scrivono sui muri la fatidica parola
:
“ RITORNEREMO”.
Purtroppo in quel
clima di paura e arrabbiatura per le cose che precipitano, le due
ragazze vengono costrette a unirsi alla colonna in fuga dei
repubblichini, che va in direzione di Valenza Po dove è previsto
l’attraversamento del grande fiume per raggiungere la Valtellina,
nonostante le giovani, non abbiano posizioni di responsabilità
all’interno del Regime in disfacimento. I genitori della Amalia
quindi assistono impotenti alla partenza obbligata delle ragazze e
rassegnati tornano con i soldi degli stipendi a casa, nella speranza
di rivederle prima o poi.
La fuga dalla città,
dura poco, la colonna repubblicana in fuga viene fermata a Valenza
Po, i componenti arrestati ed internati nel carcere di Alessandria e
le due ragazze, dopo un interrogatorio del Comitato di liberazione
nazionale, rilasciate dai partigiani, libere di tornare a Savona
visto che nulla era emerso a loro carico ed infatti fanno ritorno
presso le rispettive famiglie.
Accade, tuttavia, un
fatto particolare qualche mese prima del 25 aprile 1945, che forse
potrebbe essere la chiave di lettura della morte della povera
ragazza: il fratellino della Amalia, trova per strada una borsa piena
di tabacco, nel cui interno, è nascosto un lasciapassare rilasciato
dalle formazioni partigiane per un trasportatore di Savona. Il
ragazzino porta a casa la borsa e mostra ad Amalia ed alla sua amica
il lasciapassare. L’amica di Amalia affermando di conoscere
l’intestatario del lasciapassare, si offre di andare a restituire
il documento personalmente. Qualcuno, pare una donna, si reca
dall’intestatario del salvacondotto, e forse tenta un ricatto ,
minacciando di rivelare i suoi contatti con i partigiani. A fronte
del ricatto il personaggio paga , affermerà in seguito ai partigiani
di aver versato una somma ad una donna che comunque non è la Amalia
e neppure la sua amica. Si innesca una dinamica perversa che porterà
a conseguenze terribili per la povera Amalia.
La notte del 12
maggio 1945, passata da circa mezzora la mezzanotte, tre persone che
indossano l’uniforme dei partigiani, con al braccio un nastrino
tricolore, si presentano presso la casa della Amalia e le chiedono
di seguirli, motivando il fatto che il prefetto voleva conferire
urgentemente con lei. Sia la Amalia che i suoi famigliari erano
conoscenti del personaggio citato dai tre figuri, il cosiddetto
prefetto della Liberazione, e quindi si fidano. La ragazza esce e
firma così la sua condanna a morte.
I quattro si avviano
verso il centro, la ragazza è serena, una signora residente sentirà
delle risate e si affaccerà alla finestra incuriosita, vedrà una
donna in compagnia di due uomini e un terzo che si attarda per
legarsi il laccio di una scarpa. Quello è il trucco scelto dal boia
per potersi collocare alle spalle della ragazza e colpirla alla nuca.
Un solo sparo, nel silenzio della notte e la ragazza cade ,
assolutamente inconsapevole di quello che è successo. Verrà
ritrovata, con il sorriso stampato sul viso, dopo poco, dalla madre
in ansia, scesa a cercarla. Il corpo verrà trasportato al cimitero
di Zinola e seppellito. Le indagini, solo formali e inconcludenti
della Questura di Savona, all’epoca gestita dal comitato di
liberazione non porteranno a un bel nulla.
Una povera anima
innocente è stata assassinata per nulla e con le solite motivazioni
assurde e dettate dalle barbarie. Dopo qualche anno la salma di
Amalia viene esumata e traslata nel Sacrario dei caduti militari
anche se lei non aveva mai indossato l’uniforme. Un dolore in più
per il fratello che appena uscito dalla adolescenza decise di
abbracciare la causa del P.C.I., e a tutt’oggi non riesce a
spiegarsi il movente dell’uccisione della povera sorella, bella,
intelligente, simpatica, un ragazza talmente bella da poter fare
l’attrice e che a questo scopo inviò delle sue foto ad una rivista
che si occupava di casting. La redazione artistica dopo aver
visionato le foto della Amalia, la cercò per farle fare dei provini,
ma era troppo tardi : Amalia era stata assassinata.
Roberto Nicolick
la sparatoria sul cellulare di Novi Ligure 24 gennaio 1971
La sparatoria sul vagone
cellulare a Novi Ligure
24 gennaio 1971
Era un servizio di
traduzione normale, quello del 24 gennaio 1971, un trasferimento
dalle Carceri Le Nuove di Torino sino a varie destinazioni per
processi oppure verso altri penitenziari del nord Italia, il furgone
con la scorta carica 11 detenuti e 8 Carabinieri arriva alla Stazione
di Porta nuova e li fa scendere tra la i pendolari infreddoliti che
come tutte le mattine prendevano il treno per il lavoro o per la
scuola e l'Università.
Sul binario 3, li aspetta
il diretto per Alessandria, attaccato al convoglio, un vagone
cellulare, occupato al centro da sei celle con le sbarre ai
finestrini per i detenuti e un gabinetto.
Alle estremità ci sono
due spazi per i militari di scorta. Il treno parte da Porta Nuova
alle 6,41 per Alessandria, all'interno l'atmosfera è distesa e
bonaria come al solito, i Carabinieri di scorta hanno un
atteggiamento umano e comprensivo e gli 11 detenuti sembrano
tranquilli, divisi a coppie per ogni celletta.
I carabinieri , espletate
le operazioni di servizio, si dividono nelle due piattaforme alle
estremità del vagone. Il treno farà una sosta ad Alessandria per
lasciarvi tre detenuti destinati al carcere della città.
Alcuni detenuti chiedono
al capo scorta se uno dei militari può acquistare dei piatti
cucinati al ristorante della Stazione. E' una consuetudine che viene
concessa e serve a creare empatia tra la scorta e i prigionieri.
Ad Alessandria il pasto è
servito, il vagone cellulare è agganciato al diretto Alessandria -
Genova Brignole e quando, poco dopo le 10, si avvicina a Novi
Ligure, alla stazione di Frugarolo, accade l'imprevedibile : due
detenuti che sono nella stessa cella, Paolo Brollo di 31 anni, di San
Donà di Piave, e Luigi Calgiaco di 25 anni della Brianza, dopo aver
consumato un piatto di lasagne e dopo aver fumato una sigaretta, si
alzano uscendo dalla celletta e affrontano i Carabinieri Spera e
Conti, i più giovani e i meno esperti, che sono anche più vicini
alla celletta dei due.
Uno dei detenuti, il
Brollo, impugna una pistola automatica con cui minaccia i due
carabinieri e li disarma delle pistole di ordinanza. In realtà
quella impugnata dal detenuto, è solo una perfetta imitazione, fatta
con del sapone di Marsiglia e dei pezzi di bachelite, annerita con il
nerofumo, talmente fedele all'originale da riportare addirittura
anche il numero di matricola.
Probabilmente costruita
da quello che in gergo è chiamato “l'artista”, cioè un detenuto
particolarmente abile nel produrre oggetti verosimili, usando
materiali poveri a disposizione come sapone, mollica, carta pressata
e stoffa opportunamente trattati, non si riuscirà a capire dove
l'hanno presa, visto che alle Nuove erano stati perquisiti
all'uscita.
Ora però, i due sono
armati di pistole vere che puntano contro gli altri sei carabinieri,
facendosi scudo con i corpi dei primi due che hanno disarmato,
sembrano decisi e pericolosi.
L'appuntato Leo con
freddezza, cerca di dissuadere i due dal proseguire nella loro
azione: “non fate gli stupidi avete scherzato abbastanza
abbastanza, ora rientrate in cella e la cosa finisce qua”, ma i due
sono determinati e non si lasciano convincere dalle parole pacate e
uno dei due urla “dateci le armi o vi uccidiamo tutti” e azionano
il segnale di frenata rapida, approfittando di ciò, qualcuno della
scorta lancia con forza, in faccia al detenuto più vicino, una
bandoliera con la giberna nel tentativo di creare un diversivo e
agire.
Il detenuto colpito al
viso, accusa il colpo e barcolla ma spara colpendo al cuore Conti che
era sul sedile. Conti cade morto sul colpo in avanti. Il Carabiniere
Spera tenta di estrarre l'arma dalla fondina ma viene ferito al
pollice della mano e per il dolore cade a terra, in seguito gli
dovrà essere amputato. Cade colpito in fronte anche il Carabiniere
Giuseppe Garbarino. il Capo scorta Leo muore raggiunto da cinque
colpi in rapida sequenza.
Gli altri militari
rispondono al fuoco, mentre i due ostaggi si gettano a terra, Brollo
muore dopo aver esaurito il caricatore, il suo compagno Calciago
ferito a morte, crolla a terra, ma ha ancora la forza di alzare
l'arma per colpire ancora, uno dei Carabinieri gli blocca il polso
con la scarpa impedendogli di sparare. Intanto il treno si è
bloccato a breve distanza dalla stazione.
Il manovratore all'oscuro
dell'accaduto, scende dal treno, percorrendo la massicciata raggiunge
il vagone cellulare da cui si affaccia uno dei carabinieri che lo
invita a fare ripartire il treno il più rapidamente possibile perchè
all'interno ci sono dei feriti gravi che necessitano di cure urgenti.
Quando il treno ferma a
Novi Ligure, arriva il capo stazione che avvisa le ambulanze, sul
pavimento nel sangue, tre bravi carabinieri morti e uno ferito, padri
di famiglia, e i due delinquenti che hanno dato inizia alla
mattanza, si conteranno 24 bossoli calibro 9, le pareti sono
sforacchiate dalle pallottole, anche i finestrini sono in frantumi.
Gli altri detenuti,
terrorizzati, durante la sparatoria, si sono rincantucciati nelle
cellette cercando di sfuggire alle pallottole vaganti o di rimbalzo,
sono un ladro pregiudicato, due protettori, due ladri alle prime armi
e un ragazzo che doveva essere giudicato in appello.
In seguito, nel corso
dell'inchiesta, diranno di non conoscere Brollo e Calciago, due
rapinatori, estremamente pericolosi e in trasferimento verso altri
penitenziari, Calciago verso il carcere di Velletri e Brollo
addirittura a Porto Azzurro.
I due si erano conosciuti
alle Nuove e progettavano una fuga, molto difficoltosa dalle Nuove e
impossibile da Porto Azzurro. L'unica opportunità di evasione era
durante la traduzione.
Inoltre i due banditi
erano già fuggiti, proprio da Novi Ligure nel corso di un precedente
trasferimento, bloccando il treno con il segnale d'allarme e
immobilizzando la scorta, poi erano scappati per i campi per essere
riacciuffati il giorno stesso.
Purtroppo, i Carabinieri
di scorta non conoscevano la reale pericolosità dei due, qualsiasi
prigioniero per loro era uguale: una mentalità da cambiare per avere
un approccio diverso verso diverse tipologie di criminali ed evitare
quindi sorprese.
Il Piemonte è scosso da
questa tragedia e la nazione anche, il Presidente della Repubblica
Saragat invia un messaggio di cordoglio alle famiglie dei caduti e
all'Arma.
I tre caduti, su un
autocarro militare, scortati dalle Giulie del Nucleo Radiomobile
dell'Arma, raggiungono Torino e vengono esposte alla visita della
cittadinanza presso il Comando di Legione, alla presenza dei massimi
vertici militari, vegliati da un picchetto di Carabinieri in alta
uniforme, da lì il giorno successivo vengono portati nella Chiesa di
San Filippo.
I funerali di Stato sono
imponenti tra il dolore immenso delle famiglie e dei loro colleghi.
Sei figli, quasi tutti giovanissimi rimangono senza il padre, caduto
nell'adempimento del dovere. Si aprirà una sottoscrizione da parte
di alcuni giornali per dare un minimo sollievo ai parenti.
Roberto Nicolick
la cianciulli
Leonarda
Cianciulli
i
delitti della saponificatrice di Correggio ( Ferrara)
Dal
1939 al 1941 a Correggio una cittadina in provincia di Ferrrara,
avvengono tre sparizioni di donne, non più giovani, sole, quasi
senza parenti, i loro nomi sono Faustina Setti, Clementina Soavi e
Virginia Cacioppo rispettivamente di 70 , 50 e 59 anni.
Le
sparizioni non destano allarme sociale immediato, perchè si era nel
periodo bellico e molte persone a causa dei bombardamenti e delle
vicissitudini della guerra, erano scomparse e non se ne era trovata
più traccia.
In
realtà dietro a queste scomparse c'era una donna, Leonarda
Cianciulli, una mente diabolica la quale, con scaltrezza, aveva
elaborato un piano con la collaborazione parziale di suo figlio.
La
donna mirava in prima istanza alle risorse economiche delle vittime,
che lei circuiva grazie alla sua personalità seduttiva. Questa donna
fu una delle prime serial killer, non maschio, della storia criminale
e alcuni particolari delle sue gesta furono davvero spaventose.
A
qualcuna delle sue vittime, prometteva di farle conoscere un
probabile fidanzato, ad un'altra faceva balenare la possibilità un
nuovo lavoro ad un'altra ancora un destino genericamente migliore.
Dopo
un breve periodo di frequentazione le invitava in casa sua e
provvedeva ad agire quando lo riteneva opportuno.
Potevano
essere i classici delitti perfetti, anche perchè i resti delle
vittime non vennero mai trovati in quanto l'assassina , dopo
l'uccisione che avveniva con un fendente di accetta, dopo averli
denudati ne smembrava i corpi poi immergeva il corpo a pezzi in un
pentolone e faceva bollire lungamente il tutto a 300 gradi. Nel
contenitore aggiungeva diversi litri di soda caustica con allume di
rocca e pece greca, dopo questa lunga lavorazione, rimaneva sul fondo
del pentolone una poltiglia molle e vischiosa che in parte veniva
gettata nei tombini o nel canale sotto casa, il resto invece era
seccato e serviva a confezionare dei pasticcini da offrire alle
amiche in visita o allo stesso figlio dell'omicida.
Nel
verbale di interrogatorio la donna dichiara che con una delle
vittime, particolarmente grassa, aggiunse nel pentolone della cottura
un flacone di colonia e alla fine della bollitura produsse delle
saponette particolarmente cremose e profumate, anche i pasticcini
risultarono morbidi e gustosi.
La
vicenda acquisì dei toni particolarmente raccappriccianti perchè
sia i pasticcini che le saponette, prodotti in questo modo macabro,
erano regalati alle amicizie e usati dalle numerose conoscenti della
serial killer oltre chè da lei stessa e dal figlio
La
Cianciulli dopo ogni omicidio , inviava il figlio in città , a
Piacenza, a spedire lettere e cartoline apocrife agli eventuali
parenti per tranquillizzarli, in cui le vittime affermavano di stare
bene di essersi volute allontanare da casa per iniziare una nuova
vita, si trattava di depistaggi.
Intanto
la parente di una delle donne scomparse, non si dà pace e intuisce
che c'è qualcosa che non va nella partenza repentina della sua
congiunta e presenta denuncia alla Questura di Reggio Emilia che
incarica delle indagini un Commissario molto abile, il quale
indagando trova nelle tre donne un denominatore comune : tutte
frequentavano assiduamente la casa di Leonarda Cianciulli a
Correggio, un piccolo e sonnacchioso comune della provincia e
soprattutto ne subivano il fascino.
La
donna viene interrogata e da subito mostra un carattere forte a
dispetto della sua taglia minuta, 1,50 per 50 kg. Ma il funzionario
di polizia rintraccia presso un prete della zona un buono del tesoro
che era appartenuto ad una delle vittime, la Cacioppo Virginia. Il
prete afferma che il buono gli è stato consegnato da un certo
Spinarelli, amico della Cianciulli, che disse a sua volta di averlo
ricevuto dalla stessa Cianciulli a saldo di un debito pregresso. La
donna viene trattenuta in questura ed è sottoposta ad un
interrogatorio stringente a cui inizialmente tiene testa per poi dopo
lunghe ed estenuanti sedute, cedere alle domande degli inquirenti e
fornire una confessione integrale, rivelando particolari
terrificanti: oltre alla saponificazione delle vittime ed alla
preparazione di pasticcini, ammise tranquillamente di aver divorato
parti delle vittime in uno stufato, in un bollito e anche in un
arrosto.
Dalle
perquisizioni nella sua abitazione venne trovata una dentiera e del
sangue appartenente ad una delle donne uccise. La dinamica era
semplice, quando aveva completamente depredato la donna dei suoi
averi passava alla eliminazione,il colpo di grazia veniva assestato
con una accetta, poi il cadavere era trascinato in uno stanzino dove
era “lavorato” successivamente.
L'omicida
nativa dell'Irpinia ed in seguito trasferitasi in Emilia è una
personalità complessa, sposatasi con un impiegato statale sopporta,
nel corso degli anni, ben 13 gravidanze e ne porta a termine solo 4,
crede in una sorta di magia nera e pensa con gli omicidi compiuti e
con le pratiche successive di smembramento e cannibalismo, di
esorcizzare il maleficio che una maga le predisse anni prima. Da
adolescente subirà il fascino negativo della grande madre che la
obbliga a condurre la vita secondo i suoi dettami, tenerà anche il
suicidio in giovanissima età
Sotto
interrogatorio, confesserà integralmente i tre omicidi e nel
processo sosterrà con convinzione di averli compiuti come un
sacrificio umano per rabbonire forze oscure, mentre secondo il
Pubblico ministero avrebbe agito per avidità nei confronti delle
risorse economiche delle sue vittime che in effetti, dopo la loro
morte, provvedeva a depredare completamente.
Il
processo inizierà nel 1946 a guerra terminata e il 20 luglio dello
stesso anno, verrà condannata, per triplice omicidio e vilipendio di
cadavere, a 3 anni di manicomio più 30 anni di carcere, in cui non
entrerà mai perchè rimarrà nell'ospedale psichiatrico di Pozzuoli
per ben 24 anni dove morirà nel 1970 per un malore.
Gli
strumenti usati negli omicidi, accetta, mannaia, seghetto segaosse,
coltelleria varia e ceppo sono conservati nel museo criminale di Roma
a disposizione degli studiosi.
Presso
la Corte di Assise di Reggio Emilia è conservato un memoriale
difensivo di circa 700 pagine in cui lei spiegava cosa l'aveva
costretta a compiere quei tre delitti e le pratiche successive,
tuttavia secondo alcuni, non aveva gli strumenti culturali per
creare una simile opera che venne accreditata ai suoi avvocati che
tentarono di farle dare l'infermità totale di mente.
Secondo
una leggenda metropolitana venne anche condotta segretamente presso
il gabinetto di dissezione anatomica della facoltà di medicina per
farle ripetere i gesti di smembramento dei corpi di cui lei parlava
ma ciò non corrisponde a verità.
Roberto
Nicolick
l'uccisione di Don Guido Salvi
L'uccisione di Don Guido
Salvi
Bosco del Garau (
Calizzano )
1 marzo 1944
Don Guido Salvi, 51 anni,
era il parroco di Castelvecchio di Rocca Barbena un piccolo centro,
poco sopra Albenga. Don Guido era nativo di Camogli e svolgeva la sua
missione in questo pugno di case a cavallo dell'Appennino Ligure.
Era un prete che prendeva
sul serio la missione del sacerdozio, aperto e comunicativo, aveva
legato molto con gli abitanti del paese, e soprattutto per cultura e
voglia di fare molto vicino ai giovani con cui dialogava spesso,
aprendo loro le porte della Chiesa, della Canonica e soprattutto
dell'Oratorio della Chiesa di Nostra Signora dell'Assunta, una antica
e splendida Chiesa con un affresco sulla facciata, un piccolo
campanile una meridiana.
Don Salvi aveva educato
alla fede diverse generazioni di ragazzi del paese, ma il suo lavoro
non si fermava alla religiosità era sempre presente concretamente
dove ci fosse bisogno di braccia per aiutare gli agricoltori della
zona. Era quindi il contraltare alle bande di partigiani che giravano
nel territorio, bande profondamente ideologizzate, logico che la sua
figura fosse invisa a certi capi che lo vedevano come un personaggio
ostile.
Una sera, il primo di
marzo del 1944, un gruppo di persone armate arrivò, dalle alture
circostanti, alla Canonica ma non era una visita di piacere, sotto
la minaccia delle armi prelevò il sacerdote per portarlo fuori dal
paese, arrancarono per diversi chilometri in direzione di Calizzano.
Gli uomini che lo
sequestrarono, indossavano la divisa dei partigiani comunisti, sulle
loro giubbe spiccava la stella rossa, quella che, decenni dopo
leggermente modificata, sarebbe diventata il simbolo delle bierre.
Raggiunta una vasta area
boschiva, il bosco del Garau, sotto la minaccia delle armi, lo
costrinsero a scavarsi la fossa e lo assassinarono con una raffica di
mitra, dopo avergli dato il tempo di recitare appena una breve
preghiera, bontà loro.
Fu un omicidio, come
tanti in quel periodo, senza spiegazioni, dettato dalla ferocia e
dalla intolleranza dei partigiani comunisti che infestavano quelle
zone e che imponevano con la violenza le loro regole.
Forse Don Guido Salvi non
voleva piegarsi a queste regole, non assisteva senza protestare a
furti travestiti da requisizioni che colpivano le già magre risorse
dei contadini della zona. Inoltre questo prete per il suo
atteggiamento onesto era rispettato dai militari Tedeschi e dai
Repubblichini e aveva un largo seguito tra la gente del posto
sottraendosi al potere delle bande che taglieggiavano i contadini
usando lo scudo della resistenza.
Ancora oggi le
associazioni reducistiche partigiane non danno alcuna spiegazione di
questa esecuzione sommaria, un omicidio eccellente, inspiegabile per
tutti ma non per qualcuno che sapeva benissimo quello che faceva.
La cosa triste è che nel
gruppo di partigiani rossi che lo presero e che lo uccisero, c'erano
anche dei giovani abitanti di Castelvecchio, persone che lo
conoscevano bene e che lui conosceva allo stesso modo.
Don Salvi non fu l'unico
sacerdote ammazzato dai partigiani comunisti, infatti un sacerdote
molto scomodo perchè orientato politicamente a destra, Don Antonio
Padoan, figlio di un ufficiale, noto per le sue omelie in cui
invitava i giovani ad aderire alla R.S.I., per queste sue posizioni
ricevette una visita in canonica da partigiani comunisti. Don Padoan
che era armato fece resistenza e fu finito con un colpo di pistola in
bocca, a evidenziare l'odio che i suoi assassini nutrivano per lui,
poi nel luglio del 44, Don Virginio Icardi, parroco di Squaneto, fu
assassinato a Pareto, fu liquidato perchè guidava una brigata di
partigiani non comunisti che manteneva l'ordine e la legalità nel
territorio attorno a Spigno Monferrato.
A maggio del 1945, presso
Cesino, Genova, veniva assassinato Don Colombo Fasce, il quale era a
conoscenza dei nomi di responsabili di molte esecuzioni sommarie
nell'immediato dopoguerra e pertanto doveva essere messo a tacere.
Stesso destino per Don Andrea Testa, parroco di Diano Borrello in
provincia di Imperia, anch'egli ammazzato dai partigiani comunusti.
Roberto Nicolick
l'eccidio di Giustenice
Giuseppe Goso e Lorenzo
Ricci, ovvero l'odio oltre la morte
3 settembre 1944
Giustenice
Il geometra Giuseppe
Goso, segretario comunale di Giustenice è il corrispondente de Il
lavoro di Borgio Verezzi ha 34 anni una persona per bene come
d'altronde lo è Lorenzo Ricci , detto Bartolomeo, messo comunale
nella stessa amministrazione , di anni 60, entrambi con famiglia.
Questi due funzionari comunali avevano l'incarico di censire il
bestiame , bovini e ovini, presso il territorio del piccolo comune.
Non dobbiamo dimenticare
che in quel periodo e in quella zona avvenivano spesso delle
macellazioni illegali, e quelle carni venivano vendute al di fuori di
Giustenice, si trattava di violazioni annonarie che comunque erano
sanzionate severamente.
Comunque Goso e Ricci non
erano elementi violenti del Partito Fascista Repubblicano, non
portavano neppure un'arma. La loro morte è stata una delle tante,
che avvenivano durante la guerra civile che tanto sangue innocente
sparse nel nord Italia, da una parte e dall'altra. I due sventurati
furono prelevati da un gruppo di partigiani e ammazzati o come si
usava dire allora “giustiziati”, anche se la Giustizia con tutti
questi omicidi c'entrava ben poco. Chi li uccise non ebbe alcuna
punizione di natura penale, anche perchè non si seppe mai,
ufficialmente il suo nome, che secondo alcune voci poteva essere
Volpi o Volpe, anzi qualcuno disse che vennero assassinati per aver
consegnato gli elenchi del bestiame all'esercito Tedesco sotto la
minaccia di essere deportati se non avessero ottemperato all'ordine
Germanico.
Passano gli anni e i loro
parenti, pur con il dolore nel cuore per questa ingiustizia patita,
tentano di darsi una ragione. Queste due povere anime, avrebbero
potuto riposare in pace quando il caso e soprattutto la malvagità
umana ripropose i loro nomi in una occasione, esattamente nel
dicembre del 1976.
In quei giorni il comune
di Giustenice toglie dalle pareti esterne del palazzo comunale due
lapidi, su cui erano incisi i nomi dei caduti della prima e seconda
guerra mondiale. I nomi erano illeggibili per la esposizione alle
intemperie.
Nessuno, forse ne è a
conoscenza, ma sulla lapide che commemora i caduti del secondo
conflitto, vi sono anche i nomi dei due “giustiziati sommariamente”
. Tutti questi nomi andavano i trasferiti su di un cippo, eretto in
piazza, con i contributi del comune, della Provincia di Savona,di
alcune banche e anche di una pubblica raccolta di cittadini. Il
blocco di pietra con i nomi dei caduti, compresi Goso e Ricci, viene
scoperto in una pubblica e solenne cerimonia, alla presenza delle
autorità, ma qualcuno in un rigurgito di odio vecchio e stantio,
affigge per il paese una serie di manifesti, vergati a mano, in cui
un Comitato Permanente antifascista di Giustenice, Pietra Ligure Tovo
San Giacomo con termini duri e autoritari stigmatizzano il fatto che
sul blocco di pietra ci siano i nomi di due “fascisti” accanto a
dei nomi di partigiani.
Con questi fogli
manoscritti , pure con una prosa vecchia e obsoleta, alcuni vecchi
arnesi vogliono ricreare un clima di odio che doveva essere oramai
lontano.
Le famiglie delle due
vittime ricadono in una atmosfera di intolleranza e discriminazione
che ha poco di umano e di civile.
La pietà l'è morta e
invece l'odio di marca stalinista no, anzi rivive con violenza. Pare
che a stilare , con poco rispetto della sintassi, i fogli siano stati
due o tre aderenti al P.C.I., nel 1976 si chiamava ancora così. Il
gesto di accanimento fu comunque sostenuto dalla associazione che
raggruppa i partigiani, avvallando una azione che allora come sempre,
va contro la convivenza civile e la volontà di pacificazione.
La pianta dell'odio è
sempre annaffiata e potata da chi ha interesse a spargere questi
veleni. Comunque questi soggetti che tanto hanno ululato per un
presunto scandalo, forse non hanno memoria storica di quello che nel
1943 - 1945 accadde ad Altare : un Generale della R.S.I. Amilcare
Farina, quindi uno che era dall'altra parte, creò un cimitero
militare dove trovarono posto , uno accanto all'altro, fascisti e
partigiani.
Questo Ufficiale
Repubblichino dimostrò molta più pietà umana di questi sedicenti
combattenti della libertà che comunque al momento della esecuzione
sommaria di Goso e Ricci non vollero neppure prendersi la
responsabilità dell'uccisione, infatti a tutt'oggi i responsabili
sarebbero degli sbandati senza nome, una versione molto comoda per
chi ha realmente ammazzato Goso e Ricci.
Roberto Nicolick
ho sposato un musulmano
Ho sposato un musulmano
La donna con cui parlo, è
attraente, alta , mora ma con gli occhi velati da una tristezza
infinita, fa un lavoro dirigenziale in un ente pubblico, ama o meglio
amava la cultura mediorientale e in particolare i cibi etnici. Abita
in un piccolo centro della Liguria, ma temo che molte donne Italiane
si riconoscano in lei, ha voluto raccontarmi quello che le è
successo, affinchè possa essere di monito ad altre Italiane affinchè
non ripetano il suo stesso errore.
Un giorno di qualche anno
fa, una amica la invita ad una cena, per gustare il mafè, un gustoso
spezzatino condito con olio e pasta di arachidi, un piatto della
cucina Senegalese, di cui la donna è ghiotta.
Durante la cena, di
gruppo, la giovane donna incontra e conosce un uomo di colore,
proveniente dal Senegal, alto, atletico, simpatico e con un bel
sorriso, la affascina e tra loro nasce prima una amicizia e poi in
seguito una relazione sentimentale.
L'uomo , lavora
saltuariamente come operaio, parla e capisce l'Italiano in modo
sufficiente e inizia a frequentare assiduamente la donna che ne è
affascinata e lo ama in modo disinteressato.
Da subito egli manifesta
una gelosia in modo sempre più crescente, gelosia che diventa ogni
giorno sempre più insana nei confronti della donna che considera
sua in modo esclusivo, esercitando su di lei un controllo ossessivo.
Quindi le chiede di
sposarlo, secondo il rito Islamico, dopo giorni di continue
insistenze, la povera donna cede e acconsente al matrimonio nella
speranza, poi rivelatasi vana, che egli cambi atteggiamento e diventi
più tollerante, inoltre lei sa che il matrimonio non ha una valenza
legale se non ha un seguito presso il comune .
L'iman, convocato
dall'uomo, arriva nella casa della donna e celebra il matrimonio tra
i due. Da quel momento il giovanotto di colore afferma a pieno
diritto, suo, che la donna che egli ha sposato è praticamente un
suo possesso, quindi la speranza che la donna nutriva, di un
ammorbidimento da parte sua è andata delusa già dall'inizio.
A questo punto l'uomo si
installa stabilmente nella casa della “moglie”, e per un
nonnulla, inizia a picchiarla.
Addirittura, alla
mattina, quando si alza da letto la prende a schiaffi solo perchè
egli ha fatto un sogno in cui lei, lo tradiva. E' un vero e proprio
delirio, da cui la donna terrorizzata inizia prendere le distanze,
dormendo in un'altra stanza, sul divano con un coltello da cucina
sotto il cuscino. Lui continua a lavorare a momenti alterni, mentre
lei si reca al lavoro come ad una liberazione anche se momentanea,
dato che poi deve tornare a casa dove lui la aspetta.
La povera donna ha una
amica, che è collega sul lavoro, con cui si frequenta per un caffè
o per un semplice aperitivo, questa amica conoscendo la situazione
infelice in cui vive, cerca di sostenerla. Anche di questa amicizia
il nero Islamico è geloso e giunge al punto di accusare sua”moglie”
di omosessualità ordinandole in modo categorico di troncare
l'amicizia.
Visto che lei non
ottempera ai suoi ordine, prosegue nelle percosse procurandogli un
trauma cranico e diverse contusioni. La misura è colma per la
poveretta che , dopo molte esitazioni, lo denuncia presentando dei
certificati medici e lo estromette dalla sua abitazione e dalla sua
vita. L'uomo è rinviato a giudizio e a breve ci sarà una prima
udienza.
Le molestie non si
fermano qui, purtroppo, spesso la donna lo trova davanti al palazzo
dove ha sede il suo ufficio negli orari di uscita e ingresso, lo nota
mentre gironzola sotto casa di lei, riceve moltissimi squilli sul suo
cellulare, sa che chiede di lei in giro, tenta di conoscere i suoi
spostamenti, spera di sorprenderla in giro con un uomo, insomma non è
una vita facile.
Ora lei aspetta il
processo e tenta di riappropriarsi della sua esistenza e di tornare
alla normalità ma capisce che sarà molto difficile, lui, avendola
sposata, la considera sempre di suo possesso e ad una cultura così
bestiale non è facile sfuggire e qui subentra la paura di una donna
che si sente in pericolo e che alla luce dei femminicidi che stanno
insanguinando la nostra terra, ha paura di fare una brutta fine senza
che nessuno intervenga in tempo.
Roberto Nicolick
il genocidio Ucraino
Il genocidio Ucraino
Holodomor
Dal 1925 Stalin preso il
controllo totale dell'Unione Sovietica, iniziò una violenta campagna
di collettivizzazione
dell'agricoltura in modo da rendere omogeneo tutto il paese alle sue
direttive, inizialmente su base volontaria e poi vista la
impopolarità di questa proposta, su base coercitiva. Queste sue
indicazioni si scontrarono in modo particolare con le tradizioni
delle popolazioni rurali Ucraini, che detenevano la proprietà di
piccole aziende agricole le quali producevano in modo efficiente
piccole - medie quantità di derrate agricole con cui potevano
provvedere ai propri fabbisogni e anche a commercializzarle.
Con
la collettivizzazione
forzata, voluta da Stalin si ebbero sui contadini Ucraini effetti
particolarmente drammatici, in quanto si trattava di un esproprio di
tutte le proprietà in modo coatto e senza appello. Questi espropri
andavano contro un cultura locale secolare che aveva sempre dato
ottimi risultati nonostante il clima duro e rigido.
Il
termine Kulako fu coniato impropriamente dal Partito Comunista
Sovietico, per definire una classe sociale privilegiata, i contadini
riottosi ad allinearsi a norme aliene e suicide, e quindi creare un
bersaglio sociale da additare agli altri sudditi dell'impero
sovietico e successivamente da eliminare fisicamente.
Chi
possedeva tre mucche era considerato un possidente e quindi un nemico
da abbattere.
Gli
agricoltori Ucraini piuttosto che farsi espropriare i loro animali da
un governo centrale che perseguiva quel tipo di politiche economiche,
iniziarono ad abbattere i loro animali per non farseli sequestrare e
in molti casi si rifiutarono di seminare e raccogliere il grano per
protesta contro la collettivizzazione forzata.
Stalin
inviò in Ucraina moltissimi funzionari governativi, veri e propri
poliziotti, per attivare un ferreo controllo sulla produzione
agricola e creare delle fattorie collettive gestite da migliaia di
devoti Comunisti, inviati apposta per sostituire i contadini Ucraini
che non erano più giudicati affidabili dal potere centrale di Mosca.
La
repressione iniziò a farsi sempre più dura, in alcune località i
contadini esasperati reagirono con vere e proprie rivolte locali
attaccando i funzionari del governo e dando alle fiamme le poche
aziende collettive create artificiosamente dal governo Stalinista.
Nel
1929 – 30 la repressione comunista toccò il suo acme, con la
militarizzazione dell'Ucraina, l'uso personale dei prodotti della
terra fu giudicato un reato contro lo stato, condannando alla fame le
popolazioni Ucraine.
Grano,
barbabietole, patate e verdure di ogni tipo furono requisite dalle
brigate di assalto della polizia politica del regime comunista e
dalle forze di repressione, il territorio dell'Ucraina fu
praticamente circondato da una cintura sanitaria armata che impediva
il transito verso di esso di qualsiasi tipo di viveri. L'Ucraina
divenne di fatto un enorme campo di prigionia.
Anche
solo detenere quantità minime di grano o altre derrate equivaleva ad
essere arrestati e deportati nei famigerati gulag in Siberia, destino
che toccò a trentamila contadini e alle loro famiglie.
Il
risultato di questa politica odiosa fu una carestia che colpì
soprattutto le fasce più deboli, anziani, donne e bambini, una
carestia che fu un atto voluto e deliberato per annientare una
popolazione da tempo dedita all'agricoltura e per sostituire questo
popolo con elementi più fidati e devoti al regime comunista ex
bolscevico.
Grazie
a questi atti, repressione militare, deportazioni, immigrazioni
forzate, abbandono delle terre coltivate, e conseguente carestia si
stima che l'Ucraina ebbe ben sette milioni di morti, soprattutto
adolescenti e donne deceduti prevalentemente per fame e inedia.
Si
trattò di un genocidio voluto da Stalin e dal suo gruppo dirigente.
Questa
immane tragedia che i Sovietici tentarono di non far conoscere al
mondo civile e che da noi è poco è nota, prende il nome dalla
lingua Ucraina con il termine Holodomor che , tradotto, significa :
“infliggere la morte attraverso la fame” ed è attualmente
commemorata in Ucraina il quarto sabato di novembre.
la famiglia Navone di Albenga
Eccidi di famiglie intere
La famiglia Navone di Leca
di Albenga
Era una prassi scellerata
quella di eliminare completamente, giustiziandoli sommariamente,
interi nuclei famigliari che a discrezione dei partigiani, fossero
giudicati collaborazionisti dei Repubblichini, la stessa cosa se il
nucleo avesse un orientamento politico fascista.
A Savona fu sterminata la
famiglia Turchi in località Ciatti, a Natarella, sempre Savona,
scomparve la famiglia Biamonti domestica compresa e ad Albenga, fu
massacrata in modo plateale la famiglia Navone, formata da ben otto
elementi, in Leca di Albenga una frazione di Albenga.
Fu un fatto orrendo di
cui oggi , come allora, non si parla assolutamente, preferendo
focalizzare l'attenzione sugli eccidi commessi dai Nazi fascisti alla
foce del Centa, alle cui vittime deve essere portato rispetto e ne
deve essere alimentato il ricordo, senza tuttavia dimenticare le
altre vittime dell'odio e della intolleranza.
La famiglia Navone era
composta dal capofamiglia Giovanni, nativo di Villanova ma residente
a Leca, una frazione adiacente alla cittadina Ingauna. Egli era uno
squadrista convinto, aveva partecipato alla nascita del fascismo in
Liguria e in seguito aveva aderito alla Repubblica Sociale ,
sessantacinquenne, era un tipo deciso, aveva un curioso soprannome,
“pipetta”, poi c'era la moglie Maria Danielli, una casalinga
tutta dedita alle faccende domestiche, di 56 anni, c'erano ben
quattro figlie, Rosa, Bice, Rita e Irene , rispettivamente di 36,
35, 28 e 20 anni, e un figlio sedicenne Leo, colpevole di non si sa
cosa, forse solo del fatto di appartenere ad una famiglia con
spiccate simpatie Repubblichine.
In quei giorni, era
presente al momento dell'eccidio anche una nuora di Giovanni Navone,
Gina Fanucci di 31 anni, anch'essa venne accomunata nella
carneficina dei Navone, la sua colpa quella di aver sposato un figlio
di Giovanni, Elso, deceduto qualche tempo prima in un incidente
all'interno di una caserma di Albenga dove prestava servizio nella
Guardia Nazionale Repubblicana.
Questa strage, che nulla
aveva a che fare con la Liberazione, fu accreditata ufficialmente
come opera di ignoti. Albenga dal 1943, era un crocevia di violenze,
personaggi con la divisa della gendarmeria Tedesca, ma che Tedeschi
non erano, imperversavano sulla popolazione civile che ne era
terrorizzata.
All'indomani del 25
aprile 1945 iniziarono le vendette che secondo un teorema morale
avrebbero dovuto riscattare da 20 anni di oppressione e violenze
fasciste. In realtà ai vecchi dominatori si erano sostituiti, almeno
temporaneamente, altri soggetti dal mitra facile che volevano lavare
il sangue con altro sangue.
Qualcuno addebitava a
Giovanni Navone una attività di delazione, nello specifico a danno
della fidanzata di un noto capo partigiano. La povera ragazza,
arrestata dai nazisti subì delle sevizie e morì in seguito a queste
torture.
Il capo partigiano,
colpito negli affetti, colmo di odio vendicativo, si presentò la
sera del 26 aprile 1945 probabilmente non da solo, alla porta della
famiglia Navone, imbracciava un pesante fucile mitragliatore, forse
un MP40 tedesco, con cui spesso si faceva fotografare mentre lo
imbracciava, oppure un Thompson di fabbricazione Americana e senza
andare tanto per il sottile, iniziò a sparare nel mucchio,
freddamente e metodicamente, passando implacabile, da un bersaglio
all'altro e scavalcando i corpi dei morti, subito freddò la moglie
di Pipetta che gli aprì l'uscio, poi inseguì le ragazze che urlando
di terrore cercavano di sfuggire alle raffiche, qualcuna cercò di
nascondersi sotto il tavolo ma fu colpita anche lei ugualmente.
Inseguì le sue vittime nelle camere da letto e le abbatté, quindi
si trovò di fronte il capofamiglia e il ragazzino, Leo e con una
lunga raffica, pressoché ininterrotta ammazzò anch'essi e per
ultima freddò la nuora di Giovanni che si era rincantucciata
tremante in un angolo.
In quella casa c'era
anche un piccolo animale domestico, che venne ucciso anch'esso,
forse per qualche pallottola vagante, oppure perchè c'era la volontà
di annullare tutto di quella famiglia, dimostrando l'odio assoluto e
la totale mancanza di sentimenti umani sfogando il proprio rancore su
delle donne e su un adolescente e persino su un gatto.
Presumo che le sue
vittime, implorarono pietà, mentre le mitragliava, ma lui non la
concesse, mettendosi sullo stesso piano dei boia che avevano
torturato e ucciso la sua fidanzata. Voleva solo vendicarsi, ed era
arrivato a compiere quella strage senza nessuna indagine, basandosi
solo su voci di paese, senza contare che se effettivamente ci fosse
stata una spia nella famiglia Navone, non tutta la famiglia comunque
doveva essere sterminata ma solo il responsabile.
Quando l'assassino si
allontanò dal teatro dell'eccidio, lasciò dietro di sé una scena
da film dell'orrore : sangue ovunque, sui muri, sul pavimento e sui
mobili, corpi quasi smembrati dal calibro da guerra del fucile
mitragliatore, odore pungente di cordite e tanta devastazione.
Quell'uomo che senza
esitazione, sparse tanto sangue, senza chiedersi se fosse innocente,
in seguito, fu insignito della medaglia d'argento al Valore Militare,
non credo e spero non per questo episodio che ha solo del criminale.
Intervistato in una
trasmissione televisiva degli anni 90 , ammise con freddezza “
qualcuno l'ho tolto di mezzo” , chissà se faceva riferimento alla
famiglia Navone che massacrò senza pietà ? Come tanti altri
partigiani, egli aveva un soprannome, che era tutto un programma :
cimitero, nomen omen.
In seguito sparì dalle
cronache e non fu più argomento di conversazione, invece i cadaveri
con cui lui riempì i cimiteri, si.
Roberto Nicolick
Il calesse del terrore Valle Tanaro
Il calesse del terrore
Valle Tanaro
1943 -1945
Non solo nei grandi
centri abitati, imperversava il terrore, ma anche nelle zone alpine
accadevano dei soprusi e degli omicidi. Le zone dove noi Liguri siamo
abituati ad andare in ferie, il basso Piemonte, furono teatro dal 43
al 45 di azioni di vero e proprio brigantaggio.
Ezio Bovero, Carlo
Camilla, Giuseppe Ruffino, Francesco Dante, Battaglieri, Cozzo,
sedicenti partigiani operanti nella Valle Tanaro nel 1943 -45, erano
infatti tristemente famosi nella zona del Cebano e della Valle
Tanaro, giravano armati su di un calesse trainato da un cavallo. Il
veicolo su cui viaggiavano era soprannominato dai contadini della
zona, il calessino della morte, per dei motivi validissimi, connessi
alle esecuzioni sommarie di tanta brava gente, che nulla avevano a
che fare con il Fascismo, e i principali esecutori, Bovero, Camilla e
Dante erano noti come il terzetto del terrore.
Mentre le formazioni
partigiane Mauri erano in montagna per sfuggire ai rastrellamenti
dei Nazi fascisti, questi dormivano nei loro letti, al caldo delle
loro case, da cui partivano per effettuare ruberie, spoliazioni ed
esecuzioni sommarie a Bagnasco, Ceva, Mombasiglio. Era una vera e
propria banda armata, senza scrupoli che ben poco aveva a che fare
con la resistenza .
Secondo il Maresciallo
dei Carabinieri di Bagnasco, Ascione che indagò sulla banda
autodenominatasi della stella rossa, questi soggetti, erano stati un
tempo alle dipendenze e soprattutto alla scuola di un sedicente
ufficiale partigiano, Dino Mora, il quale forniva le indicazioni
strategiche su come agire nel territorio.
Mora , come i suoi
compagni di violenze, provenivano da una formazione Mauri, quindi da
un gruppo non comunista, in seguito compresa la situazione di
impunità in cui si trovavano ad agire e la assoluta mancanza di
leggi, decisero di mettersi in proprio e si staccarono dalle
formazioni Mauri.
Dino Mora, accusato di
aver compiuto diversi omicidi ingiustificati, per esempio quello di
un ingegnere civile Fulvio Albesano, di un militare Tedesco che si
era arreso anche e di violenza carnale ai danni di una povera
contadina, fu arrestato e condannato alla pena capitale, poi eseguita
mediante fucilazione.
Morto Mora, i suoi
compagni, non si fermarono anzi continuarono ad imperversare nella
Valle Tanaro imponendo la loro legge.
Per meglio marcare la
loro diversità dai Mauri e per darsi una identificazione politica,
si erano cuciti una stella rossa sulle uniformi.
Un'altra vittima della
banda fu il Segretario Comunale di Bagnasco, Berruti, in tale
occasione gli assassini affermarono che le esecuzioni erano decise da
loro in piena autonomia e che quando c'era da eseguirle non era
necessario alcun ordine da nessuno.
In tale occasione il
povero Oreste Berruti fu ucciso mentre era in ginocchio,
terrorizzato, che pregava con un rosario tra le mani giunte. Dopo che
fu ucciso qualcuno dei tre assassini gli tolse il portafoglio dalla
tasca posteriore dei pantaloni, il tutto davanti alla moglie della
vittima che dovette assistere alla morte del marito.
Berruti non era
assolutamente un fascista anzi, aveva sempre aiutato i patrioti,
quelli veri, e per questa sua esposizione era anche stato arrestato
dai Tedeschi, ma nonostante questo non ci fu nulla da fare, fu
assassinato dal terzetto del terrore.
Un'altro episodio
efferato di questi briganti con la stella rossa, fu l'omicidio della
Maestra Cristina Barberis e del tentato omicidio del figlio di lei,
Attilio che riuscì a fuggire benchè ferito dalle pallottole che
Bovero e Camilla gli spararono addosso.
Il 27 aprile del 1945,
ancora la squadra capitanata dai tre, arrestò e ammazzò senza pietà
Carlo Boschetti, unicamente perchè indossava la divisa da marinaio.
Quando fu preso egli affermò che si stava recando da una formazione
partigiana a consegnarsi.
Anche un Carabiniere,
certo Del Buono, non sfuggì alla morte, perchè secondo i tre, egli
manifestava odio per i partigiani ed aveva simpatie per i fascisti,
in realtà il povero carabiniere si era congedato dall'arma per non
essere inglobato nelle Brigate Nere. Dopo le esecuzioni sommarie i
banditi dicevano ai parenti delle vittime, che loro applicavano “la
legge del mitra”.
Questo gruppo aveva
potere di vita o di morte su tutti in quella zona. Si erano anche
procurati una lista di proscrizione in cui c'erano i notabili e i
benestanti della zona da taglieggiare. Nel marzo del 49, la giustizia
fece il suo corso e i criminali furono rinviati a giudizio e
processati presso la Corte di Assise di Novara.
Durante il processo fu
ascoltato lo stesso Comandante Mauri il quale espresse l'opinione
della esistenza di una regia esterna, che indirizzasse le azioni
degli imputati. Anche i parenti delle numerose vittime accertate si
presentarono come parte civile per fare valere le loro ragioni.
Il Pubblico Ministero
chiese per i principali imputati trenta anni a testa , più diverse
somme alle parti civili. Il 30 marzo 1949, dopo sei ore di camera di
consiglio, il Tribunale di Novara riconobbe Ezio Bovero e Carlo
Camilla colpevoli di omicidio continuato aggravato, con le attenuanti
generiche, e li condannò a venticinque anni di reclusione, Dante per
concorso in omicidio a nove anni e sei mesi, Giuseppe Ruffino a
cinque anni per rapina, Fortunato Cozzo e Francesco Battaglieri a
due anni per furto. Condannava inoltre gli imputati a versare alle
parti lese delle somma da ottanta mila a duecentoquarantamila lire.
Purtroppo le sentenze di
condanna parvero sin troppo lievi di fronte al clima di terrore che
essi avevano imposto e mantenuto oltre a tutte le vite che erano
state ingiustamente spezzate da questa banda che aveva agito troppo
tempo indisturbata.
Roberto Nicolick
Katyn
Katyn, una verità
insabbiata per lunghi anni
Fra l'aprile e il maggio
del 1940, Stalin uno dei dittatori più sanguinari della storia,
attuò la parte finale di uno degli orrendi esperimento di
ingegneria sociale per cui i Comunisti Sovietici erano famosi: la
eliminazione fisica e l'occultamento di circa 22 mila ufficiali di
tutti i gradi dell'Esercito Polacco.
Non tutti erano militari
di carriera, molti di essi erano allievi ufficiali di complemento,
appena usciti dalla vita civile, insegnanti, impiegati, medici,
ingegneri, quindi non solo i Sovietici eliminarono i quadri dirigenti
dell'esercito Polacco ma disarticolarono anche gran parte della
intellighenzia della Nazione e arrivarono anche a deportare le mogli
e i figli di questi uomini nell'arcipelago gulag dove la quasi
totalità morirono di stenti.
La strage per la maggior
parte avvenne tra gli alberi secolari di una foresta, a Katyn, dove
vennero scavate otto grandi fosse comuni, 16 per 28 metri, che
dovevano accogliere le vittime, ma moltissimi altri ufficiali furono
assassinati nei locali di prigioni gestite dall'NKVD.
L'idea di questa pulizia
etnica fu di Laurenti Beria, un burocrate comunista, una mente
organizzativa e malvagia, molto simile ad Eichman, il quale era a
capo del NKVD ( commissariato del popolo per gli affari interni),
una potente polizia politica operativa sino al 1953.
Le vittime dopo essere
state concentrate per alcuni giorni in campi di prigionia, venivano
caricati su automezzi pesanti Mercedes, senza finestrini, e
trasportati sino al bordo delle fosse comuni, tutti con le mani
legate dietro la schiena e in quel posto assassinati con un colpo
alla nuca e fatti cadere nella fossa, in cui erano disposti a strati,
uno sull'altro, sino a raggiungere la dozzina di strati.
Tutti questi movimenti di
camion non passarono inosservati agli abitanti del luogo che, in
diverse occasioni, vennero non visti, a curiosare e poterono
assistere da lontano ad alcune esecuzioni, saranno loro che
indicheranno in seguito alle truppe Tedesche la dislocazione di
queste fosse comuni.
Le armi usate erano di
fabbricazione Tedesca e anche le munizioni, per far ricadere la colpa
sui Nazisti con cui Stalin si era spartito la Polonia.
Il massacro fu coperto da
una cortina di segretezza per non alienarsi gli aiuti degli alleati
Anglo Americani.
Nel 1943, la Wermarch
invase la Russia e arrivando a Katyn scoprì, grazie alle indicazioni
degli abitanti, le fosse comuni e rinvenne migliaia di corpi tutti in
divisa da ufficiale polacco, con le mani legate, uccisi con un colpo
alla nuca e soprattutto con addosso i loro documenti militari di
riconoscimento.
I Sovietici negarono
sempre con forza un loro coinvolgimento che comunque era chiaro ed
evidente.
In Italia, dopo la caduta
del Regime Fascista , ex partigiani nonchè dirigenti del P.C.I.
Minacciarono fisicamente chiunque volesse addebitare l'eccidio ai
loro compagni sovietici, mentre in Russia tutta la documentazione
che avrebbe provato la responsabilità dei Sovietici venne sepolta
negli immensi archivi segreti del KGB
Negli anni 90, Gorbaciov
ammise la strage e porse le scuse del Popolo Russo alla Polonia, nel
2010 anche se tardivamente gli archivi sovietici desecretarono e
misero a disposizione del Governo Polacco tutti i documenti relativi
all'eccidio.
Nel 2007, il regista
Polacco Andrzey Wajda girò un film “Katyn”, in cui narrava la
vicenda senza censure, egli era figlio di uno degli ufficiali
massacrati dai Sovietici, il film concorse anche all'Oscar ma non
trovò in Italia una grande catena di distribuzione che lo volesse
pubblicizzare degnamente e non potè essere proiettato che in
pochissime sale cinematografiche.
Ci fu una vera e propria
censura strisciante, indegna di un paese civile, come se si avesse
vergogna o paura ad ammettere che i Sovietici avessero compiuto un
eccidio di quella portata.
Il film dovette
affrontare un muro di gomma che gli impedì di essere visto
soprattutto nelle scuole o in tutti quei luoghi idonei ad una
divulgazione della verità storica, senza i filtri e i freni dei
burocrati di partito. Già da anni, subito dopo il 1945, i comunisti
si erano impadroniti dei gangli di potere e il cinema come tanti
altri era stato monopolizzato dalle sinistre che concedevano o no il
nulla osta a film molto peggiori di Katyn ma allineati con il
conformismo di sinistra.
Roberto Nicolick
La grande fuga dal carcere del Piazzo , Biella
La grande fuga del
carcere di Biella, il Piazzo
Biella, la ridente città
del Piemonte, si divide in Biella Piano e Biella Piazzo. Biella
Piazzo è la zona più antica di Biella, il borgo medioevale e
rispetto alla parte nuova leggermente sopraelevata, sede da tempo
immemorabile della casa Circondariale divenuta poi Carcere
Giudiziario.
Il carcere è una vecchia
struttura, tuttora esistente che verrà ristrutturata per ospitare
dei locali ad uso civile, con un grande cortile centrale, ai tempi
del carcere giudiziario, era chiamato famigliarmente da chi vi
abitava, sia dai galeotti che dalle guardie e dai Biellesi “il
Piazzo”.
Questa struttura
carceraria, antiquata anche per quei tempi, fu nel settembre del
1946, il teatro di una gigantesca evasione , esattamente il giorno
17, sabato alle 10 del mattino poco dopo la colazione, avvenne una
grande fuga per molti versi inspiegabile, in cui 39 prigionieri su
92, controllati da soli 6 agenti, presero il volo, uscendo
tranquillamente in corteo dal portone principale, addirittura
cantandosela allegramente, mentre a poche decine di metri c'era una
importante caserma dell'Esercito Italiano, sede del 22° reggimento
Cremona, con una sentinella armata nella guardiola che non intervenne
minimamente.
I reclusi del Piazzo,
erano di diverse tipologie, divisi tra loro, tranne un gruppo molto
omogeneo di una trentina , tutti ex partigiani , in attesa di
giudizio per reati per cui, se giudicati colpevoli, avrebbero dovuto
scontare condanne da 10 a 20 anni di carcere. Erano tutti esperti di
guerriglia con alle spalle attività di natura bellica condotta
contro le truppe Tedesche e Repubblichine.
Nella prima fase
dell'evasione, un detenuto finse di avere un malore e convinse la
guardia ad aprirgli la porta della cella dove erano reclusi altri 5
suoi compagni, lo immobilizzò e dopo averlo disarmato, con le chiavi
trovate nel posto di comando, liberò gli altri reclusi, comprese le
donne.
Poi i detenuti sempre più
numerosi, immobilizzarono le altre guardie costringendole ad aprire
i pesanti cancelli che isolavano il primo piano dal secondo.
Nel frattempo un
personaggio con una divisa approssimativa : una giacca color caki,
bussò alla portone del carcere per distrarre gli agenti a piano
terra e per immobilizzarli successivamente all'arrivo dei detenuti
dai piani superiori.
Mentre si avvicinavo al
cancello principale i reclusi avrebbero prelevato altre pistole alle
guardie poi sarebbero usciti, come in corteo, imboccando la stradina
in discesa, il vicolo del Bellone.
E sempre cantando si
sarebbero sparsi per i campi dove avrebbero raccolto delle mele da
degli alberi lungo il loro cammino. Prima di uscire qualcuno avrebbe
tagliato i fili del telefono per impedire qualsiasi comunicazione.
Dal portone uscirono 38 detenuti e l'ultimo della fila , si chiuse il
portone alle spalle, impedendo di fatto agli altri di guadagnare la
libertà. Una signora affacciata da casa sua, vide in diretta
l'evasione e telefonò al Commissariato avvisandoli dell'evasione.
Alcuni agenti si Pubblica
Sicurezza corsero sul posto e constatarono la fuga, avvisando
immediatamente i Carabinieri. Da Vercelli, la piazza militare più
importante, partirono immediatamente alcuni automezzi carichi di
militari che giunti sul posto iniziarono delle battute per riprendere
gli evasi.
Il che avvenne non senza
fatica, 8 furono arrestati dopo una furibonda colluttazione nelle
immediate vicinanze del carcere, un altro, con precedenti per rapina,
fu ferito dopo una sparatoria con i Carabinieri, gli altri ancora
latitanti avrebbero progettato di attraversare i valichi per fuggire
in Francia e in Svizzera, a tale scopo starebbero per raggiungere
alcuni depositi clandestini di armi, accantonati da loro durante la
guerra partigiana per potersi armare e aprirsi la strada verso le
loro destinazioni di fuga.
Nel pomeriggio altri 3
evasi venivano tratti in arresto, ne rimanevano ancora in libertà
26, tutti con precedenti pesanti come rapina a mano armata e
omicidio, quindi soggetti altamente pericolosi. I carabinieri dei
comandi provinciali di Vercelli, Alessandria e Aosta convergevano
con rastrellamenti a tappeto e con numerosi posti di blocco, attorno
a Biella.
Ad aggravare la
situazione c'era che questi evasi ancora in libertà erano
sicuramente organizzati in quanto, quasi tutti provenienti dalla
guerra partigiana e anche armati, avendo attinto ai depositi
clandestini di armi alla cui costituzione hanno partecipato durante
il periodo insurrezionale. La maggior parte di essi non verranno mai
ripresi.
la strage dei 121 carabinieri reali a Fushe Gura
La strage dei 121 Carabinieri Reali a Fusche
Gurra ( Albania )
16 /18 novembre 1943
Fusche
Gurra in lingua Albanese significa Altopiano o pianura con l'acqua,
in effetti è una grande radura, il cui terreno è impregnato di
acqua, a circa 1000 metri di altezza, circondata da boschi fitti e
selvaggi e attraversata da un torrente che impetuosamente scende a
valle, in questo luogo, a novembre 1943, si consumò un orrendo
crimine di massa, assurdo e senza ragioni. Fusche Gurra si trova
sull'altipiano di Cermenike,
Più
di cento Carabinieri, 121 o secondo alcune versioni 129 , compresi i
loro ufficiali e il loro comandante, vennero massacrati da partigiani
comunisti Albanesi in questo sito, dopo un calvario di brutalità e
di sevizie, probabilmente in due momenti diversi.
L'ufficiale
in comando dei carabinieri era il Colonnello Giulio Gamucci, di
Firenze che morì dopo immani sofferenze, con i suoi soldati. Chi
guidò praticamente e concretamente questa sporca azione
partecipandovi armi in pugno, fatto che non ha nulla di militare, ma
che fu solo una carneficina, fu tale Xhelal
Staravecka di nazionalità Albanese, che ricopriva il grado di
capitano del 2° battaglione della 1° Brigata d'assalto, il quale
dipendeva dal comandante di Brigata Kadir Hoxha.
E'
una storia quasi sconosciuta in Italia, se non in certi ambienti,
soprattutto storici o militari, ancora oggi non se ne parla. Il
fatto è noto in tutta la sua completezza per la testimonianza di un
militare del Corpo degli autieri che assistette personalmente
all'eccidio e che testimoniò nonostante le minacce da parte Albanese
: “il piombo Albanese ti raggiungerà anche a Napoli”.
Il
reparto di Carabinieri, noto come colonna Gamucci faceva parte della
Legione Carabinieri Reali di Tirana.
Durante
la seconda guerra mondiale, l'Albania era stata occupata dalle forze
dell'Asse, per gli Italiani era dispiegata la IX armata, denominata
Comando superiore forze armate Albania con l'incarico della
difesa del territorio albanese, della Dalmazia meridionale, fino al
corso del Narenta, del Kossovano e del Dibrano per proteggere il
confine Albanese in direzione sud est e operare dei rastrellamenti
contro la guerriglia delle formazioni partigiane albanesi e
Jugoslave.
L'8
settembre 1943, con l'armistizio tra l'Italia e gli alleati i
reparti della IX armata al comando del Generale Dalmazzo cessarono di
avere efficacia militare, mentre le truppe Germaniche senza colpo
ferire occupavano le posizioni nevralgiche in Albania. Le truppe
Italiane che scelgono di non collaborare con gli ex alleati vengono
fatte prigioniere.
Il
reparto del colonnello Gamucci in custodia ai Tedeschi viene
trasportato, a fine settembre, su un treno verso Bitola in Bulgaria,
nel corso di alcuni attacchi di formazioni partigiane fu preso da
partigiani che si professavano comunisti che odiavano i Carabinieri
in quanto tali e in quanto Italiani.
La
sopravvivenza dei prigionieri andò avanti per qualche mese, poi in
base ad un ordine segreto del capo di stato maggiore Albanese, Memet
Shehu, tutti i Carabinieri vennero disarmati ed internati nel più
orrendo dei lager Albanesi, Tepelene. In più erano stati anche
condannati a morte su decisione inappellabile e inspiegabile, dal
Partito Comunista e avrebbero dovuto essere, testuale, “uccisi
come cani”, come disposto dal comando generale.
L'odio
dei partigiani comunisti Albanesi verso i Carabinieri, era evidente
e non dissimulato. La strage era stata programmata dai vertici della
Brigata e come tante atrocità, compiute sugli Italiani doveva
rimanere segreta per non creare conflitti con gli Alleati, molto
sensibili a questi argomenti, i quali non dovevano interrompere gli
aviolanci con viveri ed armi destinati ai partigiani rossi.
La
mattina del 16 novembre 1943, iniziò un orrore senza fine, tutti i
Carabinieri, più qualche ufficiale compreso il comandante, Gamucci
furono costretti a marciare, con i polsi legati dietro la schiena
dal lager partigiano, percorrendo una distanza incredibile, 250 km
senza scarpe, su e giiù per sentieri impervi, da colline e montagne
tra bastonate, calci e pugni e umiliazioni pesantissime. I
prigionieri nella parte finale del percorso percepirono la loro
imminente fine.
Raggiunto
l'altipiano, mentre i loro carnefici posavano a terra lo zaino per
avere le mani libere, i prigionieri divisi in piccoli, gruppi furono
portati nelle vicinanze del canalone dove scorreva il torrente, gli
furono prese le uniformi, e gli effetti personali, quindi
completamente nudi, furono assassinati con il classico colpo alla
nuca.
Le
esecuzioni sommarie avvennero a breve distanza gli uni dagli altri,
per cui i poveretti poterono sentire quello che accadeva ai loro
commilitoni al di là della cortina di vegetazione: spari e gemiti
umani. Il bosco divenne un luogo dell'orrore con corpi sanguinanti,
materia celebrale a terra e sui tronchi degli alberi.
Il
cosiddetto “ capitano “ Xhelal Staravecka, menò vanto in
quella occasione, di aver ucciso , solo lui, ben 17 militari , salvo
a tenere un atteggiamento vile sotto il fuoco nemico.
Poi
i boia Albanesi ispezionarono la bocca dei cadaveri e a corpo ancora
caldo, strapparono i denti d'oro per portarli come prova
dell'avvenuto massacro e diligentemente fecero l'inventario delle
uniformi, scarpe, anelli, penne, orologi sottratte prima della
mattanza, tutto materiale che doveva essere accantonato nei magazzini
dell'intendenza, tranne qualche divisa che indossarono subito.
Il
battaglione Albanese dormì tranquillamente sul posto accanto ai
cadaveri che non furono seppelliti anzi abbandonati alla azione delle
intemperie, dopo qualche giorno, finirono nel corso d'acqua che li
trascinò a valle contribuendo alla loro quasi completa distruzione.
In seguito la Gazzetta Ufficiale Albanese pubblicò i nomi dei
“giustiziati” indicandoli come nemici del comunismo. Nelle
settimane successive, nello stesso luogo furono sterminati anche i
rimanenti ufficiali dei Carabinieri tanto per fare l'en plein.
C'è
una voce non confermata, secondo cui a ordinare materialmente la
morte dei 121 Carabinieri fosse stato anche un Italiano rinnegato,
ex sergente della Divisione Arezzo, divenuto poi capo di una brigata
partigiana, tale Terzilio C. a cui in seguito la Repubblica Italiana
concesse la Medaglia D'Oro al V.M. Di più, su un monte in Albania,
sorge un monumento celebrativo di questo bel personaggio.
Attualmente
il suo cadavere è sepolto in Italia, mentre i corpi dei Carabinieri
, ufficialmente dispersi, nonostante numerose missioni di ricerca,
non hanno ancora una tomba, bisognerebbe scavare il letto del
torrente che li trascinò a valle, per una profondità di alcune
decine di metri, per trovare almeno le piastrine di riconoscimento di
questi poveri ragazzi.
Nessuno
dei ex militari Italiani che combatterono nelle file della resistenza
Albanese fiatò mai di questa strage una volta tornati in patria, e
questa non fu l'unico sterminio di militari Italiani prigionieri da
parte di partigiani comunisti Albanesi, infatti in alcune zone
montagnose non si poteva andare per il fetore di decomposizione. Su
queste stragi, i media Italiani non pubblicarono quasi nulla e
l'opinione pubblica non venne informata in modo adeguato.
Su
questo crimine contro l'umanità un carabiniere in congedo, pochi
anni fa, scrisse un libro che racconta in modo dettagliato ed
esaustivo i fatti. Per la cronaca uno dei protagonisti della strage
, un importante comandante Albanese fu processato durante la
dittatura comunista e condannato all'ergastolo per tappargli la bocca
su questo e molti altri eccidi di Italiani sul suolo di Albania.
Roberto
Nicolick
Iscriviti a:
Post (Atom)
-
Anna Maria Araldo 25 aprile 1945 Un altro caso Giuseppina Ghersi in Valbormida Un martirio accuratamente nascosto e dimenticato ...
-
Da Prometeo, il sito per eccellenza anti - pedofilia LA STORIA DI SILVESTRO. Silvestro ha 9 anni, lo sguardo furbetto e il nome simpatico, ...
-
Nel mezzo di multisale cinematografiche, Megapalestre, centri commerciali e ristoranti ecco un classico esempio di degrado e di abbandono, s...